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PERCHÉ NON RICORRERE ALL’ARBITRATO?

La riforma del lavoro in Italia dovrebbe rispondere anche al desiderio delle imprese di limitare la dimensione giudiziaria del contenzioso sul lavoro. Negli Stati Uniti molte aziende risolvono la questione stabilendo già al momento dell’assunzione che in caso di controversie il lavoratore  ricorrerà all’arbitrato e non al giudice. Una soluzione che comporta alcuni benefici, come mostra uno studio sull’esperienza di una grande società. E, pur con le cautele del caso, suggerisce una riflessione più ampia sulla regolamentazione dell’arbitrato nel nostro diritto del lavoro.

La riforma del lavoro è un tema scottante, particolarmente in questi giorni. In Italia la riforma vuole rispondere, in parte, a un desiderio delle imprese di ridimensionare la dimensione giudiziaria del contenzioso sul lavoro. Lo stesso desiderio è sentito anche negli Stati Uniti. Molte aziende americane evitano il percorso giudiziale in materia di controversie di lavoro stipulando già al momento dell’assunzione il ricorso all’arbitrato. In questi casi, il contratto di assunzione richiede al lavoratore di abbandonare preventivamente il diritto di ricorrere al giudice e, in caso di controversie, di accettare il risultato arbitrale.

UN CASO AMERICANO

Il ricorso all’arbitrato ha almeno due vantaggi. Primo, è veloce. Secondo, evita di gravare sulle già magre risorse della giustizia italiana. L’uso dell’arbitrato pone però interrogativi riguardo alla protezione garantita ai lavoratori: sarà altrettanto forte di quella offerta dal ricorso al giudice? Un interessante articolo scientifico risponde proprio a questa domanda. (1)
L’articolo studia l’effetto dell’introduzione di un arbitrato vincolante in materia di lavoro all’interno di una grande società americana. L’azienda in questione (più di 100mila dipendenti ripartiti in oltre mille luoghi di lavoro) ha introdotto nel 2004 un sistema di ricorsi in varie fasi. Quando un dipendente ha una lagnanza, per prima cosa deve riportarla al diretto superiore. Se questi non riesce a risolverla, il dipendente si può rivolgere all’ufficio del personale. Se anche questo ricorso fallisce, il dipendente si può rivolgere all’arbitro (e mai, si noti, al giudice).
L’azienda ha collezionato dati (risposte a questionari) che permettono di misurare l’effetto dell’introduzione della procedura arbitrale sull’atmosfera nel posto di lavoro: ogni anno chiede infatti a un campione di dipendenti di rispondere a domande di vario tipo. Per esempio: “Il mio superiore tratta tutti i dipendenti allo stesso modo senza riguardo a differenze di razza, sesso, o età”. Domande come questa riflettono la percezione di rispetto delle norme (in questo caso norme anti discriminazione) sul posto di lavoro. Oppure “Se ho un problema, mi sento libero/a di chiedere aiuto al mio superiore”. Domande come questa ci informano della percezione di giustizia interattiva, o informale, sul posto di lavoro. Oppure ancora “Ritengo che questa compagnia sia dedita a risolvere velocemente e imparzialmente problemi o preoccupazioni dei lavoratori”. Domande come questa riflettono la percezione di giustizia procedurale formale sul lavoro.
Lo studio analizza come le risposte a queste domande cambiano dopo l’introduzione dell’arbitrato vincolante. Si stima che la percezione di giustizia procedurale formale diminuisce. (2) Ciò suggerisce che i lavoratori percepiscano una minore dedizione dell’azienda, intesa come entità centrale, alla risoluzione soddisfacente delle dispute. Allo stesso tempo, però, cresce la percezione di rispetto delle norme e anche la percezione di giustizia interattiva/informale. (3) Ciò suggerisce che i lavoratori percepiscano un miglioramento del clima sul posto di lavoro, a livello di singolo luogo di impiego, e una maggiore fiducia nei confronti dei superiori, dopo l’introduzione dell’arbitrato obbligatorio.
A questo punto, sono doverosi alcuni caveat. Primo, ai nuovi dipendenti – i soli che sono soggetti all’arbitrato obbligatorio – sono stati anche mostrati dei video che descrivono il processo di risoluzione delle lagnanze descritto sopra. È difficile scontare l’effetto che questi video possono avere sulla percezione dei lavoratori. Secondo, stiamo parlando di percezioni, non di realtà. Infine, vi sono certi piccoli dubbi sull’identificazione statistica dell’effetto. A me sembrano piccoli abbastanza da non inficiare il valore dell’analisi; ma questa è un’opinione informata, non un fatto, e rimando il lettore interessato all’articolo originale.

