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CALMA PIATTA NELL’INDOTTO *

Molti ritengono che l’industrializzazione sia fondamentale per garantire lo sviluppo economico delle aree depresse. Tuttavia, uno studio recente dimostra che nel nostro paese l’effetto di indotto sull’economia locale dell’espansione del settore manifatturiero è nullo. Perché? Tre le possibili spiegazioni. Una vale per l’Italia intera, la seconda riguarda essenzialmente il Mezzogiorno. La terza offre una lettura per il Centro-Nord.

Come ci raccontano Paolo Rastelli, Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera del 28 novembre scorso, una mattina di venti anni fa il sindaco di Melfi ricevette una telefonata; all’altro capo del filo c’era Cesare Romiti, che gli anticipava l’arrivo nel piccolo comune della Basilicata di uno dei principali stabilimenti della Fiat. (1)Per il sindaco, e per molti dei suoi concittadini, quella telefonata preannunciava un’autentica manna dal cielo, che in pochi anni avrebbe rivoluzionato la cittadina. Non solo dando lavoro a migliaia di operai metalmeccanici, ma anche generando un importante indotto, ovvero altre possibilità di lavoro sia nel settore manifatturiero sia in quello dei servizi.

LE ASPETTATIVE

Avevano ragione i melfitani a essere tanto ottimisti? Hanno ragione coloro che dalla localizzazione di stabilimenti industriali nella propria area si attendono significativi effetti di promozione dell’occupazione locale? Hanno ragione i politici, che – anche nella speranza di innescare effetti di indotto – spendono denaro pubblico per favorire l’insediamento di stabilimenti industriali, oppure la crescita di quelli già esistenti?
Secondo la teoria economica, in parte sì. L’espansione del settore industriale dovrebbe avere un effetto positivo sull’occupazione nel terziario per via dell’aumento della domanda di beni e servizi prodotti localmente da parte delle stesse imprese dell’industria e dei nuovi (o più ricchi) lavoratori. L’effetto indotto sul settore manifatturiero è invece ambiguo: i beni intermedi richiesti dall’industria, ma anche quelli i finali industriali richiesti dai consumatori, infatti, non necessariamente vengono prodotti localmente. (2)

MISURA DELL’EFFETTO DI INDOTTO LOCALE

In uno studio recente abbiamo provato a misurare l’effetto di indotto per l’Italia.(3)Utilizzando i dati del censimento dell’Industria e dei servizi dell’Istat e le più recenti indagini Asia, abbiamo verificato se tra il 1991 e il 2007 un’espansione dell’occupazione industriale nei sistemi locali del lavoro (Sll) abbia generato un aumento dell’occupazione nel settore terziario e nella restante parte della manifattura.(4)
I nostri risultati documentano che l’espansione del settore industriale non ha generato alcun effetto positivo nel medio-lungo periodo sull’occupazione locale. Né quindi sul terziario (dove pure la teoria suggeriva conseguenze positive) né sulle altre branche del settore industriale locale. L’esito non cambia quando restringiamo l’analisi al Centro-Nord o al Sud, oppure quando la limitiamo alle sole aree distrettuali.(5)
Diversi studi recenti hanno dimostrato che l’impatto degli interventi di sostegno che mirano a promuovere l’industrializzazione è molto limitato se misurato sulla performance delle imprese che ricevono aiuti e contributi di varia natura. (6)Tuttavia, l’utilizzo di risorse pubbliche per gli interventi di sostegno potrebbe ancora essere giustificato alla luce degli eventuali effetti di indotto. Ad esempio, se un intervento di sostegno stimola l’attività economica delle imprese incentivate per un valore inferiore a quello dei sussidi erogati, l’analisi costi-benefici concluderebbe che non vi è convenienza economica. Nel caso di effetti di indotto positivi, tuttavia, questa conclusione potrebbe essere ribaltata per via dell’ulteriore stimolo che il (pur modesto) aumento dell’attività economica delle imprese incentivate produce sul resto del sistema locale. L’assenza di evidenza, allora, a favore di effetti di indotto locali suggerisce che l’impatto dell’intervento difficilmente potrà essere rivisto al rialzo.

PERCHÉ NON C’È EFFETTO SULL’INDOTTO?

