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LA ROULETTE RUSSA DELL’ARTICOLO 18

La protezione di un diritto fondamentale della persona è affidata alla roulette russa che si attiva con l’assegnazione casuale dei processi per cause di lavoro a giudici molto diversi tra loro per tempi e orientamento della decisione. È quanto emerge da una ricerca sulle cause tra lavoratori e datori di lavoro nei tre maggiori tribunali italiani: Milano, Roma e Torino. Gli esiti di ogni azione sono affidati, in ultima istanza, al caso.

“Monetizzare i diritti” è considerato un segno di inciviltà da una parte dell’opinione pubblica italiana, che in alternativa preferisce affidare la loro tutela ad un procedimento giudiziale. Ad esempio, per difendere il lavoratore da licenziamenti ingiusti si preferisce chiedere al giudice di valutare l’esistenza di un giustificato motivo o di una giusta causa, invece di stabilire, come accade in altri paesi, un prezzo monetario, magari molto alto, che l’azienda debba pagare al lavoratore per essere libera di sciogliere il rapporto di lavoro.

I TRIBUNALI DI MILANO, ROMA E TORINO

Ma, fanno bene i lavoratori ad affidare ai giudici la tutela dei loro diritti? Abbiamo selezionato i casi di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo o soggettivo, iscritti a ruolo nei Tribunali di Milano, Roma e Torino negli anni 2003-2005.  Si tratta, rispettivamente, di 3419, 6444 e 1736 casi nelle tre città, affidati a 22, 56 e 14 giudici, con un carico medio per giudice di 155, 115 e 124 di questi casi. Abbiamo escluso i giudici (e i relativi casi) che in questi tre anni hanno ricevuto in assegnazione meno di 50 processi per licenziamento. Queste esclusioni ci consentono di confrontare tra loro solo giudici che abbiano trattato un campione statisticamente significativo di casi. (1) Per il 98 per cento  di queste controversie osserviamo la storia completa, dall’iscrizione a ruolo alla conclusione che normalmente coincide con il deposito della sentenza (in primo grado) o con la conciliazione. (2) Quindi possiamo calcolare la durata completa della quasi totalità di questi processi per licenziamento.
La Tabella 1 mostra che la durata media è molto diversa nei tre tribunali: 266 giorni a Milano, 429 a Roma e 200 a Torino. Se le cause di licenziamento fossero simili nelle tre città, verrebbe naturale chiedersi per quale motivo i lavoratori di Roma (e i rispettivi datori di lavoro) debbano aspettare il doppio di quelli di Torino e oltre un terzo in più di quelli di Milano per conoscere la loro sorte.
Però è possibile che i casi di Roma siano più complessi di quelli delle altre città e quindi richiedano più tempo per essere decisi. Il confronto corretto può solo essere fatto tra giudici di uno stesso tribunale, perché, all’interno di ciascuna sede, i processi iscritti a ruolo sono assegnati a sorte tra i diversi magistrati. Quindi, per la legge dei grandi numeri, ogni giudice di uno stesso ufficio dovrebbe avere, mediamente, casi di pari complessità. Per questo motivo consideriamo solo giudici che abbiano ricevuto almeno 50 assegnazioni nel periodo considerato. E questo ci consente di verificare statisticamente che, in effetti, le caratteristiche osservabili dei processi assegnati ai diversi giudici sono mediamente simili. Ad esempio, lo sono le proporzioni di ricorsi per giusta causa o giustificato motivo.