RIFLESSIONI ITALIANE

Generalizzare al caso italiano è naturalmente difficile, per molte ragioni. Tuttavia, ritengo sia utile portare all’attenzione dei lettori italiani un esempio in cui i lavoratori nuovi assunti sono indirizzati verso un sistema di risoluzione extra-giudiziale del contenzioso sul lavoro. Nel caso dell’azienda americana oggetto di studio (la cui identità è tenuta riservata), questo mutamento non sembra avere dato luogo a effetti disastrosi.
In Italia il ricorso all’arbitrato è stato di recente nuovamente disciplinato dal Collegato lavoro, con la riforma degli articoli 412 e seguenti del codice procedura civile. La normativa attuale, da ciò che capisco, non consente la rinuncia preventiva al ricorso giurisdizionale. E dunque in Italia, anche volendo, non si potrebbe per legge replicare l’esperienza della azienda americana. (4)
La ragione per cui il legislatore non ha voluto consentire la rinuncia preventiva sembra sia la preoccupazione che il lavoratore possa essere in una posizione “debole” nei confronti del datore di lavoro al momento della firma del contratto. E quindi, il divieto di rinuncia preventiva è visto come una protezione per il lavoratore. A un economista teorico questa giustificazione può sembrare incompleta. Se il lavoratore è in posizione debole, la legge può ben riuscire a regolamentare la forma del contratto in alcune dimensioni, ma difficilmente in tutte. Così, per esempio, la legge può vietare la rinuncia preventiva al ricorso giurisdizionale, ma non può evitare che l’azienda reagisca abbassando il salario. Se così fosse, la regolamentazione del contratto avrebbe un doppio effetto: il lavoratore sarebbe più protetto, ma sarebbe pagato di meno. L’effetto netto sul benessere finale del lavoratore potrebbe essere minimo.
Naturalmente, si tratta di una considerazione meramente teorica. Non so assegnare stime quantitative agli “effetti di sostituzione” nei contratti di lavoro, e quindi certo non posso concludere che l’effetto sul benessere del lavoratore sia necessariamente piccolo. Questa è, come dicono gli economisti, una questione empirica. D’altro canto, va considerato il fatto che il semplice effetto di scoraggiare il ricorso all’arbitrato ha anch’esso un probabile effetto, probabilmente inefficiente e sicuramente tendente a congestionare i tribunali. Questi effetti negativi della normativa vigente, assieme alla considerazione teorica che suggerisce che i suoi benefici possano essere piccoli, e in ultimo l’esperienza della azienda americana sopracitata, sono elementi che suggeriscono la necessità di approfondire la riflessione sulla regolamentazione dell’arbitrato nel diritto del lavoro. 

(1) Eigen, Zev J. e Litwin, Adam Seth, “A Bicephalous Model of Procedural Justice and Workplace Dispute Resolution” (January 1, 2012). Northwestern Law & Econ Research Paper No. 11-21. Disponibile a: http://ssrn.com/abstract=1884421
(2) Di mezza deviazione standard. Si veda la tabella 4 nell’articolo sopra citato.
(3) Di una e di mezza deviazione standard, rispettivamente.
(4) Ringrazio, senza minimamente implicare nelle conclusioni di questo articolo, Margherita Leone del Tribunale del Lavoro di Roma e Amelia Torrice della Corte d’Appello di Roma, sezione Lavoro, per molte preziose conversazioni  riguardanti il contenzioso del lavoro e l’attuale assetto legislativo in materia.

