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Così gli immigrati aiutano la finanza pubblica inglese

Il 44 per cento dei cittadini europei ritiene che gli immigrati ricevano di più in trasferimenti pubblici di quanto contribuiscano in tasse. Ma sono timori ingiustificati, almeno per quanto riguarda la Gran Bretagna. Il contributo netto di migranti più giovani e più istruiti degli inglesi.
TIMORI PER IL WELFARE
Il timore che l’immigrazione possa mettere sotto pressione i sistemi di welfare nazionali e rappresentare un costo per la finanza pubblica dei paesi ospiti è diffuso tra i cittadini di molti stati europei. Per esempio, secondo la European Social Survey del 2008, il 44 per cento dei cittadini europei ritiene che gli immigrati ricevano di più in trasferimenti pubblici di quanto contribuiscano in tasse, mentre solo il 15 per cento pensa che ricevano meno. Secondo diversi studi, i potenziali costi fiscali dell’immigrazione e il timore del cosiddetto welfare shopping, cioè di una migrazione finalizzata a sfruttare la generosità dello stato sociale dei paesi ospiti, sono tra i principali motivi di opposizione a politiche migratorie meno restrittive. Questi timori sono particolarmente forti nel Regno Unito, un paese che ha visto intensificarsi l’arrivo di immigrati nell’ultimo decennio in seguito all’allargamento a Est dell’Unione Europea. Nell’opinione pubblica è diffusa la percezione che i nuovi immigrati dall’Europa orientale rappresentino un costo per lo stato sociale britannico. E questa convinzione, che trova eco in numerose dichiarazioni di autorevoli membri del Governo britannico potrebbe avere avuto un ruolo nel successo del partito populista euroscettico Ukip, caratterizzato da una piattaforma fortemente anti-immigrazione.
LE TASSE DEGLI IMMIGRATI
Ma questi timori sono giustificati? No, secondo uno studio che ho condotto insieme a Christian Dustmann. Basandoci su dati di bilancio del governo inglese e sulla UK Labour Force Survey abbiamo calcolato il contributo fiscale netto dei nativi britannici e di diversi gruppi di immigrati, assegnando a ogni gruppo la propria quota di costo per ciascuna voce di spesa pubblica e identificandone il contributo alle diverse fonti di gettito. La nostra analisi si è concentrata soprattutto sulla coorte di immigrati più recenti, arrivati nel Regno Unito a partire dal 2000, suddivisi per aree di origine. In particolare distinguiamo tra immigrati provenienti dai dieci nuovi stati membri dell’Unione Europea (A10: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Ungheria), dagli altri paesi dell’area economica europea (Eea: UE15 più Liechtenstein, Svizzera e Norvegia) e da paesi al di fuori dell’area economica europea (non-Eea). I nuovi immigrati nel Regno Unito sono in media più giovani della popolazione autoctona (26-27 anni contro 41) e hanno livelli di istruzione mediamente più elevati. Per quanto riguarda l’inserimento lavorativo, gli immigrati europei hanno tassi di occupazione elevati, simili a quelli britannici per quanto riguarda i cittadini dell’Europa occidentale, ma notevolmente più alti per gli immigrati est-europei, che sono in compenso caratterizzati da salari mediani inferiori. Gli immigrati da paesi non-Eea hanno invece un tasso di occupazione inferiore rispetto a quello dei britannici. Come si traduce questo profilo socioeconomico in termini fiscali? La figura 1 riporta il rapporto tra contributi versati e spesa pubblica ricevuta per i nativi e i tre gruppi di immigrati negli anni fiscali 2001-2011. Per ciascun gruppo della popolazione la linea ha un valore superiore a 1 negli anni in cui il gettito fiscale generato è stato superiore alla spesa di cui ha beneficiato, cioè vi è stato un contributo fiscale netto positivo, mentre è inferiore a 1 negli anni in cui il contributo fiscale netto è stato negativo.

