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UNA RIFORMA STRABICA A FAVORE DELLE RENDITE

Il decreto milleproroghe contiene tra l’altro la revisione del regime di tassazione dei fondi comuni di investimento. Per rilanciare l’industria dei fondi italiani, rimettendo su un piano di parità la tassazione dei fondi interni con quella dei fondi comunitari armonizzati. Si tratta invece di una misura protezionistica a favore di un’industria debole. E il passaggio alla tassazione alla realizzazione per le sole gestioni collettive, senza intervenire sugli altri aspetti della tassazione del risparmio, rende il regime nel suo complesso ancora più sperequato.

Uno degli interventi di maggior rilievo del Milleproroghe riguarda la revisione del regime di tassazione dei fondi comuni di investimento.

LA DISPARITÀ DI TRATTAMENTO FRA FONDI ITALIANI E ESTERI

La stampa sembra essere abbastanza unanime nel ritenere l’intervento un atto dovuto per rilanciare l’industria dei fondi italiani, rimettendo su un piano di parità la tassazione dei fondi interni (e cioè quelli con sede in Italia e quelli con sede in Lussemburgo, già autorizzati al collocamento in Italia) con quella dei fondi comunitari armonizzati (con sede in un altro Stato membro dell’Unione Europea e conformi alle direttive comunitarie).
Il problema esiste, soprattutto in quanto i redditi dei fondi italiani sono tassati alla maturazione (e cioè anno per anno) in capo al fondo, mentre i redditi dei fondi comunitari armonizzati sono tassati alla realizzazione (e cioè solo al momento in cui i partecipanti li percepiscono, tramite il riscatto o il rimborso delle quote di partecipazione o le distribuzioni periodiche). (1) Poter rimandare nel tempo la tassazione (come un qualsiasi altro debito) abbassa il peso dell’imposta e costituisce quindi un vantaggio fiscale.
Quando si è venuta a creare questa disparità?
Nel regime di tassazione introdotto alla fine degli anni Novanta (cosiddetta riforma Visco), la discriminazione di cui sopra, ai danni dei fondi interni, non esisteva: i fondi comuni esteri erano sì tassati, come adesso, in capo ai partecipanti alla realizzazione, ma il calcolo dell’imposta avveniva attraverso una formula (cosiddetto equalizzatore) che aveva la funzione di equiparare il prelievo alla realizzazione a quello che si sarebbe avuto nel caso in cui la tassazione fosse stata effettuata anno per anno, alla maturazione (e cioè a quello riservato ai fondi interni).
equalizzatore è stato abolito da Giulio Tremonti nel 2001. Perché i fondi interni non sono insorti allora? Due le spiegazioni. In primo luogo, perché contestualmente veniva proposta e poi emanata una legge delega, poi non esercitata, che prometteva il passaggio a un regime di tassazione molto conveniente, alla realizzazione, del tutto analogo a quello che viene oggi accolto (con dieci anni di ritardo) con il maxiemendamento del governo al Milleproroghe. In secondo luogo, perché, nel frattempo, non tutti gli operatori italiani hanno sofferto di questa discriminazione fiscale: molte banche, ad esempio, hanno guadagnato offrendo ai propri clienti fondi esteri della propria filiera (vantandone il migliore trattamento fiscale) sui quali chiedevano però commissioni più alte, proprio in quanto si trattava di fondi esteri.

