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IL FORZIERE DEGLI ORDINI

Quello degli ordini professionali è un mondo chiuso, con enti previdenziali propri e un patrimonio di circa 50 miliardi di euro investiti in beni immobili e titoli finanziari. Una macchina del privilegio, che dovrebbe difendere il cittadino-consumatore e invece protegge solo se stessa, tramandandosi il potere in maniera quasi ereditaria. Insomma, “I veri intoccabili” sono loro, sostiene Franco Stefanoni nel suo ultimo libro, edito da Chiarelettere. Ne proponiamo qui un estratto del capitolo che racconta come vengono decise e spese le quote annue versate dagli iscritti.

In che modo gli ordini professionali si procacciano i quattrini? Funziona così: ciascun consiglio locale decide la quota annua che ogni proprio iscritto deve pagare per sostenere l’attività ordinistica sul territorio.

QUOTE: UN BOTTINO RICCO

Per esempio: nel 2009 il consiglio dell’ordine degli architetti di Roma chiede ai propri iscritti 205 euro, quello dei commercialisti di Bologna 550, gli psicologi dell’Emilia Romagna ne devono versare 165, gli ingegneri di Palermo 100. Ognuno fa per sé in base al numero di appartenenti all’albo e ai servizi offerti, talvolta proponendo sconti ai colleghi con pochi anni di iscrizione o con scarso reddito. In linea di massima, gli ordini più piccoli chiedono quote più onerose rispetto ai grandi, per il fatto che alcuni costi fissi si spalmano su meno immatricolati.
In totale, grazie alle quote pagate da due milioni di iscritti agli albi, si può stimare un volume annuo di entrate complessive non inferiore ai 500-600 milioni. Oltre che con le quote annuali, a livello locale le finanze sono rimpinguate da altre voci. La normativa generale prevede che il consiglio possa stabilire anche altre tasse e contributi, entro i limiti strettamente necessari a coprire le spese dell’ordine. Ogni sede, per esempio, può fissare i prezzi per rilasciare pareri riguardo la liquidazione degli onorari, nei casi in cui le parcelle siano oggetto di discordia e contestazione tra un professionista iscritto all’albo e il suo cliente. Il caso classico è l’onorario ritenuto troppo alto: il cliente non intende pagare. A richiesta, l’ordine interviene come arbitro e riformula o conferma il valore della prestazione, che va poi liquidato. Per alcune categorie, come architetti e ingegneri, l’eliminazione delle tariffe minime introdotta nel 2006 dal decreto Bersani ha reso inutile il ricorso ai pareri sulla liquidazione delle parcelle, con conseguenze drastiche per le finanze degli ordini: i minori introiti hanno superato il 50 per cento delle entrate complessive.
I contributi raccolti con le quote annuali restano la maggiore fonte di entrata degli ordini locali: nel 2009 sono 3,2 milioni per gli architetti di Roma, 2,3 milioni per i medici di Milano, 1,3 milioni per i commercialisti di Bologna. Una parte viene stornata al proprio consiglio nazionale a supporto dell’azione politica e strategica di categoria. Le cifre sono variabili: da 25 euro per gli ingegneri a 52 per gli avvocati cassazionisti, fino a 180 per i commercialisti. Moltiplicando la singola quota per il numero complessivo di iscritti a un albo si ottiene la principale voce di entrata per i bilanci dei consigli nazionali. Non tutti pagano: ogni ordine locale registra una qualche morosità da parte di colleghi.

