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PERCHÉ L’ITALIA VA FUORI GARA

La produzione di una innovazione richiede il mettere assieme gli input di due o più persone.  Una ha i soldi ma non ha idee, un’altra ha un’idea innovativa ma non ha soldi. Ed è fondamentale la sicurezza del rapporto contrattuale. Passiamo in rassegna tre modelli differenti di successo: gli Stati Uniti, il Giappone, e la Germania. Com’è invece messa l’Italia? Male sotto ogni aspetto: capitale umano, facilità di finanziamento, sistema giuridico inefficiente. È anche per questo che il paese non cresce.

Circa dieci anni, quando insegnavo economia alla University of Pennsylvania, ricevo dal consolato italiano un invito a un incontro tra l’ambasciatore d’Italia a Washington -anzi, Sua Eccellenza l’Ambasciatore– e la comunità dei ricercatori Italiani nell’area di Filadelfia. Argomento del meeting non specificato. Decido di partecipare. Sono circondato da una quarantina di persone, la maggior parte esimi scienziati nel campo medico, un mio collega economista. Immagino quindi che l’argomento del dibattito sarà chiedere a tutti questi scienziati di successo come fare a replicare in Italia le condizioni virtuose che li hanno attratti negli Stati Uniti. Entra Sua Eccellenza e, dopo alcuni salamelecchi del console, inizia a parlare. Un discorso così confuso che gli invitati si guardano sempre più incerti. Le domande fioccano ma non si riesce a fare breccia nella confusione. Dopo una mezz’ora di nebbia verbale, sotto l’incalzare delle domande sempre della platea, Sua Eccellenza sembra indicare che l’obiettivo del meeting è invitare quegli scienziati che detengono brevetti negli Usa (di nuovi farmaci, per esempio) a tornare a lavorare nell’università Italiana. Il che implica, soprattutto, donare i brevetti (e le annesse royalty) allo Stato Italiano.

UNA PLATEA SBALORDITA

Seguono di raffiche di commenti non del tutto gentili. La ribellione è brevemente interrotta da un tale in platea che, dichiarandosi ricercatore in un ottimo ospedale locale, prende le difese di Sua Eccellenza. Questo disorienta momentaneamente il gruppo di medici, alcuni dei quali lavorano in quello stesso ospedale, che non conoscono il tale e lo interrogano. Approfittando del momento di tregua, il console prende Sua Eccellenza sotto braccio e si allontana velocemente. Venne poi fuori che il sedicente ricercatore era il marito di un’impiegata del consolato che in Italia faceva il rappresentante di medicinali.
Questo aneddoto serve a riflettere sulla capacità del “sistema Italia” di produrre innovazione e, quindi, crescita economica. Intendo come “sistema Italia” la rete di relazioni produttive e l’infrastruttura (legale e fisica), che generano innovazione.

COME FUNZIONA l’INNOVAZIONE

Semplificando all’osso, la produzione di una innovazione (in campo medico, per esempio) richiede il mettere assieme gli input di due o più persone.  Per esempio, Adalberto ha dei soldi ma non ha idee, mentre Bernardo ha un’’idea innovativa ma non ha soldi. Mettendoli assieme sono una coppia vincente, ma separatamente non possono produrre nulla. L’esempio vuole illustrare due principi importanti.
Il primo è che i nostri due eroi devono poter contribuire con input eccellenti: Adalberto deve avere tanti soldi, e Bernardo un’ottima idea. Il secondo principio: in un certo senso, ancora più importante della qualità degli input è la sicurezza del rapporto contrattuale. Se Adalberto non può scrivere un contratto che gli garantisca di ottenere I soldi indietro (almeno in caso di successo della partnership), allora non si fiderà di prestare i soldi a Bernardo.

