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QUANDO L’EQUITÀ MIGLIORA LA VITA

In genere, gli indicatori statistici di benessere misurano soprattutto i fattori che contribuiscono a generarlo. E ciò porta a sopravvalutare il benessere individuale. Per lo stesso motivo, anche una maggiore sperequazione delle risorse tra gli individui tende a far sovrastimare il benessere collettivo. Mentre invece ogni aumento delle disuguaglianze riduce il benessere collettivo, a parità di Pil. E solidarietà e coesione sociale dovrebbero essere considerati come strumenti indispensabili per raggiungere livelli di benessere più elevati.

Si stanno moltiplicando i tentativi di misurare il livello di sviluppo economico e sociale attraverso indicatori complementari al Pil, soprattutto dopo la conclusione dei lavori della commissione Sen – Stiglitz – Fitoussi, e inevitabilmente l’attenzione cade su qualche approssimazione del benessere collettivo. (1) Sarebbe opportuno riesaminare alcuni risultati acquisiti quasi un secolo fa su questo argomento, quando furono anche gettate le basi dell’attuale sistema di contabilità nazionale, di cui il Pil è solo l’elemento più noto.

DIFFICILE MISURARE IL BENESSERE

Il primo punto fermo è che il benessere non può essere misurato direttamente, perché si tratta di una condizione tipicamente soggettiva, al pari della felicità, dell’amore, della bellezza di un’opera d’arte, eccetera. Per questo motivo, sono sostanzialmente falliti i vari tentativi di misurazione del benessere mediante scale ordinali (ricavate chiedendo a ciascun individuo di dare un “voto” alla propria condizione) o deducendolo dalle preferenze rivelate dagli intervistati nella scelta tra diverse combinazioni di beni e condizioni di vita. Forse, di fronte al problema della misurazione del benessere, dovremmo ispirarci alla famosa scena del film “L’attimo fuggente” in cui il professor Keating/Robin Williams invita gli studenti a strappare dal libro di testo le pagine iniziali, che pretendono di spiegare come si misura “scientificamente” il valore di un’opera letteraria in base ad alcuni discutibili parametri quantitativi.
L’unica cosa che si può fare realisticamente è considerare il benessere come il risultato di un processo produttivo e misurare i fattori che lo generano. Alcuni sono valutabili in modo relativamente semplice, come i beni materiali e i servizi (disponibili sia sotto forma di flussi, sia di stock di ricchezza accumulata), altri lo sono un po’ meno, come la cultura, lo stato di salute, le condizioni ambientali e sociali, la qualità delle relazioni sociali, la sicurezza, le prospettive future, eccetera. Una delle poche cose che sappiamo (o che crediamo di sapere) sulla funzione di produzione del benessere individuale è che i suoi input hanno un rendimento decrescente. Infatti, se moltiplichiamo per due reddito, ricchezza eccetera è improbabile che raddoppi anche il benessere individuale (e che migliori proporzionalmente la posizione relativa di ciascun individuo in una scala ordinale), semplicemente perché è impossibile mangiare il doppio, guidare due auto allo stesso tempo o vedere due film contemporaneamente. Se le cose stanno così, qualsiasi combinazione dei beni e servizi disponibili (come il Pil e la ricchezza materiale) e degli altri fattori che producono condizioni di vita migliori può fornire solo una approssimazione per eccesso del benessere pro capite (comunque misurato).