C’È GIUDICE E GIUDICE

Nella Figura 1, ogni barra verticale corrisponde ad un giudice e l’altezza della barra misura la durata media dei processi per licenziamento a lui o lei assegnati casualmente. È evidente che, all’interno di ciascun tribunale, i tempi medi di conclusione dei processi non sono simili per i diversi giudici, nonostante i casi loro assegnati abbiano complessità comparabili. La Tabella 1 indica, ad esempio, che a Roma il lavoratore e l’impresa che per sorte vengano assegnati al giudice mediamente più veloce possono sperare di veder decisa la loro causa in 179 giorni. I giorni diventerebbero invece 693 se venissero assegnati al giudice più lento: un incremento di quasi 4 volte. Se, prudenzialmente, vogliamo escludere i giudici più lenti o più veloci del 10 per cento dei  loro colleghi, il lavoratore e l’impresa fronteggerebbero, sempre a Roma, una forbice di durate che varia da 284 a 569 giorni: un incremento di oltre 2 volte tra la durata inferiore e quella maggiore. A Milano e Torino le differenze tra giudici veloci e lenti non sono meno sorprendenti: escludendo gli outliers, si passa da 193 a 333 giorni nel capoluogo lombardo e da 97 a 318 in quello piemontese. Anche in questi tribunali, quindi, le durate dei processi possono, rispettivamente, quasi raddoppiare o più che triplicare a seconda del giudice a cui il caso viene per sorte assegnato.

COME UNA LOTTERIA

Per l’impresa, la lotteria generata da questa forbice di durate è particolarmente costosa perché qualora il giudice decidesse in favore del lavoratore, il datore di lavoro dovrebbe versare a lui o lei non solo la retribuzione non pagata nelle more del giudizio e i relativi contributi sociali. Dovrebbe anche pagare all’Inps una multa sostanziosa per gli omessi contributi sociali, multa che aumenterebbe o diminuirebbe a seconda di quanto tempo impiega il giudice a decidere.
Però la domanda che ci siamo posti è se convenga ai lavoratori affidarsi ai giudici per tutelare i loro diritti e, da questo punto di vista, i costi per le imprese legati ai tempi di decisione possono apparire poco rilevanti. Sebbene sia difficile pensare che questi tempi siano irrilevanti per un lavoratore, essendo in gioco la possibilità di rimanere senza stipendio per 693 giorni invece che 179, come ad esempio accade a Roma, è probabile che ciò che conta maggiormente per i lavoratori sia la probabilità che il loro ricorso contro il licenziamento sia accolto. Ma anche in questo caso, dai dati emerge che l’accertamento giudiziale del giustificato motivo è una roulette russa.
La Figura 2 descrive la probabilità dei diversi esiti di un processo per licenziamento nei tribunali di Milano e Roma (il dato non è disponibile per Torino). Per ogni giudice, fatto 100 il numero totale dei processi a lui o lei assegnati, le quattro parti della barra verticale misurano le proporzioni di sentenze favorevoli al ricorrente (ossia il lavoratore nella stragrande maggioranza dei casi), (3) di sentenze favorevoli al convenuto (il datore di lavoro), di conciliazioni e di altri esiti.

L’INCERTEZZA DELL’ESITO

A Milano, ad esempio, l’ultimo giudice sulla destra della tabella è favorevole al lavoratore circa 4 volte più frequentemente che il primo giudice sulla sinistra. Quest’ultimo infatti decide il 7 per cento dei casi a favore del lavoratore, mentre il suo collega all’estremo opposto decide a favore del lavoratore il 27 per cento dei processi. L’incertezza di esito a seconda del giudice assegnato è ancora maggiore per l’impresa che può passare da un giudice a lei favorevole solo nel 2 per cento dei casi fino ad un giudice che invece le da ragione nel 20 per cento dei casi, con un incremento di ben 10 volte della probabilità di vittoria. A Roma, è la probabilità di vittoria del lavoratore che può aumentare di  10 volte a seconda del giudice: dal 4 per cento del primo giudice a sinistra nella Figura 3, al 40%  dell’ultimo giudice sulla destra. La forbice per le imprese è invece più contenuta, ma sempre considerevole, passando dal 4 per cento al 19 per cento di probabilità di vittoria. È interessante notare che mentre a Milano nessun giudice emette sentenze favorevoli alle imprese più frequentemente di quelle favorevoli al lavoratore, a Roma i lavoratori non possono certamente contare su una totalità di giudici a loro favorevoli.
Purtroppo non abbiamo dati sufficienti per valutare quale delle due parti possa considerare la conciliazione come una quasi-vittoria. Ma, in ogni caso, anche la probabilità di questo esito varia molto tra i giudici nonostante il loro portafoglio di casi sia simile. A Milano si passa infatti da giudici che inducono le parti ad una transazione nel 49 per cento dei casi, fino a giudici per cui questo esito si verifica nel 76 per cento delle controversie, mentre a Roma la differenza tra le percentuali corrispondenti è ancora più ampia, passando dal 27 per cento al 69 per cento.
Sotto l’ipotesi che la frazione di sentenze favorevoli al lavoratore emesse da un giudice sia proporzionale al grado in cui le conciliazioni indotte dallo stesso giudice siano favorevoli al lavoratore, possiamo concludere che, anche tenendo conto dell’elevato numero di conciliazioni, la lotteria derivante dall’assegnazione casuale dei processi ai magistrati di un tribunale implica probabilità di vittoria molto differenti a seconda della sorte.

