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MA L’UNIONE FISCALE È UN’ALTRA COSA

Non è con l’accordo raggiunto faticosamente l’8 dicembre che l’Unione Europea raggiungerà una vera unione fiscale. Perché il presupposto per imporre una rigida disciplina fiscale ai singoli Stati è l’esistenza e la consistenza di un bilancio federale. E solo un forte potere federale, dotato di legittimità democratica, può imporre sanzioni severe agli indisciplinati. Se l’Europa si dotasse di un bilancio federale sarebbe anche più ovvio emettere Eurobond e non sarebbero più necessari complessi fondi salva Stati. La miopia politica non aiuterà a calmare l’ira dei mercati.

Il tono della dichiarazione dei capi di Stato dopo il summit dell’8 dicembre è dimesso: “Negli ultimi 18 mesi l’Unione Europea e la zona euro si sono molto prodigate per migliorare la governance economica e adottare nuove misure in risposta alla crisi del debito sovrano. Tuttavia le tensioni dei mercati nella zona euro si sono esacerbate e dobbiamo compiere maggiori sforzi per affrontare le sfide attuali. Oggi abbiamo convenuto di progredire verso un’unione economica più forte, il che implica interventi in due direzioni: un nuovo patto di bilancio (fiscal compact) e un rafforzamento del coordinamento delle politiche economiche (…)”.

IL NUOVO PATTO DI BILANCIO

Molti osservatori hanno interpretato quest’affermazione come il primo passo verso una storica unione fiscale, anello mancante per una solida unione monetaria. In realtà, una lettura testuale dell’intero comunicato lascia molti dubbi circa l’accordo raggiunto dopo un’estenuante discussione e il rifiuto inglese ad aderirvi. È possibile che la stesura finale dell’accordo intergovernativo, che dovrà entrare “in vigore per il prossimo ciclo di bilancio” risulti diverso da quello che il comunicato stabilisce, ma oggi questo è l’unico documento ufficiale che abbiamo, quindi vale la pena analizzarlo con attenzione.
L’idea del nuovo “compact” è molto semplice: “I bilanci delle amministrazioni pubbliche devono essere in pareggio o in avanzo; il principio si considera rispettato se, di norma, il disavanzo strutturale annuo non supera lo 0,5 per cento del Pil nominale. La regola verrà inserita anche negli ordinamenti nazionali degli Stati membri a livello costituzionale o equivalente”. Non traggano in inganno le locuzioni “di norma” o “disavanzo strutturale” poiché i margini della politica fiscale rimarranno estremamente ristretti. Infatti, nel paragrafo successivo si specifica che “non appena alla Commissione risulti che uno Stato membro ha superato la soglia del 3 per cento, scatteranno conseguenze automatiche a meno che la maggioranza qualificata di Stati membri della zona euro sia contraria”.
Come è stato notato da vari commentatori: 1) questa impostazione è identica a quella da poco recepita nell’ordinamento costituzionale tedesco. In altre parole, come dieci anni fa la Germania impose all’Europa il suo modello di politica monetaria e di banca centrale, oggi esporta anche il suo modello di politica fiscale; 2) mentre allora, il Patto di stabilità e crescita era sancito da regole comunitarie accentrate e derogabili, oggi il “patto di bilancio” è “anche” inciso nella costituzione di ogni paese. Pertanto è molto difficilmente derogabile; 3) il riferimento alla crescita è sparito, come se l’equilibrio di bilancio fosse sempre una precondizione per una qualsiasi politica di sviluppo economico.

