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LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziamo i lettori per l’’interesse dimostrato nei confronti del nostro articolo e per la possibilità che ci offrono di chiarire alcuni punti che per forza di cose in un articolo breve non possono essere affrontati appieno.

I FUORICORSO LAVORATORI

Cominciamo da uno dei commenti più gettonati, quello che riguarda il caso particolare dei “fuoricorso lavoratori”. Una parte degli studenti fuoricorso non sono tali perché si impegnano poco oppure hanno una difficoltà a superare gli esami nei termini previsti, bensì perché lavorano. Nell’’articolo abbiamo specificato che questo gruppo è stato escluso dall’’analisi.
Tuttavia, questa osservazione da parte dei lettori ci consente di accennare ad un punto importante su questo tema, seppur non direttamente legato alla nostra ricerca. Va notato che, in tutti i paesi del mondo, gli studenti lavoratori sono diversi dagli altri per ovvi motivi. Non si vuole certo suggerire di non consentire agli studenti-lavoratori di laurearsi. Il punto è piuttosto che la loro formazione dovrebbe essere forse differenziata da quella degli altri studenti e concepita come fatta su misura per loro.
Forse si potrebbe percorrere la soluzione anglosassone e pensare ad un percorso ad hoc, ad esempio introducendo la open university anche in Italia. I programmi dovrebbero essere diversi in base alla tipologia di studenti e, di conseguenza, anche i corsi e gli obblighi di frequenza. La open university è stata infatti concepita come una università aperta per sviluppare il life-long learning, consentendo a persone anche non giovanissime di acquisire alta formazione sui temi e nei modi che sono più congeniali per loro. Ad esempio, la open university sta sviluppando moltissimi strumenti elettronici per la didattica, spesso digitalizzando anche lezioni e materiali di studio, rielaborandoli ad uso di studenti adulti.
Un’’alternativa potrebbe essere la formazione professionale sia in aula che on-the-job, vale a dire sul posto di lavoro, che in Italia è ancora poco frequente rispetto ad altri paesi europei. Molti lavoratori in realtà non hanno bisogno di fare tutto il percorso di formazione concepito per un giovane senza esperienza lavorativa, ma piuttosto di percorsi specifici che possano essere di più immediato impiego nel loro lavoro. Per questo occorrerebbe sviluppare l’’offerta di alta formazione in più direzioni per andare incontro alle molteplici e variegate esigenze formative dei nostri studenti lavoratori.

IL SISTERMA DI VALUTAZIONE DEGLI ESAMI

Il nostro interesse principale è nei confronti degli studenti a tempo pieno che si laureano comunque in ritardo e sono davvero tantissimi, al punto da spingerci a pensare che il fuoricorsismo non sia un problema individuale, ma “sociale” in senso lato e quindi che debba essere affrontato in modo adeguato non attribuendo interamente la responsabilità di tale tendenza agli studenti, ma cercando di comprenderne le cause, per rimuoverle.
È curiosa la proposta di un lettore di abolire totalmente i voti e sostituirli con dei pass poiché ritiene che gli stessi non siano una misura corretta della qualità del capitale umano accumulato dallo studente. La letteratura sembra dimostrare, in effetti, che in alcuni paesi, come il Regno Unito e gli Stati Uniti, la selezione fatta dalle università è efficace e i voti di laurea (così come le lettere di raccomandazione dei docenti) influenzano sia la probabilità di trovare lavoro che il conseguimento di premi salariali. Al contrario, nel caso dell’’Italia, i voti non sembrano influenzare più di tanto la performance nel mercato del lavoro. Questo conferma che il sistema di valutazione della performance universitaria degli studenti è il cuore del problema e andrebbe ristabilita la capacità dei voti di riflettere la qualità della preparazione. Abbandonare i voti andrebbe, però, nella direzione opposta perché non consentirebbe ai potenziali datori di lavoro di disporre di un indicatore di qualità per selezionare i candidati. La nostra proposta di introdurre i pass, invece, è finalizzata ad introdurre uno strumento utile per segnalare le lacune maturate dagli studenti in alcune materie.
Forse il modo più efficace per ridurre i fuoricorso consiste proprio nel fornire più corsi, magari preparatori al corso di laurea, obbligare alla frequenza e ad un percorso preordinato senza consentire di allontanarsene troppo (ad esempio iscriversi agli anni successivi senza aver superato gli esami fondamentali/propedeutici degli anni precedenti). Per gli studenti meritevoli che non hanno le risorse necessarie per studiare a tempo pieno dovrebbero essere previste più borse di studio, in modo da rendere il loro percorso di studio lineare e non soggetto a interruzioni, ad esempio per lavorare. La partecipazione alle attività universitarie (i.e studio, frequenza, ecc.)  deve essere il mestiere prevalente dello studente universitario.
Come nota acutamente un commentatore e che trova il nostro pieno consenso, i problemi dei fuoricorso non si ridurrebbero necessariamente se la durata del loro percorso di studio si realizzasse nei tempi previsti. Teniamo a precisare che, come appena detto, immaginiamo una università che segua di più i propri studenti e oltre ad imporre loro regole più rigide, li aiuti con maggiore guidance e più corsi in ogni momento della vita universitaria. Ciò dovrebbe accrescere di molto la qualità della loro formazione, oltre che ridurne la durata. È vero anche che ridurre la durata e aumentare la percentuale dei laureati in corso non risolverebbe come con una bacchetta magica tutti i loro problemi nel mercato del lavoro, anche perché molto dipende dalla domanda di capitale umano. Però, pensare solo al lato della domanda non dovrebbe autorizzarci ad ignorare i notevoli problemi che esistono dal lato dell’offerta, visti i costi associati a tale inefficienza sia a livello individuale che sociale che il nostro articolo evidenzia.

