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MILANO: SE IL COMUNE VENDE PARTECIPAZIONI

La vendita delle quote di Sea o dell’autostrada Milano Serravalle da parte del comune di Milano riapre la questione del rapporto pubblico privato a livello locale e nazionale. Forse alcune procedure sono migliorabili, ma è un bene che qualcuno prenda i vincoli di bilancio sul serio. Altri comuni e Regioni dovrebbero seguire questo esempio e non limitarsi a lamentarsi per il taglio dei trasferimenti. Ma forse le regole della finanza locale sono troppo rigide: essere costretti a vendere non aiuta a vendere bene.

La cosiddetta privatizzazione di Sea (aeroporti di Milano) o dell’autostrada Milano Serravalle da parte del comune di Milano apre un dibattito interessante sul rapporto pubblico-privato nel pieno di questa fase della crisi economico-finanziaria, nella quale il vincolo di bilancio statale diventa del tutto imperativo e quelli degli enti locali stanno diventando sempre meno eludibili.
A livello nazionale si parla di vendere asset pubblici, ma in realtà si fa molto poco. Ci sarebbe qualcosa di vendibile, forse, e senza alcun indebolimento dell’intervento pubblico (quello che “serve” davvero), ma nessuno finora sembrava volerlo fare veramente. Speriamo nel nuovo governo, ma è presto per parlarne. A livello locale, finalmente qualcosa si muove. E – a prescindere dalle procedure, forse migliorabili – va bene così.
Intanto, queste vendite servono a dire che qualcuno prende i vincoli di bilancio sul serio, il che è in sé confortante. Altrove, in altre città o a livello regionale, ci si lamenta del taglio dei trasferimenti dal governo, ma non ci si attiva per compensarli. Si dice che non si vuole rinunciare all’intervento pubblico diretto per meglio servire i cittadini; in realtà, soprattutto non si vuole rinunciare al potere spicciolo legato alle partecipazioni pubbliche locali.
Infatti, le privatizzazioni non hanno solo il senso di cedere la gestione di un asset a chi (probabilmente, ma solo probabilmente) lo sa fare un po’ meglio. Servono anche a ridurre le posizioni di rendita che la nostra classe politica normalmente gestisce come sappiamo. Non è facile vedere qualcuno che rinuncia a questo suo potere, o quanto meno accetta di limitarlo. Quindi, ben vengano le decisioni milanesi.

È SOLO FINANZA, MA NON È CATTIVA…

Anche se, bisogna dirlo, non si può veramente parlare di privatizzazioni. Sea (aeroporti) è oggi pubblica per oltre il 99 per cento e il comune manterrà comunque oltre il 50 per cento delle azioni. La Milano-Serravalle resterà comunque controllata dalla provincia di Milano (anche qui, oltre il 50 per cento). Si tratta quindi solo di operazioni di carattere finanziario, rispetto alle quali la scelta è, come sempre in casi del genere, tra tenere un asset garantendosi i dividendi futuri e “monetizzare” il valore attuale per abbattere i debiti. Per altro, giova ricordare che l’ingresso di investitori privati in imprese a maggioranza pubblica ha comunque un effetto di limitazione dei margini di discrezionalità della politica, che sarà costretta a una disciplina finanziaria (e, probabilmente, a una efficienza nella gestione) comunque superiori.
Data l’attuale situazione di bilancio del comune di Milano la vendita di questi asset rappresenta un atto di sostanziale responsabilità. Piacerebbe vedere altri enti pubblici seguire questa strada. Penso ad esempio al comune di Roma e a quello di Torino, con bilanci pesantissimi e tante aziende che potrebbero tranquillamente essere cedute. Analogamente, introdurre un po’ di concorrenza farebbe bene alle casse pubbliche. E penso alla Regione Lombardia, che lamenta i tagli dei trasferimenti pubblici ma rifiuta di effettuare le gare nel trasporto ferroviario, che le farebbero risparmiare milioni. E gli esempi potrebbero essere tanti.
Ma anche sull’operazione di Milano pesano almeno due considerazioni.
La prima è che non è per nulla scontato che il tentativo di vendita sia coronato da successo. La vendita deve concludersi entro il 31 dicembre per non avere problemi con le regole rigide del patto di stabilità. Ma dovere vendere con l’acqua alla gola è una cosa pessima, perché chi compra sa di poter fare un vero affare: basta aspettare. Speriamo ci siano tanti soggetti interessati, perché in caso contrario il futuro di questo tentativo sarà fosco. Non è colpa del comune, almeno non di questa amministrazione. È colpa di regole della finanza locale forse troppo rigide, per rimediare alle quali potrebbe essere utile pensare a consentire una eccezione al patto di stabilità in presenza di procedure di cessione di asset in fase avanzata.
La seconda è che si deve sperare che questo tentativo di vendita sia solo l’inizio. La situazione debitoria di Milano resta comunque pesante; questa vendita serve a tappare una falla (un debito troppo elevato da ridurre entro fine anno), ma l’anno prossimo i problemi si riproporranno. E il comune dovrà comunque far pulizia nelle proprie partecipazioni. E dovrà decidere, ad esempio, se mantenere in piedi una impresa pesantemente indebitata e in deficit strutturale come la Sogemi (gestione del mercato annonario, con ripetute perdite di bilancio milionarie) della quale il Pd quando era all’opposizione reclamava la vendita.