COSÌ NEI PAESI FEDERALI

È bene tuttavia osservare che seppure in molti paesi federali viga un vincolo di bilancio in pareggio per i singoli stati membri della federazione, in tutti esiste – accanto ai bilanci statali – un bilancio federale di dimensioni ragguardevoli. Negli Usa, per esempio, nel 2011 ci si attende che la spesa federale arrivi al 24 per cento del Pil e al 60 per cento di tutta la spesa pubblica, mentre la California – ritenuta un esempio eclatante di indisciplina fiscale – ha un deficit pari all’1 per cento del suo Pil. Il bilancio federale consente una significativa azione di assorbimento sia degli shock aggregati sia di quelli idiosincratici (cioè quelli che colpiscono uno o solo alcuni degli stati) e quindi un miglior consumption smoothing, cioè si evitano eccessive cadute dei consumi in presenza di shock negativi, a tutto vantaggio del benessere sociale. (1) Certo, l’attuale dimensione e funzione del bilancio federale negli Usa è il frutto del new deal roosveltiano per uscire dalla Grande Crisi.
Proprio per non ripetere la strada lunga e dolorosa percorsa dall’America (compresi i default di qualche stato), nel famoso rapporto Delors del 1989 si scriveva: “in tutte le federazioni le diverse combinazioni di politiche di bilancio hanno un potente effetto di assorbimento degli shock, riducendo l’ampiezza delle difficoltà economiche o degli improvvisi incrementi di prosperità dei singoli stati. Questo è sia il prodotto che la fonte del senso di solidarietà nazionale che è condivisa da tutte le unioni economiche e monetarie”. (2) L’impostazione di Delors riprendeva quella del rapporto MacDougall di dodici anni prima: “una politica fiscale comunitaria per la stabilizzazione è un elemento chiave in qualsiasi programma di integrazione monetaria europea”. (3)
Col Trattato di Maastricht si scelse invece la strada della disciplina fiscale stato per stato e dei tetti al deficit e al debito (i famosi rapporti del 3 per cento tra deficit e Pil e del 60 per cento tra debito e Pil[1]), senza dare più consistenza al bilancio federale. (4) È la strada che si è voluta ancora seguire con il Patto di stabilità e crescita del 1997 e poi col cosiddetto “Patto euro plus” dell’aprile 2011. In realtà, la disciplina fiscale ha finito per disciplinare davvero poco; in compenso la mancanza di un bilancio federale ha scatenato la crisi dei debiti sovrani dei paesi meno disciplinati e messo a rischio l’euro. Il “fiscal compact”, purtroppo, non sembra che una riedizione, più rigida ma non necessariamente più efficace, del vecchio approccio [vedi Manasse, “Ma la disciplina tedesca non è tutto“, del 13 dicembre].
Pochi sembrano voler riconoscere che l’esistenza e la consistenza di un bilancio federale sono condizioni necessarie per imporre una rigida disciplina fiscale ai singoli stati e che solo un forte potere federale, dotato di legittimità democratica, può imporre sanzioni severe agli stati indisciplinati. (5) Mentre la presenza di una politica monetaria unica, in assenza di un bilancio federale, richiede ampia libertà per le politiche fiscali anticicliche nazionali con potenziali rischi di “indisciplina”. Inoltre, se l’Europa avesse un congruo bilancio federale sarebbe anche più ovvio emettere Eurobond e non sarebbero più necessari complessi “fondi salva stati”. Gli uni e gli altri sono osteggiati o faticano a decollare per i conflitti distributivi tra stati (alcuni paesi devono fare da garanti per i debiti degli altri) e per il comprensibile timore che l’attivazione di meccanismi di salvataggio finisca per ridurre il rigore di bilancio promesso dagli stati finora più indisciplinati. Ma anche la Bce sarebbe aiutata da un bilancio federale e dai connessi Eurobond: non dovrebbe accettare titoli di 17 stati con i rating e le caratteristiche più disparate.
Il fatto che tutto questo appaia oggi al di là degli orizzonti politici dipende dalla scarsa caratura dei leader attuali e dalla loro incapacità di guardare più lontano e di convincere i loro stessi elettori che guardare lontano conviene a tutti, come avevano saputo fare i padri dell’Europa, Adenauer, Schumann, De Gasperi in un periodo storico in cui la diffidenza tra europei era almeno giustificata dalle ferite ancora aperte da due guerre devastanti. Questa miopia politica non servirà a calmare l’ira dei mercati. Almeno smettiamo di parlare di unione fiscale e prepariamoci a un’unione monetaria sempre più faticosa e a rischio di collasso.