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TRE MODELLI DI SUCCESSO

Cosa ha a che vedere tutto questo con la produttività di un paese come l’Italia? Per capirlo, guardiamo a tre modelli differenti di successo: gli Stati Uniti, il Giappone, e la Germania.
Gli Stati Uniti sono un paese dove la certezza dei contratti è alta. Questa certezza deriva, in gran parte, da un sistema giudiziario rapido ed efficiente. Mr. Adalbert può, se vuole, facilmente recuperare il suo capitale di investimento. Di converso, ottenere credito per Mr. Bernard è facile. Queste cose ce le dice il rapporto “Doing Business” della World bank, che classifica gli Stati Uniti al quarto posto al mondo per facilità di ottenere credito, e al quinto posto nella protezione degli investimenti.
Una conseguenza virtuosa del modello Usa è che i fattori produttivi anche esteri (inclusi i Bernardi portatori di idee innovative) sono attratti irresistibilmente dall’abbondanza di fattori produttivi complementari (i capitali degli Adalberti) e da un sistema legale che consente la felice unione dei due. Date queste condizioni, la qualità degli input “indigeni” è relativamente meno importante: se gli americani sono scarsamente scolarizzati (i quindicenni statunitensi sono solo al ventiquattresimo posto al mondo nella classifica di conoscenza della matematica) poco importa. Ci sono tanti “geni” indiani e cinesi ben contenti di andare a innovare negli Usa ed essere finanziati lì.
Il modello del Giappone è completamente diverso. Lì le controversie non si risolvono per vie legali, ma vengono composte privatamente. In Giappone è l’interazione ripetuta, il controllo sociale, la pressione verso il consenso che dissuadono Bernardo-san dal fuggire con il denaro di Adalberto-san. La rete di conoscenze è essenziale per fare business in Giappone. In questo sistema chi viene da fuori è sfavorito, chi è dentro il sistema prospera. Infatti le società estere hanno grandi difficoltà a fare breccia nel mercato giapponese. In questo sistema, la qualità degli input locali, specialmente le idee innovative, diventa essenziale. Fortunatamente, il sistema educativo è di alto livello: il Giappone è quarto nella classifica Pisa. E quindi, nonostante il Giappone sia mediocre nella protezione dei creditori e nella facilità di ottenere finanziamenti (diciassettesimo e ventiquattresimo nella classifica “Doing business” 2012), il sistema rimane relativamente produttivo (disoccupazione attualmente al 4 per cento) e molto innovativo.
Più vicino a casa nostra, la Germania è un sistema che fa benino dal punto di vista Pisa (decima in matematica) e merita un voto di “appena sufficiente” dal punto di vista di protezione degli investimenti. Ai tedeschi questo basta per andare avanti bene e, con l’aiuto dell’export, essere la locomotiva d’Europa.

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CREARE NUOVE IMPRESE

Ora, si capisce che questa mia storiella è semplicistica: sono molte le determinanti della capacità  produttiva di un paese, e non voglio dire che le due misure che ho individuato siano le uniche a contare. La stabilità macroeconomica conta, per esempio, così come altri fattori. Tuttavia, se vogliamo creare nuove imprese, è chiaro che la qualità degli input (specialmente il capitale umano) e la protezione degli investimenti sono due fattori fondamentali. Non a caso, se guardiamo alla recente inchiesta Ge global innovation barometer 2011, i mille dirigenti d’impresa intervistati indicano Usa, Germania, e Giappone come i tre paesi leader nel campo dell’’innovazione.

MA L’ITALIA RIMANE INDIETRO

E in Italia, come siamo messi? Purtroppo, male sotto ogni aspetto. Dal punto di vista di “doing business” l’Italia è novantottesima e sessantacinquesima, rispettivamente, nella facilità di raccogliere capitale e nella protezione dei creditori. Quindi, se Bernardo, volendo, può fuggire tranquillamente con i soldi di Adalberto, di converso Adalberto i soldi non li presta. “Accà nisciuno è fesso”, anzi…  Va bene, si dirà, magari ce la caviamo con la strategia giapponese. E qui siamo più forti di sicuro, giacché un sistema “inciuciato” come quello Italiano i giapponesi ce lo invidiano. Il problema però è la qualità degli input. La classifica Pisa ci piazza al ventottesimo posto per capacità matematica dei nostri quindicenni. Che già è insufficiente, e di molto. Ma le cose sono ancora peggio se consideriamo la “fuga dei cervelli” che ci toglie anche quei pochi “geni” che produciamo. E di conseguenza abbiamo una disoccupazione all’8 per cento, una disoccupazione giovanile del 30, e le cose peggioreranno presto perché lo Stato non rimpiazzerà i dipendenti pubblici andati in pensione. Risultato: soltanto il 2 per cento dei dirigenti intervistati per il Global innovation barometer indica l’Italia come un paese leader nell’innovazione.

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15 commenti

  1. PDC

    Mi pare che il modello si presti a spiegare le difficoltà nella creazione di start-up tecnologicamente innovative. Non spiega le difficoltà ad innovare ed a sfruttare le innovazioni da parte di aziende consolidate. Qui il problema non è trovare i soldi, è la cultura tecnofobica della classe dirigente italiana.