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Figura 1

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Due aspetti sono evidenti: in tutti gli anni il contributo netto degli immigrati arrivati a partire dal 2000 è stato superiore a quello dei nativi (con la sola eccezione degli A10 nel 2002, anno nel quale vi erano pochissimi immigrati dall’Europa orientale in Gran Bretagna); i nativi hanno contributi fiscali netti negativi in quasi tutti gli anni, mentre per i nuovi immigrati è vero il contrario. Complessivamente, tra il 2001 e il 2011 i nuovi immigrati dai paesi A10 hanno contribuito al sistema fiscale il 12 per cento in più di quanto siano costati, totalizzando un contributo netto di circa 5 miliardi di sterline (in termini reali nel 2011). Durante lo stesso periodo i contributi fiscali dei nuovi immigrati dagli altri paesi Eea sono ammontati a 15 miliardi di sterline, con un gettito del 64 per cento più alto rispetto al proprio costo. Gli immigrati recenti arrivati dai paesi non-Eea, infine, hanno avuto un contributo fiscale netto di circa 5 miliardi di sterline, conferendo nelle casse pubbliche il 3 per cento in più di quanto ne abbiano prelevato. Complessivamente quindi i flussi recenti di immigrazione nel Regno Unito hanno portato a un saldo positivo di circa 25 miliardi di sterline per le finanze pubbliche, durante un periodo nel quale si sono registrati frequenti deficit di bilancio e i nativi britannici hanno accumulato tra il 2001 e il 2011 un costo fiscale netto di 617 miliardi di sterline.
IL VALORE DELL’ISTRUZIONE
La maggior parte dei nuovi immigrati arriva nel Regno Unito dopo avere ricevuto un’istruzione all’estero, e quindi in un momento della propria vita nel quale il valore netto scontato dei propri contributi fiscali futuri è positivo. Inoltre, portando con sé il proprio capitale umano acquisito all’estero e finanziato dai paesi di origine, gli immigrati arricchiscono la Gran Bretagna con nuovo capitale umano a costo zero. Secondo le nostre stime, che tengono conto anche del fatto che gli immigrati recenti sono spesso occupati in mansioni per i quali sono sovra-qualificati, l’immigrazione dal 2000 ha fornito al Regno Unito capitale umano che è stato utilizzato produttivamente e che sarebbe costato 6,8 miliardi di sterline se fosse stato prodotto attraverso il sistema scolastico britannico. Il contributo in termini di capitale umano è dunque un aspetto importante, ma spesso ignorato, nel dibattito sui costi e i benefici dell’immigrazione.

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10 commenti

  1. Giorgio Agresti

    Il contributo dei nativi è stato corretto per l’anzianità, o si comparano giovani immigrati con abitanti locali anche anziani? Nel secondo caso, quest’analisi è priva di logica.

    • sottoscritto

      La logica è chiarissima, si comparano immigrati con cittadini del Regno Unito. L’autore mette in evidenza che il contributo degli immigrati tramite le tasse è maggiore dei costi che la sanità sostiene per loro. Gli immigrati sono mediamente giovani, per questo necessitano di poche cure e costano poco al sistema sanitario.
      Sarebbe privo di logica correggere per l’anzianità perchè il numero di immigrati anziani è irrisorio.

  2. PGiorgio Visintin

    Nel conto economico fatto manca la valutazione del minor costo per il Sistema Sanitario Britannico del fatto che gli immigrati hanno una età
    notevolmente giovane, questo comporta naturalmente una migliore salute ED UN MINOR COSTO.
    Credo che la stessa cosa capiti in ITALIA, con grosso modo gli stessi numeri di RISPARMIO.

  3. lallo

    Per far statistiche si posson considerare solo immigrati REGOLARIZZATI (gli irregolari sono trasparenti, e dunque impermeabili, a qualsivoglia analisi statistica seria). Per i regolari non si capisce il senso di questa analisi (a meno di non considerare una potenziale sproporzione, a lorofavore, dei nuclei familiari aventi diritto a welfare) dato che il rapporto costi-benefici non dovrebbe variare a seconda della nazionalità all’interno delle normative ufficiali del mercato del lavoro.
    Il COSTO dei clandestini, invece, che, ripeto, non è minimamente valutabile se non con ipotesi imbarazzanti, parte dall’economia in nero che essi favoriscono (esssendo inesistenti per lo stato) per proseguire coi costi della sanità di emergenza (a cui possono accedere) e sopratutto, la concorrenza sleale sul mercato del lavoro che essi stessi introducono. Stipendi che si abbassano anche per gli aventi cittadinanza (o ti accontenti di meno o subisci la concorrenza definitiva del lavoratore in nero -artigianato, piccoli servizi) che produce meno gettito per lo stato a parità di occupati e prestazioni (cittadini) da gestire.

    • sottoscritto

      La colpa del lavoro nero va attribuita principalmente ai datori di lavoro che approfittano della posizione di debolezza dei clandestini per sfruttarli e risparmiare. Accettano le condizioni soltanto perchè hanno necessità di lavorare.
      La sanità fornita ai clandestini è solo quella d’emergenza che influisce minimamente sui costi. Essendo in gran parte giovani e in salute i clandestini necessitano di poche cure mediche.
      In ogni caso l’articolo parla di immigrati regolari, a mio avviso il commento è fuori tema.