QUEL CHE I SINDACATI NON SANNO

Se a tutto questo si aggiungono i risultati di uno studio del 2003 di Michele Polo, Enrico Rettore e Andrea Ichino, secondo cui giudici diversi decidono diversamente casi molto simili a seconda della regione in cui il rapporto di lavoro ha luogo e in funzione del tasso di disoccupazione locale, viene naturale chiedersi se davvero affidarsi alla magistratura sia un buon modo per tutelarsi dal punto di vista dei lavoratori, data l’alea che questo affidamento implica.
Forse i lavoratori e i sindacati pensano che sia meglio così solo perché non hanno mai visto questi numeri. Ma la nostra impressione è che questo stato di cose serva solo ad arricchire gli avvocati e costringa i giudici ad occuparsi di controversie che potrebbero benissimo essere risolte in altro modo: ad esempio stabilendo un prezzo adeguato per la possibilità di licenziare, quando ovviamente il motivo non sia discriminatorio e il lavoratore non abbia commesso colpa grave.
In ogni caso, se davvero la disciplina attuale dei licenziamenti fosse posta a protezione di un diritto fondamentale della persona, come può ammettersi che questa protezione sia affidata alla roulette russa che si attiva con l’assegnazione casuale dei processi a giudici così diversi tra loro per tempi e orientamento della decisione.

(1) Il numero totale di giudici che in qualche momento dei tre anni considerati hanno prestato servizio nelle Sezioni Lavoro dei tre tribunali è stato quindi superiore a quello indicato:  di 6 unità a Milano, di 10 a Roma e di 1 a Torino.
(2)
In una minoranza di casi sono possibili anche altri esiti, come ad esempio la dichiarazione di incompetenza territoriale da parte del giudice. In questi casi la durata del processo viene calcolata dall’iscrizione a ruolo alla data dell’evento di chiusura del caso.
(3)
Per il Tribunale di Roma, ad esempio, possiamo verificare che il ricorrente è persona fisica nel 97.2% dei casi.
(4) “Are judges biased by labor market conditions”  European Economic Review, 2003. In particolare, i giudici decidono in modo più favorevole al lavoratore quando il tasso di disoccupazione è alto e viceversa. Lo studio è basato sui dati di una grande banca italiana con sedi sparse sull’intero territorio nazionale e analizza non solo i casi che arrivano in giudizio ma la totalità delle controversie tra questa azienda e i suoi lavoratori, così come identificate dalle lettere con cui l’azienda ha contestato ai lavoratori le loro mancanze. Lo studio mostra anche che i casi che arrivano a sentenza non sono necessariamente rappresentativi dei casi potenziali, proprio per via dell’orientamento atteso dei giudici. Se le aziende si attendono giudici maggiormente orientati a favore dei lavoratori, licenziano solo in casi estremi che possono essere vinti in giudizio.

