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Come dare un taglio ai comuni

L’Italia dovrebbe arrivare ad avere non più di 2.500 comuni. La proposta è del presidente dell’Anci. Ma si tratta di un obiettivo credibile? Finora, i tentativi di favorire le aggregazioni, storici o recenti, sono falliti. Coinvolgere gli enti più grandi, con tempi certi e sanzioni efficaci.

COMUNI POLVERIZZATI

Passare dagli attuali 8.100 comuni a non più di 2.500, azzerando quelli con meno di 15mila abitanti. È questo l’obiettivo indicato dal sindaco di Torino e presidente dell’Anci, Piero Fassino, per “cambiare l’assetto del paese”. Ma è un obiettivo credibile o una mission impossible? L’eccessiva “polverizzazione” dei comuni rappresenta un problema annoso dell’ordinamento italiano. Non a caso, le prime misure di aggregazione risalgono alla legge 2248/1865. Successivamente, durante il periodo fascista, vennero adottati, dapprima il regio decreto legge 389/1927, che impose la fusione di oltre duemila enti, e successivamente il regio decreto 383/1934, ove fa la sua comparsa l’istituto della “riunione volontaria” disposta su domanda dei podestà interessati, previo accordo che ne definisse le condizioni. L’alternanza fra strumenti autoritativo/obbligatori e strumenti convenzionali/facoltativi segna anche i successivi sviluppi della legislazione. In epoca repubblicana, perché veda la luce una nuova disciplina generale in materia, occorre attendere la legge 142/1990, che individua nell’unione la forma associativa prioritariamente destinata a favorire i processi aggregativi dei piccoli comuni, in vista, peraltro, della loro fusione. Il fallimento di tale approccio ha suggerito l’abbandono dell’obiettivo più ambizioso dell’accorpamento, la previsione di forme associative più flessibili e soprattutto l’enfasi sugli incentivi economici (statali e regionali) all’aggregazione. Anche tale strategia (concretizzatasi nelle cosiddette “leggi Bassanini”) ha prodotto risultati modesti, favorendo perlopiù la creazione di enti che hanno il solo scopo di accaparrarsi le risorse disponibili. Infine, l’esigenza di risanamento dei conti pubblici ha imposto una nuova accelerazione dei processi aggregativi: con il Dl 78/2010, ai comuni di minori dimensioni è stato imposto l’obbligo di gestire in forma associata, mediante unione o convenzione, le proprie funzioni fondamentali.

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LA POLVERE RIMANE

Finora, tuttavia, i risultati sono stati quasi nulli: l’iter è stato scandito da continue proroghe e le funzioni devolute a livello sovracomunale o erano già gestite in forma associata (ad esempio, servizi sociali) o sono piuttosto “leggere” (ad esempio, protezione civile o catasto). Il vero core business include le funzioni “pesanti” (come, ad esempio, amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo, servizi pubblici locali, pianificazione urbanistica e altro) ed è ancora tutto da trasferire. Ecco perché quella di Fassino pare una scommessa molto ambiziosa. Per arrivare ai risultati auspicati, occorrerebbe coinvolgere anche i comuni di maggiori dimensioni, finora al riparo dal rischio di accorpamenti. E soprattutto puntare sulle fusioni, fino a oggi assai poco praticate, anche se negli ultimi anni il loro numero è in significativa crescita. Merito soprattutto degli incentivi finanziari, che però il recente Dl 90/2014 ha tagliato, fissando un tetto massimo (prima non previsto) di 1,5 milioni di euro. Per svoltare davvero, sarebbe necessario collegare la riallocazione delle funzioni di prossimità, gestite dai comuni, con quella relativa alle funzioni di area vasta, finora gestite dalle province e su cui incide la recente legge Delrio (n. 56/2014). Quest’ultima, infatti, ne prevede in via prioritaria l’attribuzione agli stessi comuni (singoli o associati), per cui il nesso pare evidente. Invece, i due percorsi paiono al momento totalmente disallineati. Inoltre, occorrerebbe prevedere tempi certi e sanzioni efficaci per gli enti che non si aggregano, se non addirittura l’obbligo di fondersi. A dire il vero, la legge vigente prevede l’esercizio del potere sostitutivo dello Stato verso i renitenti, ma non è credibile che si possano commissariare migliaia di amministrazioni. Molto più pragmatico sarebbe prevedere sanzioni (oltre che incentivi) di carattere finanziario. La legge 42/2009 (sul federalismo fiscale) ci aveva provato, ma senza troppa convinzione. Bisognerebbe ripartire da lì.