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MA RESTA UN PESSIMO TEATRINO

Il tutto resta comunque avvolto da un’aura di paradosso. Usciamo da una campagna referendaria, nella quale soprattutto i sostenitori dell’attuale giunta Pisapia hanno sparato ad alzo zero contro il capitale privato (nell’acqua, ma non solo) e oggi si trovano a fare i conti con la realtà; e scoprono che il settore pubblico non ha il denaro per fare neppure quello che “dovrebbe”, figuriamoci se lo ha per tenere in piedi imprese non “fisiologicamente” pubbliche. D’altronde, su un piano diverso ma simile, anche Nichi Vendola ha confermato (in barba al risultato referendario) che le tariffe idriche pugliesi continueranno a remunerare il capitale, eccome.
D’altra parte, un pezzo della manovra di agosto del governo Berlusconi, l’articolo 5, in particolare, era centrato attorno al tentativo di spingere gli enti locali a vendere quote delle loro imprese. E, quando un comune fa esattamente quanto quel governo voleva, quelli che a Roma erano i sostenitori di quel governo oggi a Milano si scagliano contro la giunta. Non è nulla di nuovo (era già successo, a parti invertite, nel 2004), ma è frustrante vedere che la nostra classe politica fatica tanto a imparare dai propri errori.

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  1. Carlo Rodini

    Condivido le osservazioni ed aggiungo che quando si parla di politica bisognerebbe sempre distinguere tra quella che cura l’interesse di tutti ed è capace di farlo, dall’altra politica che parla per mascherare.

  2. marco ponti

    Caro Carlo, molto d’accordo, salvo su un punto non secondario. In caso di monopoli naturali mal regolati (di fatto non regolati: fanno profitti imbarazzanti anche in anni di crisi…), i compratori non comprano mica la concessione, comprano la garanzia sulle rendite future, cioè sui soldi indebitamnete sottratti agli utenti (cfr. la forcella di valutazione di KPMG su SEA in funzione delle tariffe…). Non tocca alle amministrazioni modificare la regolazione inesistente, salvo vocazione alla santità, ma certo toccherebbe la massima trasparenza nei confronti dei cittadini “derubati”, cioè una dichiarazione “pro bono veritatis” che si è in emergenza, e che i soldi sottratti ammontano a tot.,ecc. Certo mi faccio illusioni…. Best Marco Ponti

  3. Renato Ferrantini

    Per la questione Acqua pubblica_Vendola, riporto nuovamente la vostra precisazione che quanto meno sottrae alla giunta la decisione sulla sua applicazine “Si tratta, per la cronaca, del bond da 250 milioni di euro, tasso 6,9 per cento, con scadenza al 2018, emesso da Aqp nel 2004 e gestito attraverso l’accantonamento su un fondo di bilancio speciale alimentato da una quota della tariffa. Il bond, amministrato da Merrill Lynch, fece discutere per le condizioni molto onerose e la squilibrata ripartizione dei rischi; è stato peraltro rinegoziato nel 2009 a condizioni più eque”

  4. Alberto Clò

    Se fino ad ora i gradi di libertà degli enti locali erano ampi nel decidere se e quanto vendere delle loro azioni, sono le dinamiche di mercato a restringerli paurosamente. La stagnazione della domanda, l’eccesso di capacità produttiva, costi in crescita, va infatti riducendo nei comparti energetici (quelli nettamente prevalenti) i margini delle utilites locali e rendendo il servizio del debito sempre più oneroso e insopportabile. Per cui delle quattro l’una: o si riducono i dividendi – su cui i comuni facevano buona parte dei loro bilanci – o si tagliano drasticamente gli investimenti (peggiorando il futuro), o si vendono pezzi d’azienda (oggi, per altro, difficilmente malamente) o si cedono parte delle azioni. I tempi grassi della botte piena e della moglie ubriaca sono passati e sarà bene che i comuni ne prendano realisticamente atto e decidano presto e per il meglio. Privatizzare non è più una possibile opzione. E’ una via obbligata.

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