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25 commenti

  1. Francesco

    Non sono un esperto di diritto del lavoro ma tutto il ragionamento mi sembra basato sul presupposto che l’indennizzo sostituirebbe il ricorso al giudice. Eppure gli stessi autori riconoscono che l’indennizzo non potrebbe aver luogo in caso di licenziamento discriminatorio o colpa grave del dipendente. E chi stabilirebbe allora che il caso in questione non rientra in una di queste due fattispecie ? Un giudice immagino. Non credo nelle spiegazioni “culturali”. L’opposizione strenua dei sindacati deve dipendere da ragioni strutturali, ossia di potere all’interno dell’azienda. Posso per esempio presumere che una volta stabilito un indennizzo come criterio principe in caso di licenziamento senza giusta causa, il potere che il datore di lavoro può esercitare nei confronti dei lavoratori vari non poco a seconda del ciclo economico e del settore, almeno se tale indennizzo non è troppo elevato. Inoltre un meccanismo automatico come l’indennizzo indebolisce il sindacato come agenzia di intermediazione fra lavoratore e datore di lavoro ed eventualmente anche come agenzia che assiste il lavoratore in cerca di una tutela legale. Insomma gli attori in gioco non sono sprovveduti o male informati.

  2. massimo di nola

    Non sono un esperto in materia ma usando il buon senso e un po’ di esperienza passata (in cui ho seguito le lotte di fabbrica) mi sembra che tutta la questione articolo 18 sia discussa su un terreno secondario rispetto alla questione che credo sia al centro del tutto. E che è quella di un arma sicura per difendere il diritto dei singoli lavoratori di fare attività sindacale. Non conosco la legislazione in dettaglio ma immagino che lo Statuto dei lavoratori lasci spazio per licenziare i lavoratori improduttivi o con comportamenti antiaziendali. Ma non consente al signor Marchionne e ad altri di licenziare quelli che danno loro fastidio perchè troppo ‘militanti’. Il discorso della flessibilità, vista l’attuale situazione nelle aziende italiane, mi sembra un artificio retorico-polemico.

  3. Luca

    Da Ingegnere io vedo solo un pò di variabilità nelle situazioni presentate, sicuramente sarebbe auspicabile fossero maggiormente uniformi, ma non traspare di certo una realtà totalmente casuale come il titolo lascia invece intendere. Inoltre, sempre da Ingegnere e CONTRIBUENTE, apprezzerei moltissimo l’intervento di un giudice perchè all’indennizzo privato spesso si accompagna anche l’erogazione di sussidi pubblici. Dal momento che io in linea di principio sono favorevole ai sussidi pubblici (ammesso che si riesca a trovare i fondi) vorrei però avere la garanzia che vengano impiegati in modo saggio ed equo…proprio come farebbero in Danimarca e non come spesso viene fatto in italia. Da qui l’esigenza di un controllo anche sulla effettiva sussistenza di REALI necessità di licenziare per motivi “economici”

  4. annata77

    Lo studio in termini statici che spiega il fenomeno delle decisioni dei giudici del lavoro, può essere estesa ad altri tipi di processi e molto probabilmente il risultato sarebbe lo stesso :”roulette russa”. “Gli esiti di ogni azione sono affidati, in ultima istanza, al caso” in realtà gli elementi dirimenti sono: la sensibilità del giudice, la bravura degli avvocati. A fronte di ciò la protezione del diritto fondamentale della persona al lavoro parrebbe non essere garantita, ma può un indennizzo sostituire il diritto al lavoro? Non è forse vero che il lavoro è un diritto/dovere? Che senso avrebbe essere pagati per non lavorare, soprattutto qualora la causa di scioglimento del contratto non fosse giusta? Dove sarebbe la tutela del diritto al lavoro?E’ vero che anche l’attuale forma di protezione dei lavoratori, non li tutela al 100% tutti, ma la libertà di licenziare aumenterebbe di certo i casi di selezione opportunistica dei lavoratori da parte delle imprese, considerato che la professione-tranne casi particolari-si sta svuotando e che la dinamicità dei mercati impone un costante adattamento della produzione e quindi dell’addetto alla produzione.