Lo studio a cui ci siamo ispirati ha stimato che negli Stati Uniti un nuovo posto di lavoro nell’industria genera come indotto 1,6 posti di lavoro nei servizi locali. (7)
Perché in Italia questo non succede? Proviamo ad avanzare tre possibili spiegazioni (molte altre, chiaramente, ve ne potrebbero essere). La prima varrebbe per l’Italia intera: il settore dei servizi è scarsamente competitivo e sussistono delle barriere all’entrata nel mercato di nuovi attori. (8)Di conseguenza, un aumento della domanda non si traduce in maggiore occupazione, ma piuttosto in un aumento dei prezzi e in maggiori profitti per gli incumbents. La seconda spiegazione riguarderebbe principalmente il Mezzogiorno: il livello dei salari riflette in misura molto ridotta le condizioni del mercato del lavoro locale, in quanto la maggior parte delle contrattazioni sindacali avviene a livello nazionale. (9)Quindi, un aumento della domanda non si traduce in maggior occupazione, laddove i salari non riflettono la convenienza delle imprese ad assumere in loco. La terza varrebbe per il Centro-Nord: la mobilità dei lavoratori è molto più bassa rispetto ai paesi anglosassoni, Stati Uniti in primis.(10)Di conseguenza, un aumento della domanda deve essere soddisfatto principalmente con la manodopera locale, la quale può risultare insufficiente nelle aree a piena occupazione.

*Le idee e le opinioni espresse appartengono esclusivamente agli autori. Non sono quindi attribuibili all’Istituto di appartenenza.

(1)“Melfi, la regione spopolata e il sogno della fabbrica”, Corriere della Sera, 27 novembre 2010.

(2)Se l’aumento della domanda di lavoro implica un incremento dei salari locali (ad esempio, quando si ha bassa disoccupazione e poca mobilità territoriale), gli effetti indotti saranno più bassi.

(3)Guido de Blasio e Carlo Menon, 2010, “Local Effects of Manufacturing Employment Growth in Italy”, Banca d’Italia, mimeo.

(4)I sistemi locali del lavoro sono aggregazioni territoriali che comprendono, oltre ai centri urbani, anche le circostanti aree di pendolarismo che vi afferiscono. Per approfondimenti si veda Istat (2005), I sistemi locali del lavoro2001, Roma.Per correggere la distorsione dovuta all’endogeneità della crescita del settore manifatturiero, abbiamo costruito una variazione esogena dell’occupazione industriale basata sull’interazione della struttura industriale “storica” del Sll con la contemporanea crescita delle diverse branche manifatturiere al livello nazionale.Lo strumento è una media pesata della variazione occupazionale nazionale delle diverse branche della manifattura, dove i pesi sono la quota sull’occupazione locale dei singoli settori a inizio del periodo in esame.

(5)Nei distretti ci si potrebbe attendere un effetto maggiore nella misura in cui tali aree presentino legami di subfornitura tra le imprese più forti.

(6)Si veda Raffaello Bronzini e Guido de Blasio, 2006, “Evaluating the impact of investment incentives: The case of Italy’s Law 488/1992”, Journal of Urban Economics, 60:2, pp 327-349; Raffaello Bronzini, Guido de Blasio, Guido Pellegrini e Alessandro Scognamiglio, 2008, “La valutazione del credito d’imposta per gli investimenti”, Rivista di Politica Economica, 2008, 98:4, pp. 79-112; Luigi Cannari, Guido de Blasio, Leandro D’Aurizio, 2007, “The Effectiveness of Investment Subsidies: Evidence from Survey Data”, Rivista Italiana degli Economisti, 2007, vol. 12, issue 3, pp 3-19; Antonio Accetturo e Guido de Blasio, 2011, “Policies for Local Development: an Evaluation of Italy’s “Patti territoriali”, Banca d’Italia, TD n. 789; Guido de Blasio e Francesca Lotti, (eds) (2009), La valutazione degli aiuti alle imprese, Il Mulino, Bologna.

(7)Enrico Moretti (2010), “Local Multipliers”, American Economic Review: Papers and Proceedings, 100, pp. 1-7

(8)Si veda, ad esempio, Guglielmo Barone e Federico Cingano, forthcoming, “Service regulation and growth: evidence from Oecd countries”, The Economic Journal e Fabiano Schivardi e Eliana Viviano, forthcoming, “Entry Barriers in Retail Trade”, The Economic Journal.