LA NORMA CONTENUTA NEL MILLEPROROGHE

La norma contenuta nel Milleproroghe supera le discriminazioni ricordate prevedendo che, in analogia con quanto già avviene per i fondi esteri, la tassazione sul risparmio gestito avvenga in capo al sottoscrittore, invece che al fondo, al momento della realizzazione.
Perché una riforma così semplice ha dovuto attendere tanti anni?
Per capirlo bisogna guardare al regime fiscale riservato alle “rendite finanziarie” nel nostro paese, nel loro complesso. La riforma infatti, equipara il trattamento in Italia di fondi esteri e interni, ma amplifica, anziché ridurre, le differenze di trattamento fra i diversi regimi fiscali di tassazione del risparmio che esistono nel nostro paese, favorendo significativamente i fondi rispetto a tutte le altre forme di impiego del risparmio.
In particolare, se è vero che a seguito dell’abolizione dei sistemi di equalizzazione previsti dalla riforma Visco, i fondi comuni (e le gestioni individuali) sono stati sfavoriti dal fatto di subire la tassazione alla maturazione invece che alla realizzazione, è anche vero che la riforma Visco ha riconosciuto a essi un vantaggio che le altre forme di risparmio non conoscono: solo le gestioni collettive (e individuali) possono infatti dedurre (compensare) eventuali minusvalenze non solo nei confronti delle plusvalenze, ma anche nei confronti di interessi e dividendi. Si tratta di un vantaggio enorme, perché interessi e dividendi non possono mai assumere valori negativi. Quando sono percepiti al di fuori delle gestioni, subiscono un prelievo alla fonte a titolo definitivo. Questo vantaggio non viene eliminato dalla “riforma” in corso di approvazione.

UNA RIFORMA STRABICA

Il passaggio alla tassazione alla realizzazione, per le sole gestioni collettive, senza intervenire sugli altri aspetti della tassazione del risparmio, lascia quindi un regime, nel complesso, ancora più sperequato:
– i proventi dei fondi, siano essi plusvalenze o redditi di capitale, non subiranno nessun prelievo fino a che il partecipante non deciderà di vendere la quota (o fino a che non saranno distribuiti); su tutte le altre forme di risparmio la tassazione su interessi e dividendi avviene invece, immediatamente, alla fonte;
– i fondi comuni continueranno a potere compensare le minusvalenze contro i redditi di capitale, cosa che non è ammessa, ad esempio, nel caso che interessa molti più contribuenti italiani, in cui i titoli siano tenuti presso una banca in custodia o amministrazione;
– l’aliquota a cui sono tassati i proventi dei fondi rimane del 12,5 per cento, ma diventa in realtà molto più bassa perché prelevata in anni successivi alla loro maturazione;
– ci sarà un forte incentivo a non abbandonare il fondo, per rimandare nel tempo la tassazione.

COSÌ FAN TUTTI?

Va sottolineato che un differimento di imposta così marcato come quello che sta per essere introdotto per i fondi italiani non è caratteristico delle legislazioni estere. Negli altri paesi europei esistono, a volte, ritenute alla fonte sui redditi di capitale e, generalmente, il differimento dell’imposta, anche sulle plusvalenze, è eliminato o limitato attraverso strumenti quali: l’imputazione al sottoscrittore dei redditi del fondo secondo un criterio "pro-rata" (cosiddetta trasparenza fiscale); l’assoggettamento a imposta in capo al fondo dei redditi non distribuiti (ad esempio con un prelievo di tipo patrimoniale); la previsione per il fondo dell’obbligo di distribuire periodicamente l’intero ammontare degli utili che riceve.
Non una riforma prevalentemente volta a incentivare la concorrenza, rimuovendo ostacoli di natura fiscale, quindi, quella introdotta con il maxiemendamento, ma una misura protezionistica a favore di un’industria debole (ma allora perché di questa industria e non di altre?).
Non una riforma che equipara i trattamenti fiscali, ma un intervento che introduce ulteriori discriminazioni. Una riforma che, ancora una volta, modifica i pesi relativi della tassazione, a favore dei percettori di alcune tipologie di “rendite” finanziarie.