  5. Alfonso Fumagalli

    Rispondo al primo commento: 1. ovviamente il lavoratore può ricorrere al giudice reclamando un licenziamento per motivi discriminatori, ma ciò avverrebbe sicuramente meno frequentemente. 2. che il sindacato perda potere nella riduzione del personale e quindi nella gestione aziendale può essere considerato positivo. I sindacalisti sono anche loro una casta: sono molti, gestiscono soldi ed fare il sindacalista è una carriera che porta al Parlamento. Quello che mi meraviglio non sia praticamente mai menzionato è la necessità di una migliore definizione della giusta causa. Attualmente è lasciata alla completa descrizionalità del giudice: una altra roulette russa

  6. GIANLUCA COCCO

    Perchè non pubblicate i dati sul rapporto tra numero di ricorsi e numero di licenziamenti? I dati sugli esiti di questi ricorsi, anche comparati per macro regioni? Perchè non pubblicate la casistica giurisprudenziale sui concetti di giusta causa e giustificato motivo? Perchè non pubblicate qualche analisi che dimostri che in prossimità della soglia dei 15 dipendenti le imprese subiscono un effetto scoraggiamento? Basare l’opportunità di conservare o meno una principio di civiltà giuridica come quello insito nell’art. 18 su una presunta disparità di trattamento dei giudici di primo grado a parità di caso affrontato, oltre ad essere banale dal punto di vista “processuale” (visto che in primo grado questo capita per qualunque argomento), non mi sembra un modo rigoroso di affrontare una tematica così importante. Importante non certo per gli effetti occupazionali della protezione dai lincenziamenti privi di giusta causa o di giustificato motivo (persino l’OCSE non ha il coraggio di dichiararne l’esistenza!). Importante invece sul piano delle tutele sindacali, vero obiettivo di coloro che si schierano contro l’art. 18, consapevoli dello smantellamento che una sua riforma produrrebbe.

  7. Lettore

    Gentili autori, condivido la soluzione proposta solo per motivi pragmatici (il numero assoluto dei processi attivati ogni anno non è rilevantissimo ed è condivisa una residua la garanzia per i casi di violazioni gravi datoriali e del lavoratore); non mi pare infatti significativo questo approfondito – ed anche pregevole – lavoro sulla aleatorietà della giurisprudenza.Ragionando in tal modoci si dovrebbe meravigliare di tutta la giurisprudenza oscillante (cito a caso, in materia di: buon costume, tutela ambientale, libertà in attesa di giudizio, valutazione della pericolosità sociale del detenuto, abuso di diritto in campo fiscale, responsabilità del medico). Insomma, qualsiasi tutela giurisdizionale ha, in qualsiasi paese, una forte componente di rischio e difformità di tempi decisionali, ciò è sengno certo di qualche disservizio ma, in genere, è buon segno di un sistema incentrato sull’indipendenza del singolo giudice. Alla Cassazione il compito, non sempre peraltro ben concluso, di dare uniformità tendenziale alla giurisprudenza con le sue sezioni unite.

  8. Luigi Oliveri

    Se esistessero regole per predeterminare gli esiti delle vertenze giudiziali, non sarebbe necessario l'operato dei giudici. Basterebbe elaborare un algoritmo ed affidare le decisioni ad un computer.
    Tra le variabili, già ricordate da altri commenti, non sono da trascurare errori procedurali, oppure elevati tassi di temerarietà delle liti ma, soprattutto, la concretezza di ogni singolo fatto, che rende i giudizi non "casuali", bensì piuttosto "unici", sicchè le analisi statistiche che li accorpano non riescono a reperire una regola unica in grado di comprovare che essa sia rispettata o violata.