  4. Leon

    Uno dei tanti articoli pro immigrati che subdolamente vuole convincerci che l’immigrazione fa bene sempre e comunque.Quanti britannici non lavorano “per colpa ” degli immigrati ( e , al contrario dell’Italia, costano , perché visto che l’UK è un paese civile e c’è il reddito minimo garantito e altri benefit) ? Quel costo per i disoccupati sarebbe in percentuale minore , se ci fossero più occupati, ma questo non viene detto. E non solo : i contributi sarebbero maggiori senza concorrenza al ribasso degli immigrati e lavoro nero…Poi, altra cosa : si dipingono i “nativi” come un costo, sempre dal punto di vista capitalistico , chi costa meno va bene, chi si fa sfruttare più facilmente va bene, chi, “nativo”, pretende il riconoscimento dei suoi diritti, è un male, perché “costa”.E poi , ammesso e non concesso ( per i motivi scritti sopra che mi appaiono chiari e che “completano” l’articolo dal punto di vista economico, perché le cose le dobbiamo dire tutte, non solo quelle che ci convengono) , che vogliamo prendere per accettabile questa sua analisi, il “capitale umano ” che portano è anche la delinquenza ( ammettiamo pure questo) ? Lo sfruttamento del territorio dovuto a un eccesso o comunque a un aumento di popolazione ? E potrei continuare..

    • sottoscritto

      Gli immigrati non tolgono il lavoro a nessuno, chi ha studiato economia politica lo sa. E’ invece vero che nel lungo periodo portano a diminuire il salario medio. Dunque affermare che ci sono più cittadini del Regno Unito disoccupati a causa dei lavoratori immigrati è una falsità.
      Non mi pare che i nativi vengano dipinti come un costo, semplicemente l’autore analizza dei dati. I nativi avendo un’età media più alta necessitano di più cure e di conseguenza costano di più al sistema sanitario. Gli immigrati invece sono mediamente giovani quindi in salute, lavorando contribuiscono alle entrate con le tasse e il loro contributo è maggiore del loro costo.
      L’autore parla di immigrati regolari che non portano delinquenza. Inoltre, come spiegato nell’ultimo paragrafo, si tratta principalmente di persone qualificate cioè un guadagno per il paese che le ospita.

      • Leon

        Che non tolgano il lavoro ai nativi è una vostra opinione, una vostra auto-rassicurazione. Certo, i famosi “studi” che lei cita ( troppo facile dire “tutti i manuali dicono così, ma vabbé) 1 sono fatti molte volte da economisti vicini agli imprenditori o comunque di idee iperliberiste. Chi è che ci guadagna con concorrenza al ribasso e lavoro nero? 2 Se non dipinge i nativi britannici come “costo” allora cosa fa? Certo, gli immigrati sono più giovani e quindi usufruiscono meno del SSN ( e anche qui ci sarebbe da dire: i ricongiungimenti familiari. I parenti anziani che si ricongiungono forse non sono stati contati), quindi i nativi che invecchiano, costano, quindi…scusate se invecchiano i nativi..poi rimane sempre valido il discorso scritto sopra. Se in un lavoro X al posto dell’immigrato ci fosse un nativo, nel medio-lungo periodo ( e anche nel breve direi) i contributi sarebbero maggiori visto che i nativi pretendono condizioni di lavoro migliori, oltre al fatto che il lavoro nero diminuirebbe. Certo ,a voi immigrazionisti e ai vostri amici imprenditori questo discorso non sta bene, ma chi se ne frega aggiungerei.. Oltre, come detto, del consumo del territorio e della sovrappopolazione (in Svizzera ci sarà un altro referendum il 30/11), e dei consumi: meno immigrati=meno rimesse= più € che rimangono=più consumi=più economia che gira.

  5. AM

    Purtroppo la situazione italiana riguardo all’immigrazione è significativamente diversa da quella del Regno Unito, soprattutto con riferimento alla qualità dell’immigrazione

  6. Michele

    Articolo interessante, ma la cui logica sottostante non mi è molto chiara.
    L’analisi vuole approfondire quanto contribuisce l’immigrato regolare.Regolare.
    Ora , tra gli immigrati regolari, soprattutto considerando l’UK, ci sono tantissimi che lavorano a Londra, nel finance, e che arrivano da tutta Europa e da tutto il mondo.
    Le stesse università (da cui poi entreranno nel mondo del lavoro) sono molto più internazionali, e attraggono i migliori (l’Erasmus è un’altra cosa).
    Come è stato già fatto notare, sarebbe interessante replicare lo studio per altri paesi europei, in primis l’Italia.
    In secondo luogo, sarebbe da fare uno studio analogo sugli irregolari, per poterlo comparare..
    Trovo corretto invece non considerare l’età come fattore discriminante (è un dato di fatto da tenere in considerazione, che anzi aiuta a capire meglio il perchè).

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