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LE IMPRESE ITALIANE DOPO LA RECESSIONE

Produzione e fatturato tornano a dare messaggi contrastanti sul ciclo industriale italiano. La congiuntura appare lenta e quasi ferma per il primo indicatore; più robusta e non così distante dall’Europa per il secondo. La riapertura di un divario tra le due statistiche riflette probabilmente i mutamenti di composizione nell’output industriale indotti dai processi selettivi della grave recessione.

Gli indicatori del ciclo manifatturiero italiano, produzione e fatturato, sono tornati a divergere in misura significativa nell’ultimo periodo. La ripresa dell’industria italiana, secondo l’indice di produzione industriale, è debole, quasi al limite dell’impalpabile negli ultimi otto mesi. Sulla base di questo indicatore, la nostra manifattura ha praticamente smesso di crescere dalla scorsa estate (ad aprile è sul livello dello scorso agosto), marcando una distanza dal resto dell’area euro che ha proseguito nel percorso di risalita, più o meno rapido a seconda dei paesi. In marcato contrasto è il segnale che emerge dal fatturato reale. Questo indicatore evidenzia una continuità di ripresa e risulta più in linea con le dinamiche europee (figura 2). Ad aprile, il fatturato reale si collocava quasi 9 punti sopra la produzione industriale. Rimaneva una distanza dai livelli medi pre-recessivi, ma era meno ampia che nei dati di produzione: -10 per cento circa per il fatturato reale contro -15,7 per cento per la produzione rispetto ai valori medi toccati dalle due statistiche nei primi quattro mesi del 2008, vale a dire un passo prima del precipizio (figura 3).

LE CAUSE DELLE DIVERGENZE

Perché un simile gap tra indicatori che dovrebbero pur avere una certa parentela? Ci sono naturalmente buoni motivi per attendersi delle divergenze. Fatturato e produzione scaturiscono da indagini differenti, miranti a quantificare fenomeni diversi: mentre la produzione industriale misura quantità fisiche di prodotti facendo riferimento alla loro composizione in un anno base, il fatturato rileva l’ammontare in valore (a prezzi correnti) delle vendite delle imprese industriali. Approssimazioni possono insorgere nella deflazione del fatturato con indici di prezzi alla produzione per stimare la dinamica in termini reali comparabile con la produzione, ma ciò non dovrebbe condurre a differenze sistematiche di tale ampiezza come quelle illustrate nella figura 3. Il ciclo delle scorte è un altro importante candidato a spiegare il divario tra i due indicatori: nei periodi di destoccaggio, come è stato il 2009, è giusto osservare un andamento della produzione peggiore del fatturato. Solo che dopo, quando si rimpolpano i magazzini, ci si dovrebbe aspettare un processo opposto. Cosa che non si è verificata nel 2010, quando il riaccumulo delle scorte (documentato dalle inchieste congiunturali) si è accompagnato a una divergenza sempre più ampia della produzione dal fatturato.     
È probabile, quindi, che i divari della recente fase sottendano modifiche più profonde intervenute nell’apparato produttivo. Cambiamenti di composizione che hanno comportato per l’indicatore di produzione industriale una precoce perdita di capacità rappresentativa dell’effettivo andamento dell’industria. È un fenomeno che, come segnalato dall’Istat, avviene con regolarità per tale indicatore. (1) Man mano che si allontana l’anno base e si invecchia la struttura di pesi/prodotti/imprese presa in considerazione per monitorare l’evoluzione congiunturale, l’indice della produzione industriale finisce col sovra-rappresentare ciò che in realtà si sta contraendo e sotto-rappresentare ciò che si sta espandendo. E poiché questi movimenti sono normalmente il frutto di processi di selezione tra operatori eterogenei, è fatale che un indice di attività a struttura fissa attribuisca, col passare del tempo, più peso alle unità peggiori rispetto alle migliori. Il problema affligge in misura minore l’indice di fatturato che, per la natura della rilevazione, riflette con più fedeltà il mutamento di composizione dei prodotti venduti. (2) Il bias di sottostima della produzione industriale è di regola corretto ogni volta che si ha il passaggio a una base più aggiornata: in occasione dell’ultimo cambio di base dal 2000 al 2005, operato a marzo 2009, la produzione industriale fu aggiustata al rialzo del 4,7 cento cumulativamente nell’arco di un triennio, venendo avvicinata all’andamento del fatturato reale da cui era andata in precedenza divergendo. A quell’epoca furono i cambiamenti di struttura indotti dagli shock competitivi dei primi anni Duemila a contribuire all’apertura del gap tra i due indicatori.       