  9. michele

    I diritti soggettivi non possono essere oggetto di rinunce o transazioni. E’ la legge. E’ questione di giustizia, non di denaro. E il diritto del lavoro è cosa troppo importante, vitale per le persone, per essere relegato nell’ambito del diritto privato. Nè è accettabile l’idea che un diritto sia eliminato perchè di fatto la giustizia non è in grado di garantirlo con tempi, costi e regole certe per tutti. 2) Le differenze di orientamenti giurisprudenziali e di produttività dei giudici esistono e sono radicali per tutti i rami del diritto, non solo per il contenzioso giuslavoristico, a tutti i gradi del procedimento. Basta notare il numero di sentenze a Sezioni Unite della Cassazione, per farsi ‘un’idea dei conflitti di giurisprudenza da dirimere. Perchè non pubblicate un benchmark di questi dati con una generica causa civile, per percentuale di successi, e produttività per giudice/procura? 3) che fare? 3a) introdurre la class action per cause relative ai licenziamenti collettivi; 3b) aggiornare il diritto del lavoro recependo in legge la più recente giurisprudenza della Cassazione a sezioni unite.

  10. michele

    siamo sicuri che nemmeno l’OCSE ha il coraggio di ammettere che l’articolo 18 abbia un effetto deterrente sul numero di licenziamenti? lo stesso ragionamento dovrebbe valere per chi invoca maggiori costi alla flessibilità in entrata, che non sarebbero una barriera e un deterrente ai contratti precari. E’ vero l’esatto contrario: tempi e costi della flessibilità sono, nel bene e nel male, una innnegabile barriera in ingresso e in uscita dal mercato del lavoro.

  11. marco.ascari

    Penso che sia giusto tutelare chi viene licenziato in modo discriminatorio, ad esempio gli operai della FIOM nel caso FIAT, ma allo stesso tempo penso che un datore di lavoro debba avere il diritto di licenziare chi non è corretto e produttivo e fa il fannullone…A dire la verità però l’articolo mi sembra orientato a cercare consensi alle idee espresse dal ministro Fornero riguardo alla riforma del mercato del lavoro- Purtroppo a questo riguardo non me la sento di esprimermi, la filosofia di fondo, ovvero sposare il modello danese, mi sembra condivisibile, ma fin che non si capiscono cifre e risorse disponibili non si riesce a capire se i lavoratori andranno incontro all’ennesima fregata o verranno invece premiati-ex se sono della FIOM e vengo licenziato in modo discriminatorio, ma l’azienda mi da 1 milione di euro di indennità me ne posso anche fregare della discriminazione ma se invece l’azienda come indennità mi da 1 mensilità e lo Stato mi elimina la cassa integrazione straordinaria perchè non ha soldi preferisco rimanere arretrato rispetto ai danesi e tenermi l’articolo 18…

  12. Roberto Riverso

    Mi pare che il ragionamento pseudo scientifico esposto da Ichino-Pinotti mirasse a dimostrare una verità prestabilita, ovvero che convenga abrogare la tutela reale di cui all’art.18 e sostituirlo con un prezzo giusto (….ovvero non mi piaci ti pago e te ne vai). Il ragionamento è viziato nelle premesse in quanto non è vero che i processi per licenziamento varino di esito a seconda del giudice, in quanto non esistono giudizi che siano uguali ad altri per motivi sia di fatto sia processuali. In ogni caso il rispetto dell’omogeneità dei criteri di interpretazione esiste, perche esiste a monte un organo, la Cassazione, cui è istituzionalmente demandato il compito di uniformare le interpretazioni e di eliminare le discrepanze nella materia (e su cui ciò la Cassazione si esercita fin da quando l’art.18 è nato). Veramente sgradevole ed offensiva per tutta la magistratura è perciò l’immagine della roulette russa. Nemmeno la discrepanza sui tempi dei giudizi dipende dal mondo in cui è concepito l’art.18 e dai singoli giudici, ma più che altro da una miriade di ragioni organizzative su cui Ichino-Pinotti non si soffermano minimamente.

  13. marcellop

    ..bisognerebbe vedere se, per altre tipologie di cause, esiste la stessa forbice con gli stessi giudici! ossia magari il problema non dipende dal tipo di causa ma solo che ci son giudici lenti e giudici veloci! e comunque il punto più valido è che il numero di cause di questo tipo è davvero irrisorio, non incide sulla produttività delle aziende! finiamola, finitela, è un falso problema!