SPESE PAZZE AI VERTICI

Il flusso di denaro che dagli iscritti si riversa nelle casse degli ordini nazionali alimenta una giungla di piccole e grandi spese, di contributi e finanziamenti, celata dentro bilanci non sempre trasparenti, talvolta addirittura incomprensibili, raramente pubblicati sui siti internet ufficiali, sottoposti a scarsi controlli indipendenti e ad approvazioni solo formali. Spulciando tra le risorse su cui si basa l’intera struttura ordinistica saltano fuori costi dai curiosi connotati e qualche volta fuori misura: auto blu e compensi per presidenti e consiglieri, in certi casi non irrilevanti; sedi di prestigio e dispendiosi congressi nazionali.
Figurano inoltre i costi per la formazione, che può essere affidata a fondazioni con vita autonoma e dunque fuori bilancio.
Nel 2009 il consiglio nazionale del notariato ha speso 13 milioni in costi generali, di cui poco meno di un sesto destinato a retribuire i 37 dipendenti distribuiti su 2450 metri quadrati della sede romana di via Flaminia, zona villa Borghese, di proprietà della cassa previdenziale di categoria, il cui affitto è di 28mila euro mensili. Il presidente può raggiungerla con l’auto blu, noleggiata di volta in volta. Tra le altre voci di spesa figurano l’ufficio studi, le commissioni di lavoro, le consulenze e le scuole di notariato.
A non molta distanza, in via del Governo vecchio, dalle parti di piazza Navona, nella sala personale adornata di mosaici, marmi, delicato parquet e un’antica cripta con dipinto interno, il presidente del consiglio nazionale forense sa invece che può contare su due berline d’ordinanza con autista. Ma questo costo, come una parte di quello per il personale, è a carico del ministero della Giustizia e non grava sul bilancio. Le spese correnti del vertice degli avvocati ammontano a 5,3 milioni. I cinque dipendenti diretti del consiglio costano in tutto 420mila euro, e 500mila i collaboratori, mentre ammontano a 750mila euro le spese di funzionamento degli uffici, 450mila servono invece a finanziare manifestazioni ufficiali, 300mila a organizzare convegni, altri 900mila a far funzionare tre fondazioni (scuola dell’avvocatura, promozione immagine e attività informatica). Il consiglio nazionale degli ingegneri, invece, ha una sede di 800 metri quadrati in via IV Novembre, vicino a piazza Venezia a Roma, che costa 490mila euro all’anno solo di affitto. Tra gestione degli uffici, finanziamento del centro studi, pubblicazioni di riviste, promozione e immagine, il totale delle spese correnti del gotha di categoria ammonta a 5,5 milioni di euro.
Anche gli ordini locali non sono da meno. Quello degli architetti di Roma, la cui sede (affittata al prezzo politico di 2.300 euro mensili) è situata in un edificio monumentale di 2.500 metri quadrati all’interno del giardino che ospita l’ex Acquario romano, spende ogni anno 3,5 milioni, che se ne vanno in gran parte per far funzionare gli uffici, provvedere ai servizi informativi e alle spese di tutela professionale: 700mila euro spalmati su consulenze, tirocini, formazione e promozione. E poi ci sono i compensi ai consiglieri, che rappresentano una voce a parte.

SENZA CONTROLLO

Il controllo dei bilanci è un affare che gli ordini gestiscono in proprio, sia a livello locale sia a livello nazionale. Il compito è affidato ai revisori interni, che possono controfirmarli o contestarli con apposite relazioni. Ma i pareri negativi sono rari. D’altra parte i revisori sono eletti dagli iscritti. Gli stati patrimoniali (debiti e crediti) e i conti economici (costi e ricavi) dei consigli territoriali non vengono in genere consegnati ai vertici nazionali, i quali, a loro volta, non sono obbligati a comunicare i loro dati agli ordini locali, né ai ministeri competenti. La Corte dei conti può sottoporre a verifica i bilanci degli ordini nazionali, mentre quelli territoriali non dovrebbero esserne toccati, anche se la materia è discussa.
I bilanci locali devono essere presentati all’assemblea degli iscritti per l’approvazione, ma è infrequente che il voto si traduca in una bocciatura, anche perché gli iscritti in genere disertano l’appuntamento. In seconda convocazione non è previsto un quorum e molto spesso l’assemblea approva con un numero irrisorio di alzate di mano, e i pochi presenti non di rado sono gli stessi membri del consiglio. Ancora meno vincoli sono previsti a livello nazionale: i bilanci sono approvati senza passare dal voto degli iscritti agli albi, anche se in certi casi i conti vengono comunicati per conoscenza alle assemblee dei presidenti degli ordini locali. A cose fatte viene formulata una comunicazione ufficiale che pochi iscritti si prendono la briga di analizzare.
Nonostante siano atti pubblici, non tutti i bilanci vengono resi noti. Nel 2007 Antonio Cimmino, ex presidente del collegio dei periti agrari di Napoli, dopo aver chiesto senza fortuna al proprio consiglio nazionale i conti relativi agli anni 2002, 2004 e 2005, deve ricorrere al Tar del Lazio. Che gli dà ragione, condannando il vertice di categoria a esibire stato patrimoniale e conto economico, oltre che a pagare 1250 euro di spese.
In altri casi emergono contestazioni sulle modalità di voto, che talvolta viene ripetuto a distanza di tempo per lo stesso bilancio, al fine di rimediare a una precedente bocciatura. Nella primavera 2011 accade per esempio all’ordine degli architetti di Milano, e il fatto viene denunciato alla Corte dei conti.
Nella distrazione generale sono i presidenti e i consiglieri a decidere quanto raccogliere e come spendere e investire i quattrini a disposizione della categoria. Ogni vertice locale e nazionale indirizza il denaro incassato come meglio crede: formazione, comunicazione e immagine, organizzazione di convegni, congressi, centri studi e ricerche, pubblicazione di riviste, siti internet, missioni all’estero, convenzioni con società di servizi finanziari o turistici (sconti su alberghi o su voli aerei), gestione e assunzione di personale (con bandi pubblici), polizze assicurative, commemorazioni, consulenze tecniche e assistenza fiscale, sportelli per praticanti. Tutto ciò sulla scorta di quanto si riesce a incassare con le quote degli iscritti. Alla fine dalla somma algebrica di entrate e uscite deriva un avanzo o disavanzo di esercizio, portato in eredità all’anno successivo.
Il diverso utilizzo dei quattrini contribuisce a creare consenso elettorale.