QUANTO CONTA LA SOLIDARIETÀ

Ma i problemi non finiscono qui. Se il benessere individuale non aumenta esattamente nella stessa proporzione dei rispettivi fattori produttivi, allora il benessere associato alla media di questi fattori non corrisponde al benessere medio di ciascun individuo. Sembra un gioco di parole, ma significa semplicemente che, anche dopo aver raccolto e sintetizzato al meglio tutti i possibili indicatori su ciò che migliora le condizioni di vita, ci troveremmo tra le mani una stima sistematicamente distorta del benessere. C’è di più: accettando l’ipotesi sulla particolare forma (convessa) della funzione di produzione del benessere individuale, si deve ritenere che, a parità di Pil e di altre condizioni, una concentrazione di questi fattori nelle mani di pochi individui produca un benessere complessivo inferiore a quello che si avrebbe nel caso di una distribuzione più equa. (2) Il risultato è che, come rilevato da quasi un secolo, il problema della misurazione del benessere finisce per intrecciarsi intimamente con quello della distribuzione delle risorse, ovvero con questioni etiche e politiche. In ogni caso, anche limitandoci a considerare solo il particolare trade off tra benessere ed equità generato dalla convessità delle funzioni di utilità, si rafforza il sospetto che le misure del benessere disponibili rappresentino solo una approssimazione per eccesso del benessere effettivo. E questa approssimazione peggiora drasticamente nelle società dove le sperequazioni tra gli individui sono più ampie. Quindi non deve stupire che in molti paesi l’aumento del reddito vada di pari passo con un peggioramento del grado di “felicità” dei cittadini. (3)
C’è un vecchio trucco statistico per uscire da queste sabbie mobili: quello di misurare l’ammontare dei fattori produttivi del benessere facendo riferimento a individui che si trovano in diverse posizioni nella graduatoria della disponibilità di ciascun fattore: ad esempio a metà classifica, nella zona retrocessione del quarto peggiore, oppure nell’élite rappresentato dal decimo migliore. Il vantaggio di questi indicatori è che, a differenza della semplice media, consentono almeno di misurare il benessere in condizioni standard, indipendentemente dalla distribuzione effettiva delle risorse e dalla forma della funzione di produzione del benessere. Purtroppo è molto complicato elaborare simili statistiche, mentre il Pil o la ricchezza pro capite sono stimati periodicamente da qualsiasi istituto di statistica ed esistono sempre più rilevazioni sulla qualità dell’ambiente, sulla cultura, sulle condizioni di salute, e così via.
Tuttavia, l’attuale carenza di dati statistici dovrebbe essere uno stimolo alla loro produzione, piuttosto che un freno alla elaborazione di misure di benessere sempre più accurate e all’avvio di politiche che tendano a migliorare realmente le condizioni di vita dei cittadini. Oltre tutto, si può ricavare qualche indicazione di policy anche in attesa di statistiche più appropriate. Ad esempio, qualsiasi policy maker, a prescindere dalle sue convinzioni etiche e politiche, dovrebbe essere consapevole che ogni aumento delle disuguaglianze riduce il benessere collettivo, a parità di Pil, e che, viceversa, è possibile migliorare lo standard di vita dei cittadini rendendo più equa la distribuzione delle risorse, quando non ci si può aspettare troppo dal Pil, come nei periodi di recessione o di bassa crescita. In altri termini, la solidarietà e la coesione sociale non devono essere considerati solo come valori in sé, ma piuttosto come strumenti indispensabili per raggiungere livelli di benessere più elevati. Nel frattempo, gli statistici non dovrebbero più dimenticarsi di incorporare gli indicatori di disuguaglianza nelle misure sintetiche del benessere sociale. Tutto per colpa (o per merito) di una derivata seconda negativa, e senza scomodare ideologie e convinzioni politiche.

(1) Su come andare “oltre il Pil” si rimanda al recente contributo su lavoce.info e ai lavori del gruppo di lavoro europeo. In Italia sono elaborati periodicamente il Quars (qualità regionale dello sviluppo) e il Piq (prodotto interno di qualità).
(2) La parità di condizioni è essenziale perché, in un contesto dinamico, Pil e ricchezza potrebbero aumentare con la disuguaglianza se questa premia gli individui più produttivi. Inoltre, il benessere individuale dipende anche dal confronto con le condizioni degli altri membri di una stessa collettività, ma tanto per semplificarci la vita, possiamo supporre che la maggiore soddisfazione dei privilegiati compensi esattamente l’infelicità/invidia di tutti gli altri, almeno a livello aggregato.
(3) Su questo tema si rimanda all’ampio studio su un centinaio paesi di Stevenson e Wolfers, pubblicato nel numero di primavera del 2008 dei Brookings Papers on Economic Activity.