 

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19 commenti

  1. EzioP1

    Forse il sistema migliore è quello di tagliare i finanziamenti, ovvero tutti i comuni singoli o aggregati che hanno meno di 15.000 abitanti non ottengono più alcun finanziamento e i loro dirigenti e impiegati ridotti a stipendio zero. Se, come pare vero, siamo in tempi difficili operiamo seriamente e con decisione, non con il solito sistema medioevale italiano del premio e del castigo, ma con la necessaria, anche se spiacevole e non gradita, scelta della severità non per sé stessa ma per necessità. Obbligo della revisione del budget applicando le regole del “zero budgeting”, ovvero analizzando ogni singola spesa con il criterio dell’indispensabilità e del vantaggio che essa apporta alla comunità, non quello del vantaggio personale o della mazzetta. In questo sembra che il Comune di Parma si distingua per serietà (non sono un grillino e sono ostile al M5S ma se qualcuno di loro fa bene lo si deve riconoscere).

    • Paolo Landoni

      A Parma dirigenti e impiegati a stipendio zero?

    • federico

      in Italia i Comuni sono poco più di 8000.

      • federico

        jn Italia i Comuni sono poco più di 8000,la maggior parte dei quali hanno -da sempre -il bilancio annuale in rosso;in pratica sono in carico alla fiscalità generale,anche per le spese di normale amministrazione.
        L’accorpamento ridurrebbe -ma non in modo risolutivo e certo-le spese di funzionamento,ma lascerebbe inalterato tutto il resto,mentre aumenterebbero le difficoltà di amministrazione sia per gli amministrati che per gli amministratori.Occorre studiare altre vie.

    • Titti67

      Si può sicuramente ragionare su una riduzione dei piccoli comuni, ma si tratta di una riorganizzazione che non può dipendere dai dipendenti e dai dirigenti dei Comuni stessi. Andrebbe gestita dal Governo centrale non su base volontaria ma studiata a tavolino per migliorare i servizi ai cittadini sul territorio. Non devono essere i Comuni stessi, perché difficilmente riuscirebbero ad accordarsi con i Comuni limitrofi, mentre se la cosa venisse imposta dallo Stato nessuno avrebbe più da ridire. Poi sta storia dei dipendenti e dei dirigenti, ma se in una azienda le cose vanno male è colpa dei dipendenti o è colpa del datore di lavoro che non è capace di fare lavorare chi ha assunto.

  2. Ci sono dei paradossi nelle politiche recenti sulla riduzione gestione di funzioni dei Comuni “piccoli”, che però hanno giurisdizione su gran parte della superficie territoriale del Paese. Sono politiche che nascono con finalità minimali, come il supposto risparmio di risorse; mentre temi come una previdente gestione dell’ambiente e del paesaggio, oppure la fornitura di servizi collettivi adeguati nei territori poco densi, sono assenti o rimangono in ombra. Promanano da una inopportuna decretazione d’urgenza, senza cioè la dovuta riflessione intersettoriale –presente invece per la legge 142 del 1990. Senza ricercare qualche coordinamento tra aspetti ordinamentali, logiche settoriali e ricadute finanziarie. Successivamente gestite e monitorate da un singolo ministero. Senza anche una adeguata concertazione con le Regioni, che si trovano poi a gestirle; una concertazione forse resa difficile da una certa debolezza nel rapporto di questo ente nei confronti degli enti locali, per la prevalenza di interventi normativi settoriali, non sempre coerenti. Se in altri contesti (America del nord, Germania e diversi altri paesi europei) si può dire che “gli enti locali sono creature degli stati”, cioè regolati interamente dai loro diretti livelli superiori di governo, da noi paiono orfani, affidati temporaneamente a parenti poco attenti.

  3. Marco Orlando

    La suggestione di una riallocazione coordinata delle funzioni comunali di prossimità e delle funzioni provinciali o di area vasta è sicuramente una delle vie maestre indicate dalla legge 56/2014. Tuttavia, per arrivarci è necessario che la cooperazione intercomunale diventi una cosa seria, effettivamente praticata e non gestita dagli stessi comuni come mero adempimento burocratico, privo di sostanza gestionale. E inoltre, leggendo bene l’Accordo Stato-Regioni sull’applicazione della “legge Delrio”, si vede come la possibilità di conferire funzioni di area vasta ai comuni e alle unioni sia in realtà residuale, e venga logicamente dopo la possibilità di “riportare verso l’alto” (cioè verso una gestione regionale) le funzioni oggi delle Province. Un esito del genere non è certamente auspicabile, ma potrebbe realizzarsi in alcune Regioni che hanno conservato la visione di sé come enti gestori di funzioni amministrative, e non come legislatori ed enti di programmazione generale. Un esito del genere sarebbe inoltre più probabile se, come pare dall’Accordo, lo Stato non intendesse più “difendere” la propria potestà di legiferare sulle funzioni di area vasta, lasciando quindi il campo libero ai legislatori regionali. In questa ipotesi, anziché essere “creature degli Stati” (come dice Renato Cogno) gli enti locali italiani diventerebbero più probabilmente articolazioni periferiche dell’ordinamento regionale. E il principio di autonomia sarebbe sostituito da quello di deconcentrazione.