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RENDIMENTI A CONFRONTO

11 commenti

  1. Davide

    Sicuramente un problema il fatto che gli ordini abbiano spese fuori controllo. Ma è un problema dei professionisti iscritti, che possono democraticamente votare i propri rappresentanti in consiglio. Anche a Bologna nell’ordine dei commercialisti si lotta per questo. Ma è un problema che ha ricadute solo sulle tasche dei propri iscritti e quindi sta a loro decidere!

  2. avv. Maurizio Perelli

    La Cassazione, sez. I Civile, con sentenza 20 giugno–14 ottobre 2011, n. 21226, ha confermato che la Corte dei Conti, a causa della mancanza di contribuzione da parte dello Stato a beneficio degli Ordini professionali (pur confermati enti pubblici) non ha attribuzione di controllo nei confronti dei medesimi. Stauisce, in particolare, la Cassazione che “la qualifica di Ente pubblico non economico, tipica degli Ordini professionali, ai sensi dell’art. del D.Lgs. 165/2001, non assume rilievo ai fini dell’insorgenza della soggezione al controllo della Corte dei conti, perché il potere in parola è regolato dalla L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 3, comma 4, e le due norme non sono sovrapponibili”.

  3. sara 78

    Perfettamente d’accordo con il commento di Davide! non capisco il tono allarmato e scandalistico sulla questione, mi pare che sulle funzioni degli ordini professionali si stia trascendendo nel “qualunquismo”, anche su questo sito. Qual è il problema? Se non interessa agli iscritti, che pagano le quote, come vengono amministrati i propri soldi perchè dovrebbe interessare addirittura alla Corte dei Conti? Non stiamo mica parlando di tasse. Poi dalla ricognizione delle spese, non mi sembra che ci si possa lamentare delle materie finanziate: in cos’altro dovrebbe spendere un ordine professionale se non in formazione, organizzazione di eventi, polizze assicurative, e quant’altro? Non capisco.

  4. G.D.

    Lo Stato italiano potrebbe abolire gli ordini e assorbirne i 50 miliardi di euro di patrimonio. In cambio, avendo abolito gli ordini, tutti i professionisti non sarebbero mai più tenuti a pagarne la quota d’associazione. Con la liquidità reperita, invece che pagare (pochi) debiti dovrebbe creare un proprio “Fondo Salva Stato” da cui prelevare liquidità in occasione delle aste dei BTP in modo da forzarne giù il tasso di interesse. Certo il gioco non durerebbe a lungo, ma potrebbe darci un po’ di respiro.

