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GIOVANI E SENZA FORMAZIONE

Sempre più difficile per i giovani l’ingresso nel mercato del lavoro. Per una quota rilevante il percorso di avviamento al lavoro può durare anche diversi anni. Durante i quali l’apporto formativo on the job è insufficiente a garantire l’inserimento stabile nel mercato del lavoro. La formazione ricevuta scende con l’accorciarsi della durata dei contratti e diminuisce al diminuire del livello di istruzione, penalizzando quindi i meno istruiti con contratti di breve durata. Resta da risolvere il grave e diffuso problema degli abusi. Le sperimentazioni in alcune Regioni.

Le trasformazioni del mercato del lavoro e la recente crisi hanno contribuito a rendere più difficile la transizione al lavoro (a tempo indeterminato) dei giovani. (1) La maggiore flessibilità contrattuale e il maggior turnover hanno finito per ridurre ulteriormente i vantaggi, per imprese e lavoratori, a investire in formazione durante le fasi iniziali del processo di transizione al lavoro stabile. L’attuale assetto che regola le attività formative dei giovani espone una quota rilevante di essi a un percorso di avviamento al lavoro, che può durare anche diversi anni, in cui l’apporto formativo on the job ricevuto è insufficiente a garantire l’inserimento stabile nel mercato del lavoro.

I TRE PROBLEMI DELLA TRANSIZIONE

In particolare, tre sono gli aspetti critici della fase di transizione: l’eccessiva durata per l’inserimento nel mercato del lavoro; la tipologia, le garanzie accessorie e la breve durata dei contratti di lavoro, nonché gli eventuali episodi di disoccupazione, che i giovani sperimentano prima dell’accesso al lavoro stabile; se si escludono i contratti formativi (apprendistato e contratto di inserimento, che non sono comunque esenti da problemi), nessun altro tipo di intervento a sussidio dell’investimento in formazione continua in Italia ha come target specifico i giovani. (2)
I giovani attivi con una età compresa tra i 15 e i 35 anni di età che hanno completato il percorso scolastico da meno di cinque anni sono circa due milioni: il 10 per cento risulta non essere in possesso nemmeno del diploma di scuola superiore, il 50 per cento possiede un diploma di scuola superiore e il 40 per cento è laureato. Utilizzando i dati dell’indagine sulle forze lavoro (Istat) per il 2010, possiamo rappresentare (figura 1) la loro condizione occupazionale a seconda della distanza dalla fine della scuola e per titolo di studio.
La quota di giovani che, appena concluso il percorso scolastico, risulta senza occupazione è minore per i laureati (40 per cento) e maggiore per i meno istruiti (60 per cento). Dopo cinque anni, la  quota si riduce al 40 per cento per chi ha meno del diploma di scuola superiore, al 20 per cento per chi è diplomato e al 10 per cento per i laureati. Appare chiaro che la presenza di contratti a tempo determinato, pur facilitando l’incontro tra lavoratore e impresa e accorciando il periodo di ricerca del (primo) posto di lavoro per i giovani senza esperienza, ha moltiplicato la sequenza di posizioni lavorative a termine – con diversi livelli di garanzie – ritardando il momento dell’inserimento stabile in azienda con un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Figura 1: Condizione occupazionale per livello di istruzione (da 1 a 5 anni dalla conclusione degli studi)

Inoltre, anche tra i lavoratori dipendenti – i lavoratori parasubordinati sono esclusi dall’analisi – le forme contrattuali sono fortemente eterogenee e, come risulta dalla tabella 1, l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro (il primo impiego e quelli immediatamente successivi) avviene principalmente con contratti di lavoro alle dipendenze “non-standard”.

Tabella 1: Tipologia contrattuale dei giovani per distanza dalla fine della scuola (occupati dipendenti)

QUANDO NON C’È LA FORMAZIONE

La percentuale di giovani con un contratto a tempo determinato (indeterminato) si riduce (aumenta) lentamente con il passare degli anni, a indicare un certo tasso di trasformazione in contratti a tempo indeterminato, tuttavia la percentuale di giovani con un contratto di lavoro alle dipendenze “non-standard” è prossima al 30 per cento anche dopo cinque anni dal completamento degli studi. Quale e quanta formazione ricevono i giovani in questa fase di transizione al lavoro stabile? La formazione ricevuta diminuisce con l’accorciarsi della durata dei contratti e diminuisce al diminuire del livello di istruzione penalizzando quindi i meno istruiti con contratti di breve durata (in particolare con contratto di durata inferiore ai 12 mesi).
Inoltre, l’ingresso nel mercato del lavoro dovrebbe essere caratterizzato da un maggiore investimento in formazione rispetto agli anni successivi, dal momento che gli investimenti precoci hanno rendimenti privati e sociali maggiori. Tuttavia, come si può vedere dalle ultime righe della tabella 2, ciò risulta essere vero solo per i lavoratori con basse qualifiche (3,1 per cento rispetto a 1,6 per cento degli ultra-35enni) per effetto della maggiore formazione svolta dagli apprendisti, ma è soprattutto per questa categoria che il target di Europa 2020 (15 per cento) è ancora molto lontano.