  2. Supporter

    Personalmente ritengo che la piu’ grand differenza con il sistema giapponese non sia nell’input formativo, infatti anche da noi ci sono degli ottimi cervelli e la preparazione è mediamente apprezzata all’estero. La vera differenza è che l’economia giapponese è costituita da una prevalenza di grandi imprese capaci di fare sistema da sole e di reperire i capitali per far fruttare le buone idee. Non per niente i giapponesi sono stati in grado di mettere in produzione oggetti complicatissimi da produrre, come gli LCD od i rulli delle fotocopiatrici ed in futuro gli OLED… Da noi prevale la piccola impresa, povera di capitali , di prospettive, di tutto. Da noi , se hai una buona idea , la si brevetta per difenderci o la massimo per chiedere royalties non per sfruttarla. Conclusione: siamo poco affidabili per fare “gli americani”, abbiamo perso troppe grandi aziende per fare i “Giapponesi”.

  3. Alessandro

    Caro Professor Persico, parole sante… ma i politici le leggeranno? Monti è un economista, dovrebbe capire, ma quanto durerà?? Viene giustamente sottolineata l’importanza del capitale umano, sapesse, caro Prof., cosa sta succedendo nelle università italiane in questi mesi: molti concorsi da ricercatore regalati ad “emeriti analfabeti”, ed è quasi impossibile fare ricorso per gli elevati costi legali che si dovrebbero sostenere… Così il capitale umano delle nostre istituzioni si impoverirà ancora di più!

  4. DiSc

    La ricerca e l’innovazione vengono spesso proposte come soluzioni ai problemi del nostro Paese, come la produttivita’, la gestione del territorio, la politica energetica. Credo sia un errore. I problemi italiani spesso non hanno bisogno di soluzioni nuove: le soluzioni esistono gia’, da decenni, sono gia’ applicate da paesi vicini o lontani, e a volte sono state ideate proprio da italiani. Il problema e’ piuttosto che non si riescono ad adottare per motivi storici, sociali e culturali, e in generale a causa dell’inefficacia del sistema politico. Per fare un esempio, a nulla varrebbe inventare connessioni superveloci se manca la volonta’ di usarle, o metodi industriali innovativi senza una politica industriale. Oppure computer portatili Olivetti se poi si lascia l’azienda in pasto a General Electric.

  5. Piero

    Lo scadimento delle strutture formative in Italia è molto forte, possiamo reggere fino alla scuola media inferiore ma dalla scuola media superiore all’università non abbiamo più nessuna struttura di eccellenza che i paesi Esteri ci invidiano, nessuno viene a fare i master in Itala, anche i bocconiani devono andare a fare i master all’estero. Anche Monti è responsabile del macello formativo. Ci vuole più selezione, altrimenti abbiamo le strutture scolastiche dell’est, tutti laureati, le scuole non attraggono le eccellenze perché non hanno infondi per sostenere la ricerca, dovendo fare studiare tutti, anche chi non n’è ha voglia.

  6. Dario Quintavalle (Twitter: @darioq)

    Mi pare che il gustoso episodio metta in luce anche l’ondivaga politica verso gli italiani emigrati e le nostre comunità all’estero. Da un lato si inseguono i discendenti degli emigrati con una legge sulla cittadinanza molto generosa, rilasciando passaporti a chi di italiano ha ormai solo il nome, dall’altro si tengono in questo modo approssimativo i contatti con gli italiani all’estero, spesso divenuti soggetti influenti negli stati di residenza. Se guardiamo a come l’Irlanda ha saputo trasformare la sua enorme comunità di emigrati e discendenti in una potente lobby, soprattutto in America, direi che abbiamo molto da imparare anche su questo punto.

  7. ciggi

    L’episodio raccontato, purtroppo, è sintomatico di comportamenti molto frequenti. Cercare di turlupinare l’interlocutore per proprio tornaconto personale, o pensare che fare i furbetti ci possa portare lontano affossa ogni speranza di crescita e successo. Chi non vuole dedicarsi alla “nobile arte” del pacco è costretto a spendere le sue migliori energie per difendersi dalle probabili fregature, invece che concentrarsi sul far funzionare le attività di cui è responsabile. Solo un cambio di passo generalizzato, regole certe e correttezza diffusa ci possono pertare fuori dal pantano.