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CONVIENE ALLE UNIVERSITÀ AVERE FUORICORSO ?

Alcuni lettori sospettano che le università abbiano un interesse ad avere più fuoricorso e perciò non fanno abbastanza per ridurne il numero. Così recuperano risorse con piccoli costi, dato che costoro frequentano poco. Fino a qualche anno fa, i finanziamenti del Ministero dell’Università erano parametrati al numero degli studenti complessivamente iscritti. Da qualche anno, questo è meno vero che in passato, poiché i fuoricorso non sono più inclusi nel computo. Certo la questione del finanziamento è importante e complessa. Disincentivare ulteriormente le facoltà che hanno fuoricorso e, al contempo, permettere alle stesse di fare una selezione più forte potrebbe accrescere molto l’’efficienza dell’’intero sistema. Attualmente la selezione, sia quella ex ante, spesso assente, che quella ex post, sono troppo deboli. Nel testo dell’’articolo discutiamo alcuni modi per ridurre il numero dei fuoricorso senza né porre impedimenti agli studenti meritevoli né però consentendo a chiunque di laurearsi. Il nostro lavoro di ricerca sembra confermare l’’impressione che moltissimi studenti fuoricorso ottengono la laurea più per “sfinimento” dei docenti che per le conoscenze acquisite. Occorrerebbe, da un lato, calibrare il programma di ciascun esame ed accrescere la frequenza delle lezioni, dall’’altro lato, però, inserire misure che possano indurre gli studenti che non si impegnano abbastanza, ad esempio gli inattivi per diversi semestri, ad abbandonare e/o a seguire dei corsi più professionalizzanti.
Occorrerebbe, in altri termini, trovare una percentuale ottima dei fuoricorso, discriminando sulla tipologia di studenti fuoricorso in modo da individuare i fattori che potrebbero farli ridurre di numero rispetto alla situazione attuale.

L’ALFABETIZZAZIONE UNIVERSITARIA DEGLI STUDENTI

È un dato di fatto, spesso riportato da AlmaLaurea, che solo meno del 25% dei laureati e il 18% degli immatricolati hanno genitori laureati. Ciò suggerisce che i nostri studenti affrontano l’’università senza essere consapevoli delle difficoltà cui vanno incontro. Inoltre, spesso i genitori non possono guidare i loro figli neppure nella fase post-lauream e dell’’inserimento lavorativo, non avendo esperienza di mercati del lavoro diversi dai loro. In assenza di guidance da parte dei genitori, l’’università non è in grado di offrire abbastanza orientamento. L’’orientamento occorrerebbe invece sia prima dell’’iscrizione ad un corso universitario, sia successivamente nei vari momenti della carriera universitaria degli studenti. In altri termini, occorrerebbe una maggiore “alfabetizzazione universitaria degli studenti” per evitare che le performance siano più legate alle caratteristiche familiari che alle effettive abilità individuali.
Speriamo che articoli come il nostro possano contribuire ad accrescere la consapevolezza degli studenti sul rischio di essere fuoricorso, dato che siamo colpiti dal fatto che, forse per la grandissima diffusione del fenomeno, quasi tutti i lettori considerano l’’essere fuoricorso quasi come un diritto e un fatto tutto sommato positivo, anziché uno spreco di risorse per lo studente, la famiglia e l’’università stessa. Ragionare sui costi sia individuali sia sociali del fuoricorsismo significa aggiungere una voce ulteriore nel dibattito che stranamente sembra fuori dal coro.
Se è vera l’’ipotesi che gli studenti siano scarsamente consapevoli dei rischi associati alla condizione di fuoricorso, il lato positivo è che anche senza grandi progressi nel campo dell’’orientamento – in Italia ancora del tutto insufficiente – il fenomeno dei fuoricorso dovrebbe ridursi fisiologicamente con il passare degli anni e delle generazioni, ovviamente stando attenti che tale riduzione non sia dovuta ad un impoverimento della qualità dei corsi attivati.