Tabella 2: percentuale di occupati che hanno svolto almeno una attività formativa per tipologia di contratto e durata

Appare evidente che gran parte dei giovani non riceve alcuna formazione. Questo dovrebbe far riflettere anche alla luce delle recenti proposte di riforma dei contratti di lavoro, che individuano nel contratto d’apprendistato la modalità da prediligere per l’ingresso dei giovani sul mercato del lavoro. Inoltre, resta aperto il grave e diffuso problema degli abusi: da un lato, vi è l’utilizzo improprio (e spesso prolungato) di contratti “non-standard” al solo fine di abbassare il costo del lavoro e disporre di un margine di forza lavoro facilmente aggiustabile secondo il ciclo economico; dall’altro vi è l’inadeguatezza dei contenuti formativi utilizzati principalmente per poter beneficiare delle (spesso generose) sovvenzioni anche e soprattutto dei contratti cosiddetti “formativi”. Per quanto ovvio, solo un attento monitoraggio dell’applicazione dei contratti e una scrupolosa valutazione della qualità degli interventi di formazione erogati può consentire di ridurre gli abusi. Anche la semplice erogazione delle sovvenzioni solo al termine dell’intervento di formazione, condizionata a un’attenta verifica della formazione impartita e delle conoscenze acquisite, potrebbe contribuire a migliorare gli esiti formativi. Con riferimento agli interventi più specifici, va colmato il grave squilibrio negli interventi formativi (sia nazionali a valere sulla legge 236/93 e sulla legge 53/00, sia regionali a valere sul Fse, sia dei fondi paritetici) tra le diverse tipologie e durate contrattuali, perché nonostante il a fronte del grande sforzo normativo ed economico degli ultimi decenni non si è registrato un sensibile miglioramento negli esiti formativi dei giovani, soprattutto delle fasce più svantaggiate. Per i giovani lavoratori è necessario prevedere interventi “ad hoc” e mirati che, pur inquadrandosi nel contesto istituzionale esistente, dovrebbero essere indirizzati a una corretta attuazione della normativa, a un miglior coordinamento degli interventi, a garantire la qualità degli interventi formativi nonché una maggiore portabilità delle conoscenze acquisite. Un esempio è costituito dagli Individual Learning Account (Ila), già utilizzati in vari paesi europei e oggetto di recente sperimentazione in alcune Regioni italiane (Toscana e Umbria) per finanziare la formazione continua individuale per lavoratori con contratti di lavoro “non-standard” (e disoccupati). (3) Tuttavia, non esistono né dati né valutazioni in merito agli esiti formativi delle sperimentazioni nelle Regioni italiane. Insomma, resta ancora molto da fare.

(1) Il richiamo a una maggiore attenzione dei governi europei al lavoro giovanile è stato lanciato dall’Ocse (Oecd Employment outlook, 2011 ) e, più recentemente, dall’ex-governatore della Banca d’Italia Mario Draghi.
(2) Sui problemi posti dall’apprendistato vedi Tito Boeri e Pietro Garibaldi “Nuovo apprendistato contro lo spreco di capitale umano” del 20.9.2011.
(3) Le modalità di implementazione tuttavia sono state assai diverse, sia in merito alle modalità di erogazione (alcune Regioni hanno preferito finanziare le aziende, altre fornire voucher individuali), sia in merito all’ammontare del finanziamento (tra 500 e 5.000 euro).

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UNA DOTE DI CURA PER I NON AUTOSUFFICIENTI

  1. g.t.

    L’effetto di disoccupazione è determinato dalla presenza di barriere all’entrata nel settore di mercato di riferimento, tale per cui un aumento del P.I.L. è funzione dei maggiori poteri di acquisto da parte delle classi di reddito con maggiore intensità produttiva del totale dei salari. Perciò la diminuzione della disoccupazione è equivalente ad una maggiore domanda effettiva in beni di trascuranza delle scarsità globali: aumenti dei flussi di margini di profitto e quindi del prodotto netto a parità di produttività.

  2. SAVINO

    Il problema sono i padri dei NEET attuali, cioè i NEET degli anni ’60-’70-’80, che, pur non avendo mai studiato un granchè in vita loro, si sono ritrovati, ben oltre le loro capacità e la loro consapevolezza, nei posti di comando. Oggi, invece, chi è arrivato al massimo degli studi e delle competenze e continua ancora a formarsi è socialmente emarginato. Se non cesseranno la selezione per conoscenze, le barriere all’entrata e l’egoismo dei più anziani non andremo da nessuna parte. Deve tornare il messaggio per cui si ottiene tutto solo sudandoselo. Mi pare che un certo Monti, proprio oggi, riferendosi ad altro argomento, abbia detto che i padri stanno facendo mangiare ai figli pane avvelenato.