(1) Inoltre, poiché la tassazione è in Italia, al momento, in capo ai fondi, questi espongono nei propri rendiconti i rendimenti al netto dell’imposta, laddove i loro concorrenti esteri, per i quali la tassazione è in capo al partecipante, espongono i rendimenti lordi, ed evidenziano quindi performance che sono apparentemente migliori anche a parità di risultati. Concorre a questo risultato l’iscrizione nell’attivo dei fondi italiani dell’importo del risparmio d’imposta ricollegabile ai risultati negativi di gestione, utilizzabili a compensazione dei risultati positivi maturati negli anni successivi dallo stesso o da altro fondo

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INCENTIVI ALLO STUDIO

  1. Luigi Spaventa

    Si confonde una questione di livello dell’aliquota – un 12,5% scandalosamente basso, ma un 27% sui depositi troppo alto – con una di modo di tassazione. La tassazione sul maturato in capo ai fondi era un’assoluta bizzarria: l’equalizzatore era una complicazione che non risolveva il problema. Negli anni ha creato un anomalo accumulo di crediti di imposta, inesigibili e a rendimento zero, che, iscritti nel patrimonio dei fondi, ne hanno ridotto il rendimento medio, con effetti di instabilità (riscatti) pericolosi, quando i crediti si avvicinavano, come a volte è avvenuto, alla metà del patrimonio: un problema, quello dei crediti accumulati, rimasto insoluto.

  2. Giuseppe Caffo

    Una delle virtù nazionali è la storica propensione al risparmio,peraltro tutelata e incentivata dall’articolo 47 della Costituzione. Nel panorama delle economie occidentali minacciate da pesanti debiti pubblici e privati,il ministro Tremonti non si stanca di ricordare negli incontri internazionali il risparmio degli Italiani come elemento di stabilità finanziaria a fronte di un elevato debito pubblico. Questo dato trova sempre più riconoscimenti. Va inoltre considerato che i fondi comuni sono prevalentemente orientati ad un mercato retail di piccoli risparmiatori,trovando i grandi patrimoni altre forme di allocazione più sofisticate e complesse. L’industria dei fondi italiani è stata negli anni penalizzata,e si è verificata una vera delocalizzazione in paesi con fiscalità più favorevole,con perdita di posti di lavoro e di risorse erariali.Ogni iniziativa volta a potenziare la crescita di tale industria, che porta vantaggi ai lavoratori delle SGR e ai risparmiatori va quindi vista con favore e incoraggiata.

  3. AM

    Il provvedimento sui fondi era atteso e necesssario. Quanto all’aliquota del 12,5% è in apparenza scandalosamente bassa, ma a causa di una serie di ostacoli e di divieti alle compensazioni, può diventare scandalosamente alta per i piccoli risparmiatori. I piccoli risparmiatori che hanno investito nei tango bond e perso oltre il 70% del loro capitale, o quelli che hanno acquistato BTP sopra la pari, non possono compensare le perdite di capitale con le cedole. Ne risulta un’aliquota effettiva sui redditi finanziari ben superiore al 12,5%. Portiamo tutto al 27%, ma consentiamo piene compensazioni (anche delle cedole) con le perdite ed allunghamo i tempi di compensazione sino a 10 anni.

  4. Marco studente

    Tremonti, per difendere la bassa tassazione delle rendite, si rifa’ al nostro debito pubblico sostenendo che si devono incoraggiare gli investitori ad acquistare buona parte del debito e sostenendo che il mercato delle rendite è un mercato competitivo e che un’aumento della tassazione provocherebbe la perdita di capitali a favore di altri paesi. Vorrei chiedere all’autore di questo articolo fino a che punto questa affermazione è veritiera.

  5. Jorge

    Non vedo come si possa sostenere che la parificazione fiscale tra fondi italiani ed esteri sia un provvedimento in generale "a favore delle rendite" (a proposito, e perchè non "a favore del risparmio"?). Semplicemente si cerca di evitare la attuale tendenza alla scomparsa totale di fondi italiani. E’ interessante la considerazione secondo cui ora, per tutti i fondi, operi la possibilità in capo al fondo di compensare minusvalenze anche con redditi di capitale quali interessi e dividendi, cosa che non è possibile nel caso di investimenti individuali, ma si omette di dire che il sottoscrittore che realizza una plusvalenza su un fondo ottiene un reddito di capitale, sempre soggetto a tassazione in quanto non compensabile con eventuali minusvalenze pregresse, mentre nel caso di investimenti individuali tali plusvalenze sono redditi diversi compensabili. E’ una forzatura dire che si stia realizzando una maggiore sperequazione tra le diverse forme di impiego del risparmio, con un "vantaggio enorme" per i fondi comuni. Inoltre il citato incentivo "a non abbandonare il fondo" può essere visto come una misura a favore di un approccio non speculativo all’investimento.

