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Tfr in busta paga: perché sì e perché no

Le “dieci ragioni” contro la proposta di lasciare il Tfr in busta paga enunciate da Tito Boeri non mi convincono. È evidente che il superamento di questo istituto implica ostacoli e problemi di transizione non banali. Come si finanzieranno da domani le piccole imprese? Quali asimmetrie di trattamento si verranno a creare tra lavoratori? Tuttavia, ogni riforma dei regimi previdenziali determina ostacoli e diseguaglianze. Non mi soffermo, quindi, sui problemi legati all’attuazione della misura, ma sui principi più generali. In particolare, provo a elencare quattro ragioni per cui, secondo me, sarebbe opportuno lasciare ai lavoratori la libertà di scegliere come impiegare il proprio salario.
1 – Lasciare il Tfr in busta paga darebbe al lavoratore un’opportunità in più rispetto a quella che ha ora. Da domani potrebbe, se vuole, lasciare i soldi in azienda o metterli in un fondo previdenziale, oppure spenderli. La previdenza complementare non può essere creata in modo forzoso, altrimenti non possiamo classificarla come tale.  Il finanziamento alle piccole imprese non può essere messa a carico dei lavoratori, con rendimenti modesti e garanzie indirette che gravano sul costo del lavoro. Si tratta di una sorta di repressione finanziaria
2- È certamente vero che oggi molti giovani rischiano di non avere una pensione adeguata, ma è anche vero che l’ammontare di risparmio previdenziale forzoso in Italia è superiore a quello della gran parte dei paesi a noi simili. Ciò si evince dalle aliquote statutarie, ma anche dal fatto che, secondo stime recenti, i tassi di sostituzione medi (rapporto tra prestazioni e ultima retribuzione) al 2014, per un lavoratore dipendente di 65 anni con 40 anni di contributi, si aggira intorno al 70 per cento, contro il 48 per cento della Germania ed il 42 per cento della Svezia. Se teniamo conto, poi, della previdenza complementare (Tfr e fondi pensione), questo rapporto sale al 90 per cento per l’Italia, contro il 64 per cento della Germania ed il 54 per cento della Svezia
3- Il Tfr genera rischi di insolvenza. Le piccole imprese spendono, anziché accantonare, questi fondi. Se devono cessare l’attività perché hanno difficoltà economiche, potrebbero affrontare il fallimento e non pagare la liquidazione. In questo caso interviene il fondo di garanzia Inps (i cui costi sono a carico delle imprese e quindi anche dei lavoratori). Altrimenti evitano di licenziare a costo di prolungare la propria attività oltre il necessario. Ciò ingessa il mercato, ritarda le ristrutturazioni aziendali e non consente quella buona dose di distruzione creativa di cui l’Italia ha grande bisogno.
4- È giusto che le imprese paghino un’indennità al lavoratore licenziato. Ciò consente di “internalizzare” parzialmente i costi sociali della disoccupazione. Tuttavia, il Tfr non è un’indennità a vantaggio del lavoratore, ma il corrispettivo di un prestito del lavoratore all’azienda.
Uno dei problemi del sistema istituzionale italiano è che gli strumenti assicurativi e previdenziali di cui disponiamo sono spesso destinati a scopi per i quali non erano stati disegnati in origine. Ad esempio, le pensioni come ammortizzatori sociali, la cassa integrazione come sussidio di disoccupazione, il Tfr come finanziamento alle imprese e previdenza complementare. Sarebbe meglio cominciare a rimettere le cose al posto giusto.
 
La replica di Tito Boeri
Le ragioni addotte da Pietro Reichlin sono per lo più contro il Tfr in azienda, non contro il fatto di avere versamenti obbligatori a previdenza integrativa. L’anomalia italiana è nel prestito dei lavoratori alle imprese, non nell’avere previdenza integrativa con contribuzione obbligatoria. Le scelte del governo, raddoppiando la tassazione dei fondi pensione – e peraltro operando in modo retroattivo sul 2014 – spingono a uscire dalla previdenza integrativa proprio coloro che ne avrebbero maggiore bisogno, i lavoratori con bassi salari, che vengono tassati di meno facendosi trasferire queste somme in busta paga. E chi ritiene che un governo non dovrebbe porsi il problema della pensione futura di chi oggi ha salari bassi e carriere discontinue perchè queste persone se la cavano benissimo da sole e “non hanno bispogno della mamma” (o del papà), beh alla stessa stregua dovrebbe smantellare anche le pensioni pubbliche. Non mi sembra una grande idea.

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Se la corruzione diventa un alibi per non ridurre la spesa *

  1. Manrico Tropea

    Sacrosanto.

  2. Concordo in pieno, specialmente con il punto 3. Oggi la possibilità che un’azienda chiuda e non abbia i soldi per corrispondere tutto o parte del tfr ai lavoratori è molto più di una probabilità. Per questo anche io mi dico favorevole alla possibilità di avere in busta paga il tfr, poi sta alla volontà del singolo decidere se spenderlo, accantonarlo o farci altro. Ovviamente l’obbiettivo di chi ci governa è quello di aumentare i consumi ma non so se in questo senso, avrà dei benefici.

  3. Hk

    Un solo inghippo e l’ennesimo aggravamento dei costi del lavoro. Come ha ricordato un lettore il TFR è nato come protezione per il licenziamento. Esattamente come si prevede ora con il contratto a tutele crescenti. Ora le aziende si troveranno il costo del TFR più il costo di sostituirsi allo stato per l’indennità di disoccupazione. Questo il vero fine dell’operazione!! Mi sa che presto assisteremo allo sciopero generale delle assunzioni.

  4. concetta lo porto

    condivido la replica di Boeri

  5. blackpower

    troppo difficile pensare di affidare obbligatoriamente il TFR al fondo pensione negoziale o aperto a libera scelta del lavoratore e poi affidare al fondo pensione il compito di far fronte ad eventuali esigenze di liquidità ampliando temporaneamente le anticipazioni?
    Ma forse il retropensiero di qualcuno ( compreso Reichlin) è diamo tutti i risparmi della previdenza complementare allo stato ( magari all’Inps per far fronte a esigenze pensionistiche nel breve) poi ci penserà chi vivra… terribile ragionamento di un governo miope a cui non sfugge nemmeno al cosiddetta sinistra “illuminata”

  6. Se il fondo di garanzia trasferisce parte dei costi dell’eventuale insolvenza di un’impresa, anche indirettamente, al proprio dipendente, dal punto di vista di mera scelta di portafoglio non ha senso prestare soldi (attraverso i contributi per il TFR) al proprio datore di lavoro. Infatti, i rendimenti dell’investimento finanziario nell’impresa, attraverso i contributi per il TFR, sarebbero fortemente correlati con il proprio reddito. In queste condizioni, il portafoglio ottimale escluderebbe totalmente, per ovvi motivi di “hedging”, questo tipo di investimento.

  7. Roberto

    L’ultima frase dell’articolo esemplifica uno dei tanti problemi italiani, cioè creare degli strumenti che poi vengono utilizzati per fini diversi.
    Su questo aspetto concordo che bisogna iniziare a rimettere le cose al posto giusto.
    In linea generale, la scelta migliore è lasciare al lavoratore la possibilità di decidere cosa fare del proprio tfr.
    Questo però va fatto solamente dopo aver informato il lavoratore dei benefici e dei rischi che derivano da tale scelta.
    In particolare in un paese come l’Italia che per buona parte è privo di cultura finanziaria.

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