  3. Maurizio

    Il problema è la moltitudine di laureati in scienza della formazione, della comunicazione, ecc ecc non in grado di scrivere una lettera di 10 righe senza fare 20 errori. A questi aggiungiamo i semianalfabeti che hanno raggiunto il livello dell’obbligo scolastico ed il quadro è completo. Come pensiamo di risolvere il problema di una disoccupazione giovanile dilagante che comunque dispone di un reddito sufficiente e senza alcuno stimolo. Forse ha ragione l’On Cetto La Qualunque i giovani sono un problema e non una risorsa.

  4. marco

    A mio giudizio ci vuole una grande riforma dell’istruzione e della formazione, ormai urgente da decenni; così com’è strutturato il nostro sistema scolastisco risente ancora della riforma Gentile!!! E’ un fatto di logica; bisogna collegare il mondo del lavoro con con i cammini scolastici e formativi e gestire i flussi in base all’esigenze e ai posti attraverso i numeri chiusi; che senso avere tanti ragazzi che fanno guirisprudenza quando non c’è bisogno di avvocati?scuola unica e istruzione obbligatoria fino a 17 anni per fronteggiare le emergenze linguistische e culturali di oggi;poi diversi percorsi; vuoi fare l’idraulico, l’imbianchino l’artigiano; per due anni la mattina fai formazione e il pomeriggio lavori part-time per avere la specializzazione; ci sono più o meno 80 richieste in zona come parrucchieri in un anno? Metti il numero chiuso a 80; stimi (ufficio centro per l’impiego)che le banche in provincia di Catania assumeranno 20 cassieri nei prossimi 4 anni? Bene fai una laurea breve triennale in economia a numero chiuso (20) che specializza come cassiere; la mattina in banca con un part-time; il pomeriggio a lezione all’università;

  5. Paolo

    Un fatto certo è che il nostro sistema scolastico possiede serie carenze formative ma soprattutto strutturali. Dalle materie inutili ai corsi extra scolastici superflui, non si vede ombra di una vicinanza concreta al mondo del lavoro tale da preparare non solo culturalmente una persona ma anche professionalmente. Occorre anche avere programmi e piani di studi innovativi per formare persone pronte alle innovazioni. Il mondo del lavoro si dovrebbe accorgere che la distanza da tale mondo puo portare solo ad uno stato obsoleto di se stesso per mancanza di professioni. Attualmente il problema non si riduce a tutto ciò, ma alla costante ricerca di profitto che non può esserci senza un consumo di beni. I gradi di istruzione possono piu o meno influenzare i tipi di contratti di lavora ma non è difficile trovare ottime professionalita sottopagate o non interessanti per il mondo lavorativo, oppure basse professionalità che servono al mondo del lavoro ma che non vengono inpiegate per mancanza di titoli. Infine, il titolo professionale o il grado di istruzione non possono essere messe in relazione con il tipo di contratto di lavoro. no consumi, no lavoro, no contratti.

  6. Luca

    Spesso viene detto che il nord è molto più dinamico ma non per i giovani. Io vivo in Emilia, e vi posso assicurare che tra i ragazzi tra i 20 e i 30 anni una grossa parte di essi non fa niente: moltissimi mantenuti da genitori che hanno posto fisso e buoni stipendi, quindi finchè stanno con i genitori possono permettersi alti tenori di vita, mentre se uscissero d casa farebbero i barboni. C’è poco lavoro pure al nord!

  7. lino milita

    Certamente i fattori sono molteplici. Dal lato scolastico (scuole superiori) senza bisogno di rivoluzionare granché e di avere miriadi di assunzioni. Con il personale che già esiste. Abbiamo istituti tecnici, professionali e per il commercio (dove vi sono la maggior parte di iscritti), dove bene o male si fa formazione e lavoro con sempre più difficoltà per la gestione e la manutenzione dei laboratori. Non ci vuole molto, dal 1955 dalla legge sull’apprendistato tutti parlano raccordo mondo del lavoro e formazione superiore, e didattica prevalentemente laboratoriale (che già vi è da decenni: ma come al solito non fa sistema). Anche in questi giorni. E invece si vogliono meno assistenti tecnici e insegnanti tecnico pratici e accorpamenti improduttivi di classi di concorso per gli insegnanti di “teoria”.. e ancora a parlare di Gentile… come nel 1982 con il commodore tra le mie mani e stamattina con un server tra le dita.. e vari router con i miei studenti – miei perché sono a me cari..

  8. roberta

    Vorrei sottolineare la condizione di tanti giovani, con un’ottima formazione alle spalle, che investono parte del loro tempo e del loro sapere al servizio della Pubblica Amministrazione, lavorando magari come precari, preparandosi ai concorsi, superandoli per poi attendere una chiamata che non arriverà e sperare di fare la differenza in uno Stato che invece li dimentica e non mantiene gli impegni presi. Se il mercato del lavoro va cambiato e gli abusi sconfitti, non dovrebbe essere in primis il lavoro pubblico a dare l’esempio e segnare la strada della meritocrazia, della valorizzazione del capitale umano, della “standardizzazione” dei rapporti di lavoro, abbattendo quella pletora di escamotage ad oggi usati per non assumere giovani talentuosi? Roberta – vincitrice non assunta del concorso ICE

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