  14. Gianni

    ma io dico: ma bisogna essere professori e spendere tempo e risorse (nostre…) per scoprire che una volta in giudizio, questo non è per forza di cose favorevole al lavoratore, ma possa dipendere anche dal giudice che viene assegnato?E’ ovvio che accada questo, non servono ricerche fatte ad hoc, questo meccanismo avviene per qualsiasi tipo di giudizio civile o penale che sia quindi secondo i due professori dato questo assunto, dovremmo abolire la giustizia civile e penale? Ridurre la giustizia ad un risarcimento danni forfettario valido per tutti, per chi ne avrebbe diritto e per chi non ne avrebbe diritto? che maniera di ragionare è questa?

  15. Angelo Savazzi

    Ma sinceramente non capisco! Se è vero, e non ho motivo per dubitarne, che i risultati dell’indagine siano corretti, allora perchè non intervenire sul processo per renderlo più efficiente e ridurre l’aleatorietà? Considerato che secondo gli autori sarebbe meglio prevedere la libertà di licenziamento a fronte di una penale significativamente alta, per i casi di licenziamenti non discriminatori, mi chiedo: siamo veramente sicuri che ci possano essere licenziamenti non discriminatori per giusta causa o giustificato motivo e che dietro queste ragioni non si possano nascondere motivi discriminatori difficilmente provabili? Il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo non è di per sè discriminatorio se, per esempio, provoca licenziamenti di lavoratori ultracinquantenni per assumere giovani? Ultracinquantenni che avranno difficoltà a trovare lavoro e non potranno andare in pensione. Quindi da un lato allunghiamo l’età per andare in pensione e dall’altro precostituiamo le condizioni per licenziamenti delle persone avanti con l’età…..

  16. Andrea A.

    Articolo interessante. Mi chiedevo se la grandezza dell’impresa o la “forza” (however measured) dei sindacati in suddetta impresa possano essere variabili rilevanti nella spiegazione.

  17. Makiavello

    Potete mettere a disposizione i dati originali per consentire anche a non-esperti della materia ma magari piu’ esperti di analisi dati di verificare le conclusioni, e forse identificarne altre?

  18. Giorgio

    Se gli autori avessero svolto la stessa analisi su qualsiasi altra causa legale avrebbero trovato i medesimi risultati. Poi certo, per dar man forte a chi vuole cancellare i diritti dei lavoratori allora qualsiasi “ricerca” va bene… L’unica conclusione logica che si può trarre da quest’analisi è che il sistema giudiziario italiano è soggetto all’arbitrio, non che ci siano problemi specifici nell’art. 18.

  19. donato

    Ma chi parla tanto di art. 18 perchè non ricorda mai che esiste una legge sui licenziamenti collettivi (bastano 5 lavoratori) che in 3 mesi consente alle imprese di sbattere fuori tutti i lavoratori che vogliono (con il sindacato spesso consenziente)? Ho provato direttamente questa esperienza e – credetemi – per l’azienda è stato semplicissimo. Non ha dovuto dimostrare nè giustificare nulla . Se cade adesso anche la tutela dell’art. 18 è finita, perchè gli esiti giudiziari potranno anche essere una roulette russa, ma almeno il principio della stabilità reale del posto è un deterrente a favore dei lavoratori. In pratica, significherebbe accelerare quel processo di precarizzazione che, cominciato con le assunzioni degli ultimi 10/15 anni, si estenderebbe anche alle classi di età superiore. Quello che bisogna fare, invece, è proprio il contrario, riportando un po’ di ordine nel mercato del lavoro trasformato nella giungla delle assunzioni a termine, a progetto, stage, partite Iva, ecc. L’originario e giusto principio di maggiore flessibilità in entrata, in mano agli imprenditori italiani, si è trasformato in schiavismo puro, con risultati, tra l’altro, pessimi sull’economia.

  20. fiore

    Io penso ,che ,l’Italia non è la Danimarca, e, la maggior parte degli imprenditori siano dei “prenditori” di denaro pubblico ,e ,non vogliono rischiare di investire nelle loro aziende per modernizzarle e fare prodotti di migliore qualità ,che è il miglior sistema per competere con la Cina.