(9)“La curva che non c’è” di Michele Pellizzari e Virginia Hernanz,lavoce.info, 14.11.2002

(10)Si veda Klaus F. Zimmermann, 2005, “European labour mobility: challenges and potentials”, De Economist, 127: 425–450; e Giovanni Peri, 2005, “Skills and Talent of Immigrants: A Comparison Between the European Union and the United States”, Berkeley mimeo: Institute of European Studies, U.C.

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

  1. bob

    A cappello della vostra analisi vorrei rispondervi ponendovi una domanda: perchè l’Italia, nonostante sia uno dei maggiori consumatori di telefoni cellulari in Europa, non ha mai iniziato a produrne?

  2. Marcello Battini

    L’articolo è molto stringato e non si presta molto a commenti diretti, ma le conclusioni tratte dagli autori mi colpiscono perchè convergono con i risultati delle analisi teoriche (ragionamento puro) che ho avuto occasione di trarre, nel corso di alcune mie ricerche. La speculazione fondiaria, la cattiva organizzazione dei trasporti, le corporazioni professionali, l’assenza di mercato, una concezione semi feudale delle problematiche economiche, incidono negativamente sul sisterma Paese. E’ bene parlarne, ma occorrerebbe fare.

  3. marco

    Perché l’Italia non produce cellulari? E perché la Finlandia non produce Moda? Mi pare logico che ogni paese abbia certe specializzazioni sia per casualità storica sia per caratteristiche specifiche. Su Melfi sono sorpreso dal testo perché ricordo che la Fiat convinse/obbligò molti subfornitori del nord ad aprire delle fabbriche a Melfi, alcune anche all’interno del comprensorio industriale Fiat. In quel caso perciò ci si sarebbe aspettato che l’indotto fosse ben reale. Che cosa non ha funzionato?

  4. Marco Spampinato

    Forse per l’estrema sintesi, o forse per altre ragioni, l’articolo non risulta chiaro. In primo luogo gli autori parlano di una variabile esplicativa data dall’occupazione industriale nei sistemi locali del lavoro, un aggregato che non è detto sia perfettamente correlata al sostegno pubblico all’industrializzazione, o che comunque confonde diversi interventi. In secondo luogo mi sembra non si faccia alcun riferimento ai settori di intervento (per quale ragione l’indotto dovrebbe essere in media equivalente tra diversi settori manifatturieri?). In terzo luogo, per come esposto, l’articolo compara gli Stati Uniti e l’Italia per un moltiplicatore medio dell’occupazione industriale. Forse c’è anche un problema di scala nel comparare un paese di 250 milioni di ab. con uno di 70 milioni, integrato in un’economia differente come quella Europea.

  5. Luciano Galbiati

    La difesa del (maturo) settore manifatturiero è inutile. La ricetta per crescere è la "magica" triade: deregolamentazione – finanziarizzazione – tutele sociali residuali. Il "miracolo" americano (così come quello irlandese, spagnolo, greco, islandese,ecc) è il modello da magnificare e prendere (ancora) ad esempio! Una considerazione. Per nostra fortuna non abbiamo abbracciato (almeno non completamente) il turbo-capitalismo anglosassone; evitando il folle disastro della bolla finanziaria e del credit-crunch conseguente. Molti "avvocati" del mercato sembrano prigionieri del passato,incapaci di staccarsi da vecchi schemi mentali e sofisticati (forse troppo) strumenti statistici. Strumenti che non si sono rivelati utili nel compito di prevedere la crisi. Superare la fascinazione intellettuale esercitata (per troppi anni) da iper-liberismo e consumerismo estremista credo sia già un bel risultato, per tutti.

  6. matteo meroni

    Vivo a Brescia dove l’11% del PIL gira intorno all’industria automotive. IVECO, prima OM ha trainato un enorme indotto che, con il tempo, si è specializzato ed ha acquisito strade anche diverse. Centinaia di imprese sono nate ed hanno dato lavoro a persone e a un altrettanto grande indotto di servizi e professioni.

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