RECESSIONI E RISTRUTTURAZIONI

La novità della recente fase congiunturale è piuttosto che il deterioramento della statistica della produzione industriale si sia manifestato dopo appena un anno dal cambio di base (le anomalie emergono nel 2010). Ma anche per questo non ci si dovrebbe meravigliare. Le recessioni, soprattutto quelle profonde, sono occasioni di mutamento della struttura produttiva. Nella grande depressione degli anni Trenta si realizzarono negli Stati Uniti fondamentali processi di ristrutturazione nell’industria dell’auto, con la chiusura di una miriade di piccoli stabilimenti meno produttivi e l’espansione delle tre imprese più grandi che avevano adottato per prime sistemi di produzione su larga scala e la cui quota di mercato balzò al 90 per cento nel giro di pochi anni. (3) Una misura della produzione basata su una struttura di pesi/prodotti/imprese riferita al periodo pre-depressione avrebbe dato, anche allora, un quadro fuorviante della realtà.Sommovimenti di analoga natura si sono verificati nel 2008-09. L’industria che emerge dalla più severa recessione del dopoguerra è diversa da quella che vi è entrata. Il recente Rapporto annuale dell’Istat offre evidenze di tali cambiamenti, soprattutto sul lato degli esportatori: il mix della popolazione di quest’ultimi tra prima e dopo la crisi è notevolmente diverso, con un aumento di peso di quelli di minore dimensione. Un’altra misura del rivoluzionamento nella composizione dell’industria la si può ricavare dal paniere dell’indice dei prezzi alla produzione, recentemente rielaborato dall’Istat con il passaggio da base fissa a base mobile: tra il 2005 e il 2010 il tasso lordo di turnover (ricambio tra entrate e uscite) è stato di circa il 40 per cento in termini di prodotti e del 60 per cento in termini di imprese, con fenomeni più accentuati per quanto riguarda il mercato di esportazione (tabella 1). Alla luce di tali rimescolamenti, non ci si dovrebbe meravigliare se la produzione industriale, a struttura 2005, fatica a tenere dietro alla dinamica dell’output.

Tabella 1 Flussi di entrata, di uscita e lordi di imprese e prodotti nel paniere dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali: 2005.2010 (quote %)
  Tasso di turnover lordo rispetto al 2005 Tasso di uscita rispetto al 2005 Tasso di entrata rispetto al 2005
Imprese

– di cui export

62,2

68,3

25,1

25,6

37,1

42,6

Prodotti

– di cui export

37,8

41,7

9,1

13,7

28,8

27,9

Fonte: elaborazioni su dati Istat

Resta da domandarsi perché divergenze di simile entità tra produzione e fatturato non si notino in altre economie. La recessione ha colpito tutti e ovunque ha messo in moto meccanismi di ricomposizione dell’output. Èpossibile che almeno parte della spiegazione vada ricercata nel modo assai diverso in cui gli indici di produzione industriale vengono costruiti nei vari paesi. In Germania, produzione e fatturato si muovono quasi all’unisono. Ciò probabilmente riflette il fatto che circa l’80 per cento del volume di produzione è misurato non sulla base di quantità fisiche, come nel caso italiano, ma deflazionando valori di produzione, con la conseguenza di assicurare una maggiore aderenza al mutare della composizione.
Infine, una notazione su lettura del ciclo e problemi strutturali. Riconoscere nella giusta dimensione le capacità di reazione delle imprese alle pressioni competitive e alle spinte selettive del ciclo è essenziale per l’impostazione delle politiche per la crescita. Da lì, da quei rimescolamenti di imprese e produzioni viene infatti il principale ingrediente dell’aumento della produttività aggregata; compito della politica è quello di rafforzare quei movimenti, rimuovere eventuali ostacoli (ad esempio, l’adattamento spontaneo non porta, nelle condizioni date, a crescita dimensionale) e, soprattutto, creare i presupposti affinché processi simili si realizzino nella restante parte dell’economia.      

(1) Istat, Il nuovo indice di produzione industriale, Nota informativa, 18 marzo 2009.
(2) Anche sul fatturato incide la composizione dell’anno base a cui si riferiscono struttura dei pesi di aggregazione e lista delle imprese considerate. Tuttavia, il fatto che l’unità elementare di rilevazione è l’impresa (e non i prodotti in essa realizzati) e che si preveda una procedura di allineamento periodico del campione delle imprese con le informazioni annuali dell’archivio Asia per tenere conto del fenomeni di natalità/mortalità attenua l’influenza del mutamento di composizione; sull’indicatore del fatturato, cfr. Istat, I nuovi indici del fatturato e degli ordinativi dell’industria in base 2005, 27 marzo 2009.
(3) Cfr. Bresnahan T. H., Raff D. M. G., “Intra-Industry Heterogeneity and the Great Depression: The American Motor Vehicles Industry, 1929-1935” Journal of Economic History 1991.

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  1. Mario Panziero

    E ben esposto, bravo Sergio.

  2. Magotti P.

    Potrebbe dimostrare che i grandi problemi dell’economia italiana, si concentrano sul settore dei servizi con la sua scarsa concorrenza ed efficienza. Ciò non toglie che anche il secondo settore ha molto da migliorare e razionalizzare.

  3. Jorge

    Il confronto tra gli andamenti di produzione e fatturato è interessante e indicativo. Il recente andamento della bilancia commerciale italiana, che vede una crescita delle importazioni ben superiore al pur significativo aumento delle esportazioni, mi induce ad una ipotesi alternativa per spiegare il fenomeno: che la produzione industriale italiana cresca meno del fatturato a causa del crescente ricorso, da parte delle nostre imprese, all’acquisto di beni intermedi (e forse di servizi) di provenienza estera. Personalmente conosco casi di aziende che fino a 2-3 anni fa realizzavano internamente ciò che vendevano mentre di recente si sono trasformate in aziande commerciali che si limitano ad acquistare, tipicamente all’estero, i prodotti che vendono. Decisioni del genere, se diffuse, portano proprio ad una tenuta del fatturato me non della produzione.

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