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IL LATO DELLA DOMANDA

Il problema vero è la bassa domanda dei laureati che il nostro sistema produttivo, ancora troppo orientato verso produzioni tradizionali, nel manifatturiero oppure nei servizi, è in grado di esprimere. Noi siamo consapevoli che la nostra analisi assume per data la domanda di lavoro, il che non è perfettamente soddisfacente. Diciamo che ci occupiamo del lato dell’’offerta lasciando a ricerche future il lato della domanda. E siamo consapevoli anche del fatto che seppure l’’offerta migliorasse tantissimo, comunque la domanda ne sarebbe toccata solo marginalmente, almeno nel breve periodo. Detto altrimenti, se la bassa qualità e l’’inefficienza della nostra offerta di capitale umano determina le conseguenze negative illustrate fin qui, si evince che migliorare la qualità dell’’offerta di capitale umano potrebbe non essere sufficiente per migliorare la condizione dei laureati se la loro domanda resta bassa.
Però possiamo anche affermare che, con il passare degli anni, una offerta di capitale umano di maggiore qualità dovrebbe promuovere la crescita economica, rendendo il capitale umano a buon mercato e favorendo lo spostamento di risorse umane e finanziarie verso produzioni a più alto contenuto di tecnologia. Negli Stati Uniti, la recente rivoluzione delle tecnologie dell’’informazione e delle telecomunicazioni è avvenuta immediatamente dopo l’’espansione massiccia del numero dei laureati che si  è verificata a partire dagli anni sessanta. Non sempre post hoc significa propter hoc, ma la teoria economica più recente fornisce forti argomenti per interpretare come un nesso causale la successione di eventi verificatasi negli Stati Uniti. Si tratta di argomenti sufficienti per giustificare uno stimolo anche del settore pubblico in questa direzione per accelerarne il processo. Non è un caso che sia il processo di Lisbona che il successivo programma Europa 2020 dell’Unione Europea punti proprio su questa leva per stimolare la crescita economica.

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UNA MAPPA PER TROVARE LAVORO

  1. Matteo

    Si è espressa, in un precedente articolo, l’idea che una delle cause del fuoricorsismo sia fondamentalmente un deficit motivazionale determinato dalla consapevolezza degli studenti della poca domanda di capitale umano. Nondimeno, sebbene questa lettura sia di buon senso, non credo sia esaustiva. Almeno di pari importanza, per valutare il deficit motivazionale, proporrei di considerare la discrepanza tra l’ambiente universitario, inteso questo come un sistema composto da programmi di studio, tipologie di esami, grado di interesse suscitato dalle lezioni, e le aspettative degli studenti. Credo che molto spesso nasca una fastidiosa frustrazione dettata sia dalla non corrispondenza dei propri interessi non alle materie in sé, ma al modo in cui queste materie sono proposte sia dal dovere dello studente di sostenere il momento, sempre fonte di ansia, dell’esame. La società dovrebbe trovare un modo non punitivo di motivare gli studenti, puntando meno sull’incentivo-disincentivo ‘economico’, che nondimeno è sicuramente ‘utile’ per alcune situazioni, e focalizzandosi maggiormente su valori “non negoziabili”. Credo che la propaganda potrebbe rendere un servizio pubblico alla società. Se essa non fosse unicamente ‘pubblicità’ nel senso di finalizzata alla vendita di un determinato prodotto, dalla cosmesi alla politica, ma fosse anche ‘pubblicità’ nel senso di utile alla cosa pubblica, dovrebbe utilizzare la retorica, l’arte della persuasione non solo per convincere le masse ad aderire a delle mode, ad orientare l’opinione pubblica su alcune scelte politiche, etc… , ma potrebbe essere utile per infondere il “desiderio di conoscere”, che tutti gli uomini hanno, stando all’incipit della Metafisica aristotelica (ma basterebbe osservare i bambini). Condizionare agendo sul valore dell’incondizionato, cercando di svincolare in parte i comportamenti dall’utile che da questi si può ricavare. Altrimenti, non si spiegherebbe del perché di tanti studenti di materie umanistiche che s’impegnano in una laurea di fatto improduttiva. Mia personale proposta: utilizzare i mezzi di comunicazione di massa come strumento per rendere il conoscere, dunque lo studiare, qualcosa di piacevole e non condizionato dall’utile immediato, come se questo fosse un gioco.

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