    • Luigi Oliveri

      Probabilmente non ci si rende conto delle follie delle norme e delle idee. Cioè, sarebbe una “buona idea” eliminare le province, ma invitare od obbligare i comuni a ricostituirle in non regolabile forma consortile? Ma, avete presente il fallimento clamoroso (largamente previsto e prevedibile) dei consorzi in Sicilia? Le cose da fare sono altre e sono: a) prevedere una griglia tassativa di competenze ed eliminare paradossi come assessorati “al sorriso” o “alle relazioni estere”; b) funzioni e fabbisogni standard; c) indicazione di spese obbligatorie prioritarie e facoltative attuabili solo dopo aver adempiuto alle prime; d) ripristinare i controlli preventivi di legittimità. Tutto il resto è la fuffa fallimentare degli ultimi 25 anni.

      • rob

        Tutto il resto è la fuffa fallimentare degli ultimi 25 anni.” Ripristino di uno Stato come c’era e come c’è in tutti i Paesi civili.

  4. amorazi

    ammesso che si voglia veramente fare sparire i piccoli comuni, il taglio dei finanziamenti è senz’altro il sistema più efficace per raggiungere lo scopo, in prima battuta lasciando loro la libertà di scegliere con quale altro comune più grande aggregarsi e, in seconda battuta, togliendo loro le funzioni delegate per arrivare, alla fine, allo scioglimento d’imperio; nel qual caso potrebbe darsi luogo alle comunità senza comune, come avviene in america

  5. marcello

    La situazione degli Enti Locali italiani è catastrofica. Il debito di regioni, province e comuni è di oltre 107 miliardi di euro. Il Lazio, regione geografica, ha un debito di 18 miliardi. In quindici anni le tasse locali e regionali sono cresciute quasi del 200%, i dipendenti degli enti locali sono cresciutiin modo vertiginoso come pure i loro stipendi, aumentati mediamente il doppio di quelli del PI. La qualità dei servizi offerti da Regioni e comuni è pessima. Il fallimento su alcuni temi: rifiuti, trasporto locale, scuola, sanità, assistenza domiciliare è, con l’eccezione di alcune realltà virtuose, catastrofico. Il sistema di deleghe previsto dalla riforma federalista è sostanzialemnte fallito. Credo che più che un accorpamento dei comuni sia necessaria una vera e propria controriforma apartire dalle deleghe e dalla capacitàimpositiva, che prenda atto del fallimento italiano del principio: vedo-pago-voto.

    • rob

      …aggiunga inoltre la distruzione del sistema – Paese. Si è dato precedenza al localismo perchè portava voti al signorotto di turno, a discapito di politiche e piani industriali a livello nazionale. Basta vedere la follia degli areoporti ( Milano- Bergamo- Brescia- Verona per poco Vicenza- Treviso- Venezia). Una vera e propria deindustrializzazione raccontando la favoletta del ” piccolo e bello” dei “fenomeni” o delle varie ” locomotive”

  6. Alberto Conserva

    I tresferimenti agli enti locali dovrebbero avere un valore proporzionale al numero dei residenti. Laddove i fondi distribuiti non fossero sufficienti gli enti locali potrebbero provvedere tassando i cittadini residenti. In questo modo le inefficienze sarebbero manifeste e si formerebbe un’ opinione pubblica favorevole alla razionalizzazione della della struttura amministrativa.

    • rob

      ..30 anni di storia non insegnano nulla. La follia partita nel ’70 con le Regioni e conclusasi con la commedia all’italiana della bufala federalista non è servita? Ma che colpa hanno i “politici” con una popolazione del genere

  7. Paolo Landoni

    Vedo che la fregola di buttar là soluzioni semplici a problemi complessi non viene mai meno, anzi, con la crisi economica tutto si giustifica, compreso lo schiavismo pare. Una domanda all’autore, il criterio dei 15.000 abitanti da dove arriva? Da una boutade di Fassino? Allora lascia il tempo che trova, a meno che qualcuno non si prenda la briga di dimostrane la validità scientifico-economica e qui non lo si é fatto. Oltretutto, un solo fattore (abitanti) serve a nulla se non si ha ben chiaro quale territorio e quali “cose” sono da governare, e direi che qui la chiarezza manca del tutto, visto che si ipotizza di affidare ai Comuni anche i temi d’area vasta, ossia quelli per i quali é inopportuno il governo avvenga a livello locale.