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QUANTO SOTTRAGGONO AL FISCO LE ESENZIONI PER GLI ENTI ECCLESIASTICI?

12 commenti

  1. Diego Alloni

    Anche chiudere gli occhi sulla realtà è ideologia o politica, quando si relegano nel privato gli effetti di separazione/divorzio che interessano direttamente, come prevalenza, oltre un settimo della popolazione italiana; e dove si pratica il contrario di equità o coesione sociale o solidarietà.
    Un fenomeno che sposta 15 miliardi l’anno di proprietà immobiliari (ed un’abitazione costa decenni di anni-lavoro), svariati miliardi l’anno di contanti (relegando nell’indigenza, cioè ben sotto la povertà assoluta centinaia di migliaia di padri), oltre a determinare costi indiretti ben calcolabili per la generazione più giovane, e che non ha la minima menzione nemmeno nei link dell’articolo. Una delle maggiori sperequazioni delle (in)civiltà occidentali, codificabile come "emarginazione di stato", semplicemente "non esiste" per l’accademia, asservita/ricattata presso il potere.

  2. francesco scacciati

    Concordo con il contenuto di questo articolo. Ci sono però alcuni problemi. 1. Quando si è cercato di imporre un’assoluta parità per legge, i risultati sono stati molto modesti, sia in termini di felicità sia in termini di efficienza. Sembrerebbe dunque che l’equità debba essere frutto di una diffusa “cultura dell’equità” tale da consentire però una differenziazione in base al merito, nella misura in cui tale differenziazione sia diffusamente ritenuta, a sua volta, equa. 2. E’ più facile fare politiche improntate alla riduzione delle differenze di reddito in periodi di crescita che non in periodi di stagnazione: questo perché una redistribuzione del reddito in periodi a PIL costante implicano una riduzione del reddito dei “ricchi” e/o dei “medio-ricchi”, attivando la loss aversion, ufficializzata da Kahneman, ma ben nota anche all’uomo delle caverne. L’infamia dei policy makers (e della maggior parte dei nostri colleghi economisti, "consiglieri del principe") del ventennio 1988-2008 è consistita proprio, in un periodo di buona crescita media, nel consentire, anzi nell’incentivare, un aumento spaventoso della non equità della distribuzione del reddito.

  3. Ugo Bolletta

    Purtroppo per parlare di equità occorre allontanarsi dai comuni sentieri economici. Dico purtroppo perchè se così non fosse il problema della disuguaglianza si sarebbe già risolto. Non si riesce a dimostrare, infatti, che una maggiore equità generi una crescita economica più rapida e proficua per la società, anzi, si può dimostrare il contrario. Le tematiche di distribuzione ritengo però che siano di importanza centrale. Ma siamo certi che i molti desiderino questo? E se la felicità dipendesse proprio dalla possibilità di possedere più degli altri? La questione è quindi puramente ideologica. Occorre analizzare l’ideologia dominante. E lavorare su questo.

  4. BOLLI PASQUALE

    Il nostro sfortunato Paese, oggi, vive una situazione drammatica.Tutti i nostri problemi derivano prevalentemente da una classe politica inadeguata per competenza,egoismo ed irresponsabilità.Tutti questi elementi negativi hanno causato una disgregazione, ed impoverimento della nostra società. Il nostro Paese non ha politica economica, non perchè non vuole, ma perchè non può. Non ci sono più risorse: abbiamo una notevole evasione fiscale, una devastante malavita alimentata da collusioni ed un sistema produttivo depresso non solo da fenomeni di macroeconomia globale, ma anche, da condizioni di non governabilità.Chi dovrebbe assolvere a questi adempimenti si assume gravissime responsabilità. Una società egoista e con disuguaglianze sempre maggiori ci porterà sicuramente a devastanti conclusioni. Nel nostro Paese la certezza del futuro è solo degli anziani che aspettano di concudere la loro esistenza. Che futuro hanno i giovani? Per quanto tempo ancora un popolo può tollerare quanto ascoltiamo ed assistiamo? Possiamo accettare che chi fa la fame e chi fa festini? Possiamo accettare che la legge non è uguale per tutti? Attendiamo fiduciosi che chi si abbuffa si strozzi.