  6. Giovanni Agresti

    Nella foga di seguire la linea antigovernativa del sito, l’Autore si è forse dimenticato un "piccolo" dettaglio: l’incremento del valore della quota (ossia il deltaNAV) dei fondi è considerato dalla legge italiana un "reddito di capitale" e come tale non può in alcun caso essere compensato con minusvalenze pregresse. Al contrario, se l’investitore persona fisica acquistasse singoli titoli azionari (e obbligazionari, ma con qualche complicazione in più per via dell’eventuale disaggio d’emissione), l’eventuale incremento di prezzo di tali titoli (capital gain) verrebbe considerato un "reddito diverso" e come tale compensabile con perdite precedenti. Insomma, l’autore vede la "pagliuzza" del mancato pagamento immediato in capo al fondo delle imposte sui redditi di capitale derivanti da dividendi e cedole, ma si dimentica la "trave" della definizione tout court di "reddito di capitale" (e quindi non compensabile!) di tutto l’eventuale guadagno sul NAV del fondo in capo al sottoscrittore… In generale, ritengo che, prima di proporre di aumentare le imposte sulle rendite, non sarebbe male, magari, eliminare l’assurda distinzione tra i due diversi tipi di redditi che esse generano.

  7. Luca trader

    Riforma strabica che favorisce le rendite ? Quindi si legge tra le righe: sarebbe meglio continuare a incentivare la migrazione all’estero delle società di gestione e mantenere la tassazione differita solo per i prodotti di oltreconfine in attesa della riforma generale della tassazione delle rendite finanziarie… che naturalmente dovrebbe essere scritta dagli stessi soggetti che hanno scritto quel capolavoro oggi in vigore. Non dimentichiamolo: aliquota al 12.50% e meccanismi astrusi di imposizione su una rendita maturata (ossia virtuale) sono state introdotte dal governo Prodi del 1996. E all’epoca la professoressa cosa pensava della tassazione al 12.50% delle rendite?…Chi l’ha fatto il regalo ai rentier d’Italia?

  8. Henrico

    Articolo e commenti pertinenti: il diffetto della riforma è quello solito del metodo dei piccoli ritocchi; servirebbe un ripensamento più ampio; facile trovare consenso (accademico, non politico) su uguale trattamento dei vari tipi di guadagno finanziario, su un’aliquota uniforme su tutti gli strumenti, forse più difficile su un’aliquota magari più alta, ma senza esagerare, perché si tratta di risorse che facilmente prendono strade diverse, con destinazioni internazionali e uno Stato con quasi 120% di debito/PIL non se lo può permettere; non si tratta di punire i rentieri o la finanza o la speculazione (come purtroppo va di moda), ma di rendere la fiscalità marginalmente più giusta senza creare danni per il sistema paese. Le ingiustizie fiscali più eclatanti sono altrove: consiglio a tutti di guardare il lavoro recente fatto da un team francese sul loro sistema fiscale: révolutionfiscale.fr. Dovremmo fare uno studio altrettanto preciso e completo per le nostre tasse, attuali e futuribili. Sono disposto a collaborare.

  9. Henrico

    Il governatore di Banca d’Italia il 21 marzo all’università Cattolica: "Aumentare le aliquote fiscali è fuori discussione: comprometterebbe l’obiettivo della crescita, sottoporrebbe i contribuenti onesti a una insopportabile vessazione." Il parere autorevole, è vero, vale in generale, non necessariamente per la tassazione delle rendite finanziarie. Chiedo, però, a chi propone di aumentare la ritenuta sul rendimento finanziario: favorirebbe la crescita? Non si dovrebbe, piuttosto, favorire ancora di più l’investimento in capitale, in capitale a rischio e a lungo termine?

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