  8. ING

    alcune osservazioni: lo stato che procede al taglio delle comunità locali d’imperio è antidemocratica di per sè, si può chiedere che abbiano il bilancio a posto, che garantiscano da soli od in associazione un certo tipo e livello di servizio ma tutto il resto è meglio lasciarlo ai regimi totalitari, tra cui il citato (guarda caso) fascismo.
    manca poi del tutto l’analisi dei territorio, in molise con una imposizione di questo tipo rimarrebbero una manciata di comuni, collegati con difficoltà l’uno all’altro, e magari con capofila un comune molta grande e del tutto ingaro o indifferente alle necessità dei piccoli, già gravati di persè dallo spopolamento. quindi si darebbe questa situazione: per tutti i cittadini (o meno che cittadini) rimasti, per il tempo che ancora rimarranno, lo stato sarà solo quello che vedono in televisione, un mucchio di individui odiosi urlanti e molta gente non eletta che da lontanissimo prende decisioni aberranti che danneggiano la vita quotidiana.

  9. enzo

    la questione principale non è tanto la quantità dei comuni ma le loro funzioni e la loro organizzazione. quello che è necessario è una radicale riforma degli enti locali (regioni comprese). Lo stato centrale dovrebbe definire quali funzioni sono “delgate” dal centro ai comuni e stabilire il costo , quindi del trasferimento. Attribuire alle province intese come uffici molte funzioni ora attribuite ai comuni o almeno quelli piccoli ( vedi appalti pubblici). lasciare un’imposizione locale-vedi imposte sulla casa- in corrispondenza di un’autonomia di spesa. Vietra la possibilità dell’indebitamento ovvero parità tra entrate ed uscite. Infine procedere di imperio sugli accorpamenti ma non in base a principi generali ma rispettando le situazioni presenti sul territorio

  10. Antonio carbone

    Le “soluzioni” semplici a problemi complessi citate nel commento di Landoni oramai imperano, purtroppo accompagnate, per altri versi, da inutili bizantinismi. Sembra che l’assetto territoriale del paese sia ignoto a chi governa (e non penso sia il caso di Fassino). Si pensi a come si stanno attuando le città metropolitane! Quella di Napoli, ad esempio, comprende le isole di Ischia e Capri, oltre ad alcuni paesi della Penisola Sorrentina (solo quelli napoletani, escluso i salernitani). In pratica corrisponde esattamente alla “abolita” provincia di Napoli.
    Riguardo al limite dei 15000 ab. si sembra ignorare che per raggiungerlo, in moltissime aree del paese, bisognerebbe accorpare più di 10 comuni che però si troverebbero ad amministrare un territorio enorme (non esiste solo l’urbanistica e l’edilizia). Non è impossibile farlo, ma solo se viene rivista l’organizzazione e le funzioni, come ricordano i commenti di M.Orlando ed Enzo.
    Ma c’è un altro aspetto: nell’ormai indistinto groviglio “urbano” che è diventata l’Italia, ci sono anche comuni oltre i 15000 ab. che sono un “non senso” che le città metropolitane non risolvono.
    Ci sarebbero tante altre cose da dire su area vasta, comunità montane, parchi, ma il mio è solo un commento.
    PS. A volte mi viene la paura che anche l’economia sia governata allo stesso modo, con tanti “deliberanti non conoscenti”, ma non è il mio settore e mi astengo. Speriamo bene.

    • DP

      NO FUSIONI , SI AD ACCORPAMENTO OBBLIGATORIO SERVIZI
      La mia proposta è di mantenere le singole entità comunali in termini di nome , tradizioni e peculiarità culturali , ma obbligare i comuni ad accorpare i servizi ( che sono ciò che poi nella realtà genera spesa )prevedendo sanzioni automatiche o taglio di finanziamenti.
      Esempio:
      Ogni comune potrebbe essere obbligato a fare riferimento ad un ente accentratore di servizi che ha in sua gestione un bacino di utenza totale , dato dalla sommatoria degli abitanti dei vari comuni che ne fanno parte, di non meno di 100.000 abitanti.
      Sig. Barbero posso chiedere un suo commento a proposito ?! Grazie

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