  5. malpassotu

    Egregio Dottor D’Elia, ho letto con interesse il suo scritto. Ho una certa stima di ciò che viene pubblicato su lavoce.info e francamente mi aspetto, non certo di leggere degli articoli scientifici, ma almeno contributi informati e precisi su temi per cui nutro un certo interesse. Le elenco 3 motivi soltanto (per evitare di dilungarmi e annoiarla e annoiare eventuali lettori) del perché la sua nota non rientra in questa fattispecie. 1) La mia impressione personale sul suo articolo è che esso, come altri, cavalchi la nuova moda di parlare di felicità, responsabilità sociale, solidarietà ecc. Concetti nobili quando si accenna alla parte destruens cioè alla critica (in questo caso) delle misure di benessere sociale, concetti vaghi o vuoti quando si passa a definirli e a fare un tentativo di misurazione. 2)Lei ammicca a concetti che non definisce e prova a dare l’impressione di basare tutto su solide basi di teoria economica salvo poi inserire frasi (una a caso), come questa "trade off tra benessere ed equità generato dalla convessità delle funzioni di utilità, [.] le misure del benessere disponibili rappresentino solo una approssimazione per eccesso del benessere effettivo". Forse qui si voleva riferire al trade-off tra efficienza ed equità, una funzione del benessere (sociale) è, per usare il suo linguaggio, una funzione isotona di una qualche misura di equità e non esiste una sola misura a mia conoscenza che "approssima"(?) il benessere.
    3) La sua chiusura ".. gli statistici non dovrebbero più dimenticarsi di incorporare gli indicatori di disuguaglianza nelle misure sintetiche del benessere sociale. Tutto per colpa (o per merito) di una derivata seconda negativa,…" mi sembra poi eccessiva. Fa un invito agli statistici colpevoli di usare la derivata seconda (di cosa?), a non essere manchevoli omettendo gli indicatori di disuguaglianza dalle misure di benessere sociale, quando i primi sono il duale delle seconde. Cioè banalmente sono la stessa funzione a meno di un segno.

  6. Francesco Bloise

    Penso che si possa concordare sul fatto che a parità di altri fattori una distribuzione meggiormente egualitaria possa aumentare il benessere collettivo, soprattutto se si considera che non esistono evidenze empiriche convincenti sul fatto che la disuguaglianza possa influenzare linearmente la crescita economica;la relazione potrebbe essere eventualmente non lineare. Detto questo la inviterei a controllare la sua affermazione: "accettando l’ipotesi sulla particolare forma (convessa) della funzione di produzione del benessere individuale, si deve ritenere che, a parità di Pil e di altre condizioni, una concentrazione di questi fattori nelle mani di pochi individui produca un benessere complessivo inferiore a quello che si avrebbe nel caso di una distribuzione più equa". Per avere un benessere collettivo maggiore in una situazione equa la funzione di produzione deve essere concava e non convessa (con derivata seconda minore di 0). Altrimenti saremmo di fronte ad un trade-off tra benessere ed equità.

  7. Riccardo Achilli

    Caro Enrico, c’è anche un altro problema di misurabilità molto serio, di cui peraltro abbiamo avuto modo di discutere tempo fa: anche valutando soltanto i fattori che compongono il vettore individuale del benessere, ci è ignoto il vettore di ponderazione individuale con cui l’individuo valuta i singoli elementi del vettore (cioè, per Tizio, quanto vale un incremento marginale di cultura rispetto ad un decremento marginale di reddito)? Ovviamente porre a tutti i fattori lo stesso peso è arbitrario. Ed anche ammettendo che sia possibile costruire il vettore individuale dei pesi assegnati ad ogni fattore del benessere, è corretto ricavarne il vettore sociale dei pesi semplicemente facendo la media dei singoli vettori individuali? (così facendo escludendo ceti sociali "outliers", come ad esempio i ceti sociali più poveri, che esprimono un sistema di preferenze molto diverso dalla media sociale). Chissà che non possiamo ragiornarci insieme, magari anche in un articolo.