  8. Armando Pasquali

    Articolo dai contenuti condivisibili ma, come già fatto notare da altri, carente sul piano propositivo. Anche perché copiare i modelli altrui sperando di portare a casa i risultati è spesso causa di cocenti delusioni. Oggi si vedono in giro ultrasettantenni con la borsa piena di soldi che selezionano ragazzetti vogliosi di varare la loro start up più o meno tecnologica. Se si guarda alle idee premiate in questi incontri qualche interrogativo si pone. Ma veramente si pensa di far avanzare un paese pensando in piccolo, con imprese che nasceranno nane e tali resteranno se avranno la fortuna di sopravvivere?

  9. Silvio Saul

    Ho un figlio che sta facendo il dottorato di ricerca in Giappone, e mi dice che ci sono giovani canadesi, americani, francesi, tedeschi e di altri paesi.

  10. Maurizio

    Andando sul pratico senza parlare della genesi e della filosofia dell’innovazione, avete mai provato a fare qualcosa di innovativo (non rivoluzionario ma semplicemente innovativo) per il quale serve una autorizzazione da parte di una delle mille autorità di ostacolo e controllo? Provate! L’imprenditore che fa innovazione è forse più ladro degli altri e viene visto proprio come un delinquente che sta tramando chissa cosa. Non pensate mai di fare qualcosa di nuovo perché l’Italia non è fatta per gli innovatori ma solo per pecore.

  11. AZ

    … cioe’ dall’evitare di tassare i finanziamenti all’innovazione. Per esperienza personale, ne ho visti di soggetti a ritenuta di acconto del 4%, e ne ho visti altri di fatto soggetti all’IRES. Meno semplice, costruire un minimo di infrastruttura che si occupi di ricerca traslazionale. Piu’ difficile di qualsiasi cosa, uscire dall’impasse per cui in italia il capitale di rischio privato ha (a parte rare eccezioni) budget risibili con cui di solito interviene su tecnologie industrialmente valide (a basso costo), mentre lo stato nelle sue varie articolazioni tende (tendeva, quando c’erano solldi) a finanziare bene le iniziative improduttive di una minoranza accademica, spargendo briciole a pioggia su tutti gli altri. Solo se e il pubblico finanziasse l’innovazione con criterio (di merito) e in modo quantitavamente adeguato si potrebbe iniziare a cambiare il mercato del capitale seed/BA/VC in italia, e smettere di essere una miniera di innovazione cash free.

  12. DDPP

    L’articolo mi è piaciuto, ma non ne ho capito la chiusura. Cosa centra se non vengono sostituiti i dipendenti pubblici che vanno in pensione? Vuole sostenere l’equazione: più pubblici dipendenti = + ricerca?

  13. giancarlo

    L’argomentazione del prof. Persico è nota e può essere estesa anche agli investimenti stranieri in attività tradizionali italiane… Le mafie invece hanno maggiore capacità di innovazione del loro business, data la molto alta protezione del credito… Sono rimasto sorpreso dalla meschinità del personale della Ambasciata di Washington. Pensavo che gente così scadente, mezzi mentecatti (tipo Vattani), abbondassero solo nelle capitali meno importanti. Personale così scadente è uno spreco di risorse e un freno penoso e vergognoso sia per l’interscambio che per la cooperazione. Saluti.

  14. MARCO

    Basta sconfiggere la potentissima lobby dei tassisti e i “geni” italiani che lavorano all’estero faranno la gara per tornare nel bel paese…

  15. fabrizio persico

    Caro Professor Persico, sarei felice di poterle dire che siamo parenti, ma credo proprio che ci leghi solo una condivisione di idee sull’argomento da lei brevemente ed intelligentemente riassunto nella sua esposizione. Mi trovo completamente d’accordo su tutto quanto da lei affermato, anche perché in questi due anni ho cercato di far accettare da Enel, Autostrade, Terna e Ducati Energia un progetto di produzione di energia elettrica basato sullo sfruttamento dell’energia meccanica delle macchine in transito sulle ns autostrade tramite l’utilizzo sotto il manto di asfalto di generatori piezoelettrici progettati da un gruppo di scienziati israeliani (Innowattech) dell’Istituto Tecnologico di Haifa. Viaggi avanti e indietro da Israele, ma alla fine non si conclude nulla perché chi deve decidere non si vuol assumere il minimo rischio (mettere mano al portafoglio…) e aspetta sempre che lo Stato italiano ci metta i soldi. Una banda di incapaci.

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