  21. Giorgio

    Se ho capito bene tutto il vostro ragionamento si basa sull’esame dei tempi medi dei processi giustificato dall’assunzione che valga la legge dei grandi numeri. “per la legge dei grandi numeri, ogni giudice di uno stesso ufficio dovrebbe avere, mediamente, casi di pari complessità.” Supponiamo che non sia così e i numeri non sono poi così grandi. Avete provato a mettere i tempi dei processi, almeno di uno stesso tribunale, su di un diagramma di controllo per esaminarne la varianza? http://en.wikipedia.org/wiki/Control_chart . Cordiali saluti.

  22. cri

    tutte le chiacchiere sono buone per giustificare l’eliminazione dell’articolo 18 e avere la mano completamente libera sui licenziamenti…leggete anche la risposta del dott. martello, che spiega che in tutti i processi l’esito è ovviamente incerto e ci sono+ orientamenti giurisprudenziali!

  23. stefano facchini

    Dal tono dei commenti direi che il tentativo, piuttosto goffo, di dimostrare con numeri e grafici che è meglio per il licenziando prendere un po’ di soldi (magari pochi, maledetti e subito) che esporsi all’alea del giudizio in tribunale, è affondato. I lavoratori, che provano quotidianamente sulla loro pelle cosa voglia dire subire attacchi continui ai diritti, alla dignità, qualità e stabilità del posto di lavoro, sanno perfettamente che l’eventuale abolizione dell’art.18 dello statuto dei lavoratori permetterà quel ricambio generazionale in azienda che produrrà l’espulsione definitiva dal mondo del lavoro degli ultra-quarantacinquenni (cioè il lavoratori più tutelati), che saranno rimpiazzati da precarizzati a vita (quindi destinati alla stessa sorte al raggiungimento della fatidica soglia anagrafica), con conseguente abbassamento delle pretese e delle retribuzioni, in nome della svalutazione salariale quale unica arma ideologica per fronteggiare la competizione globale, superando così finalmente quel fastidioso “dualismo” del mercato del lavoro che vede le aziende confrontarsi ancora con i retaggi del passato welfare-state.

  24. marco marini

    La statistica in campo giurisprudenziale dovrebbe essere utlizzata in modo molto ‘prudente’ e ‘coerente’ alla tesi che si cerca di sostenere, aggiungendo i dati mancanti (citati nei precedenti commenti). La statistica può essere usata per rendere più efficiente la struttura al suo interno e non per trovare conferme improbabili a tesi economiche. Lo studio può servire a criticare la giustizia ma non la legge in oggetto. La giustizia è una materia delicata ed è un potere. L’economia non è un potere, ha funzioni diverse e dovrebbe forse trovare al suo interno gli anticorpi per guarire la sua malattia senza cercare di trovare scuse per addossare i problemi sulle spalle di altri o pensare che gli altri poteri suppliscano sempre alle sue mancanze. E’ l’economia che deve dimostrare di saper risolvere i suoi problemi. Può utilizzare strumenti giuridici ma non deve scaricare su di essi e sulle loro inefficenze le sue ‘omissioni’. Anche perchè l’economia reale trova le sue strade per trovare una soluzione, invece la giustizia può essere anche ‘ingiusta’. Tutti possiamo criticare un impreditore che fallisce, anche se non ha grandi colpe personali ma nessuno sindaca l’operato di un giudice.

  25. aurelio cipriani

    in linea del tutto teorica e’ uno dei piu bei articoli dello statuto dei lavoratori, ma non mi risulta abbia impedito una marea di licenziamenti. Si sta svolgendo una battaglia di retroguardia alla DON CHISCOTTE per salvaguardare ben pochi lavoratori. in un mondo che cambia vertiginosamente il restare fermi e’ una scelta pazzesca, e da vecchio ex sindacalista non piu comprensibile dopo tutti gli errori sindacali fatti.

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