  8. stefano monni

    Ritengo condivisibile quanto esposto nell’articolo soprattutto se si considerano le conseguenze, anche in termini di sicurezza sociale, di una disuguaglianza eccessivamente marcata. Il problema però non credo debba riguardare gli aspetti tecnici che possano giustificare tale assunto e cioè curve, lorgaritmi, indicatori statistici. Credo piuttosto che il problema centrale sia quello di definire le politiche e le iniziative più appropriate che i policy maker debbono adottare per garantire quella equità in grado di migliorare il benessere collettivo, sempre che si dia per scontato che l’operatore pubblico è il soggetto deputato a perseguire tale finalità in quanto ritenuto capace di conoscere sempre ed in qualsiasi momento quale sia effettivamente il livello del benessere collettivo e come intervenire per aumentarlo. Il problema, invero, è decidere se una maggiore equità debba essere garantita dal libero operare delle forze di mercato oppure debba essere un obiettivo precipuo dell’operatore pubblico.

  9. Gianluca

    "Lo statistico è uno che fa un calcolo giusto partendo da premesse dubbie per arrivare a un risultato sbagliato" diceva Jean Delacour. Mentre Enzo D’arcangelo affermava che "la migliore retta di regressione e’ quella disegnata a mano". Non sono un matematico, ne’ soprattutto un esperto di statistica, e provo sempre dei brividi davanti ai tentativi, seppur lodevoli, di tradurre la felicita’ dell’individuo in numeri e classifiche. Ecco perche’ consiglio una lettura piu’ olistica e meno tecnica dell’articolo, che ritengo acuto e puntuale, e del quale mi sento di condividere i concetti fondamentali che da esso si evincono, due su tutti: 1-il benessere degli individui non aumenta in maniera proporzionale con l’aumento delle disponibilita’ materiali di beni e servizi; 2-la sperequazione dei redditi tra le varie classi sociali, soprattutto in presenza di decenni di costante crescita economica, non solo accentua il disagio sociale ma lo cela dietro le medie statistiche, quelle misure, cioe’, che indicano che se tu hai mangiato due polli ed io zero, in media ne abbiamo mangiato uno a testa e quindi siamo entrambi sazi e felici.

    • La redazione

      Ringrazio tutti per i commenti e provo a dare qualche chiarimento. Il recente dibattito sugli indicatori di benessere ha avuto almeno il merito di far riscoprire agli economisti la sofferenza individuale ed i disastri macroeconomici provocati da una cattiva distribuzione delle risorse (si veda l’intervento di Marco Leonardi). Su temi tanto complessi è difficile trovare il giusto equilibrio tra rigore formale e chiarezza, quindi proverò ad essere più esplicito. L’articolo parte da una premessa piuttosto banale (e largamente condivisa nella teoria economica), cioè che il benessere (qualsiasi cosa sia) è una funzione convessa dei suoi “fattori produttivi”, perchè non raddoppia se raddoppiano reddito, ricchezza, qualità dell’ambiente, ecc. Da questo assunto derivano almeno due conseguenze: (1) qualsiasi indicatore statistico costruito come una media ponderata di Pil, patrimonio, inquinamento, ecc. sovrastima il benessere; (2) entro certi limiti, il benessere aumenta se si trasferisce un euro dai ricchi ai poveri. Questi aspetti non possono essere trascurati né dagli statistici, né dai policy maker che si pongano seriamente l’obiettivo di aumentare il benessere sociale e non solo il Pil, anche se l’egualitarismo a tutti i costi può produrre danni peggiori e politicamente è più facile migliorare la distribuzione solo durante le fasi di crescita.

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