  5. Rsario Cucinotta

    L’astio contro le libere professioni porta a scrivere fatti assolutamente non rispondenti al vero: a) non sono gli Ordini, ma, semmai, le Casse previdenziali ad avere cospicui patrimoni; b) sono Avvocato, il mio sistema previdenziale é strettamente contributivo, potrò avere la piena pensione solo a settantanni, non godo di alcun ammortizzatore sociale e, a differenza di tutti gli altri cittadini italiani, non ho il riconoscimento previdenziale del servizio militare prestato. Leggendo certi articoli ho la sensazione che qualcuno voglia mettere le mani sul “forziere” della mia Cassa di previdenza (che ho costituito con i miei soldi): quelli che, non avendo versato sufficienti contributi di tasca propria, la pensione se la fanno già  o se la faranno) pagare in buona parte dalla fiscalità generale ed ora vogliono appropriarsi pure del mio risparmio previdenziale.

  6. Andrea Colletti

    A me risulta che il sistema previdenziale degli avvocati sia di tipo retributivo.

  7. Luca Palatucci

    L’articolo non fornisce informazioni corrette. Il patrimonio previdenziale è di proprietà delle singole casse, non degli ordini professionali. Quel patrimonio, a sua volta, è costituito dai contributi degli iscritti. I contributi sono, da parte loro, parametrati al reddito professionale e vincolati alle prestazioni pensionistiche degli iscritti. Il legislatore statale non può disporre di questo patrimonio, né trasferirlo ad altre categorie professionali o all’Inps.

  8. carmelo lo piccolo

    Intanto una notazione: come mai nel sottotitolo del libro di Stefanoni non si ricomprendono tra i “privilegiati” anche ingegneri, architetti e geometri? Sul merito del problema: il vero “peccato originale” degli ordini professionali non è la loro esistenza, ma il loro funzionamento. Si tratta di enti pubblici che dovrebbero garantire una reale professionalità e competenza tecnico – specialistica dei propri iscritti, invece sono solo associazioni corporative organizzate come “barriere all’ingresso” nel mercato del lavoro, che costringono i giovani laureati a tirocini defatiganti e umilianti prima di potere sostenere l’esame di Stato per l’abilitazione professionale e che impediscono di fatto a chi non ha la fortuna di avere “cognomi importanti” di potere svolgere una libera professione, se non con il rischio di una denuncia penale per esercizio abusivo. Mi sarei aspettato dal Prof.Monti, così chiaro nel denunciare privilegi e incrostazioni corporative come i veri mali che affliggono il Paese, una maggiore coerenza tra le enunciazioni di principio e i provvedimenti pratici…

  9. rosario nicoletti

    L’articolo è ineccepibile nel contenuto anche se in chiave di denunzia sulle storture del sistema. Dagli interventi si capisce che non tutti riconoscono – non so se in buona fede – la sottile prevaricazione che l’ordine professionale, inteso come istituzione della quale si impadronisce una reale o virtuale maggioranza degli iscritti, esercita sul singolo. L’ordine non è infatti una libera associazione, ma ha la capacità (giuridica) di abilitare od inibire l’esercizio della professione. Ergo, un professionista può essere del tutto idoneo a svolgere la professione, ma deve sottostare al balzello che viene imposto. Da qui nascono le storture alle quali assistiamo.

  10. Emanuele Montresor

    Noto con dispiacere che è stato dato alle stampe l’ennesimo libro scritto per cercare di colpire non meglio precisate e potenti lobby o caste. Trovo sbagliato creare confusione tra Ordini professionali e Casse previdenziali e dare l’illusione (nel solito gioco di lasciare il certo per l’incerto) che quei soldi possano essere utili allo Stato o ad altri citttadini. I soldi sono solo delle Casse e versati dagli iscritti. Lo Stato non mette una lira e non può toccarli. Gli iscritti eleggono i loro rappresentanti e si autogestiscono. Perchè scatenare tutta sta confusione? Quali interessi ci sono dietro alle pressanti richieste di eliminazione di albi e ordini? Non è forse vero che banche e confindustria (soliti potentati) ne chiedono da tempo l’eliminazione?

  11. Antimo Parisi

    che fine ha fatto la Direttiva UE 47/2018: chiudere gli Ordini Professionali entro il 2020?

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