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(1) Le pionieristiche analisi di Sala-i-Martin e Sachs (“Fiscal federalism and optimum currency areas: evidence from Europe from the United States”, in Canzoneri M., V. Grilli, P. Masson, eds. (1991), Establishing a Central Bank: Issues in Europe and Lessons from the US, Cambridge, Cambridge University Press) stimavano che il bilancio federale assorbisse fino al 35-40 per cento degli shock asimmetrici negativi. Successivamente queste stime sono state riviste al ribasso e oggi il consenso tra gli studiosi si orienta su una quota intorno al 15 per cento (Kletzer, K. e von Hagen J. (2001) “Monetary Union and Fiscal Federalism”, in: C. Wyplosz, ed., The Impact of EMU on Europe and the Developing Countries, Oxford: Oxford University Press).
(2) Delors J. (1989), “Regional implications of economic and monetary integration”, in Committee for the Study of Economic and Monetary Union, Report on Economic and Monetary Union in the European Community, Luxembourg, Office for Official Publications of the EC, p. 89.
(3) MacDougall (1977), Report of the Study Group on the Role of Public Finance in European Integration, vol. 1: General Report, Brussels, April 1977, p. 57.
(4) Si noti che un deficit pari al 3 per cento del Pil consente di mantenere il rapporto tra debito Pil al 60 se il tasso di crescita del Pil reale fosse pari al 3 per cento e il tasso di inflazione pari al 2 per cento. Mentre il target di inflazione è stato quasi sempre raggiunto negli ultimi quindici anni, nessuno dei maggiori paesi dell’area euro ha mai neanche sfiorato il target di crescita reale.
(5) Fa eccezione Stefano Micossi, Repubblica – Affari e Finanza, 12 dicembre 2011. La necessità di istituzioni federali democratiche è stata sottolineata da Charles Goodhart e Dirk Schoemaker su voxEU del 14 dicembre 2011, “The political endgame for the euro crisis” e in Osservatorio Monetario, 3/2011, Associazione per lo sviluppo degli studi di banca e Borsa, Università Cattolica, Milano.

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

  1. Massimo GIANNINI

    La miopia politica odierna é esattamente inversa alla lungimiranza dei padri dell’Europa. Se si pensa solo che di Eurobond e bilancio federale ne aveva già parlato Delors nel 1993 e ancora siamo li’ a discuterne…Ma ad esempio qualcuno potrà spiegare semplicemente ai politici che gli Eurobond rendono la vita e i calcoli più facili alla BCE e che quando si é lanciato l’Euro semplicemente se ne son dimenticati…si potevano fare subito (almeno con il bilancio UE).

  2. DiSc

    Se la follia è continuare a ripetere la stessa azione aspettando un risultato diverso, questo accordo su cui nessuno concorda ne è un esempio. Falliti gli accordi di Maastricht, spesso anche per i disavanzi tedeschi e francesi, ne stiamo introducendo a forza di ancora più stringenti, ma stavolta abbiamo esaurito tutti gli strumenti monetari e fiscali e tutto il capitale politico per sperare che vengano rispettati. Se l’euro deve continuare a esistere, le istituzioni europee vanno riformate alla radice. Una riedizione sadista dei fallimenti del passato non ha nessun senso.

  3. marco

    Concordo pienamente con l’articolo; bisogna capire a mio giudizio una cosa molto semplice-la Germania è il paese più ricco e potente dell’Unione, ma è sempre uno; gli altri sono tanti….Sarkozi e compagni dovrebbero unirsi e far capire alla Germinia in modo molto chiaro che qualora si continuasse così loro uscirebbero dall’euro, non assecondarla…..I tedeschi con l’euro ci hanno guadagnato non penso ne uscirebbero tanto gioiosamente…..Ci vuole più coraggio..In passato la Germania ha fatto sbagli enormi che ci hanno portato alle due guerre mondiali; non dimentichiamolo! O si è solidali o è emglio smetterla con le ipocrisie e le finte amicizie!

  4. bellavita

    Bella cosa una unione fiscale , forse indispensabile nella zona euro. Ma tra le mansioni esecutive trasferite alle regioni e i momenti decisionali assunti dalla UE, non sarebbe il caso di fare i conti con i costi della gigantesca struttura degli stati nazionali, dove si annidano sprechi organizzativi ben maggiori di quelli delle province, e sprechi economici molto superiori ai costi della politica ?

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