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  1. michele

    non ci risulta che i salari americani siano più alti perchè monetizzano una perdita di diritti del lavoro. La legge italiana vieta di precludere la libertà di azione in giudizio perchè questo è contro la Costituzione, e non accade in nessun ambito del diritto. A priori niente e nessuno dovrebbero essere esclusi dalla tutela giurisdizionale. E invece proprio il Collegato Lavoro ha introdotto una forte limitazione, di cui poco si parla: l’insindacabilità delle scelte tecniche, produttive o organizzative del datore di lavoro, limitando il giudice al mero controllo di legittimità.

  2. Paolo

    Non so come funzioni l’arbitrato, ma se molte controversie si riversassero sull’arbitrato, è possibile che non sarebbe così veloce. In Italia appare molto sospetto l’obbligo alla rinuncia al ricorso al giudice, data la debolezza del lavoratore nei confronti dell’azienda, malgrado tutte le panzane sui “garantiti”. L’unico caso che mi viene in mente è la giustizia sportiva con gli effetti che sono davanti agli occhi di tutti.

  3. cristiano

    Direi che rinunciare preventivamente al ricorso al giudice sarebbe proprio la ciliegina sulla torta! Equivarebbe a dire che non esiste più il deterrente contro i licenziamenti illegittimi.Già adesso con l’introduzione obbligatoria della conciliazione prima del giudice(e quest’ultimo deve tenere conto dell’esito di essa!) si è indebolita la tutela: secondo voi in sede di conciliazione si può stabilire un reintegro??Credo proprio di no, serve soltanto ad accordarsi su un ‘indennizzo, ovviamente inferiore a quello che si potrebbe ottenere vincendo la causa in sede giudiziale. Lasciare solo la possibilità dell’arbitrato significherebbe stabilire come unica tutela la conciliazione preventiva, cioè bassi indennizzi e ovviamente nessun reintegro, che è l’unico vero deterrente. Francamente credo che chi neghi questa considerazione menta sapendo di mentire.

  4. emilio rocca

    Anche a me sembra una possibilità interessante il ricorso alla decisione arbitrale. Parlandone però con un amico avvocato ho avuto un giudizio netto: “In Italia però gli arbitri si fanno pagare tantissimo”. Quindi l’impugnazione del licenziamento potrebbe portare ad una decisione arbitrale più rapida, ma anche costosa. Non ho però idea degli ordini di grandezza del costo di cui stiamo parlando: sicuramente è un tema che merita di essere approfondito in Italia.

  5. Angelo

    Per diminuire le cause del lavoro, ma più in generale quelle civili, invece dell’arbitrato, che sembra limitare i diritti costituzionali, suggerirei di introdurre anche nel civile il casellario giudiziale. Il giudice, come per il processo penale, sarebbe subito informato sul convenuto, e si regolerebbe di conseguenza. L’impresa che calpesta regolarmente i diritti sindacali troverebbe un deterrente nella pena crescente che le verrebbe comminata. Stessa cosa per chi è uso ad emettere assegni in bianco. Servirebbe ancora l’arbitrato?

  6. Daniel Hazan

    Purtroppo in Italia in moltissimi casi gli arbitrati sono affetti dagli stessi mali della giustizia civile, a costi molto ma molto piú elevati…non è questa la soluzione

  7. Stefano Slataper

    Perché ovviamente costa un disastro. E questo non perché gli arbitri italiani siano particolarmente esosi. Un arbitrato significa far lavorare almeno cinque soggetti a qualificazione medio altra (difensore dell’attore, difensore del convenute tre arbitri) per un lasso di tempo non esattamente modesto. Per mia esperienza, un arbitrato di lavoro semplice che non si concluda con una conciliazione ma con un lodo vero e proprio (ad esempio, su una sanzione disciplinare conservativa) comporta circa 10/12 ore di lavoro per i membri del collegio e altre 4 (almeno) per l’estensore del loro. In tutto stiamo parlando di almeno 30/40 ore di lavoro. Facciamo 50 euro all’ora, e cioé asumiamo che questi signori si facciano pagare come un qualsiasi artigiano? Bene, un arbitrato costa, solo per il collegio, da 1500 ai 2000 euro. Se la faccenda poi diventa complicata (assunzione di testimoni, perizie etc etc) i costi espodono. Ah, dimenticavo: ai costi del collegio vanno, ovviamente, aggiunti i costi di difesa.

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