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Meno lavori, più precari

Dall’inizio della crisi sono un milione e duecentomila (per l’esattezza 1.201.391) i posti distrutti fra i lavoratori italiani (i dati delle indagini forze lavoro sugli immigrati sono viziati dalle procedure di regolarizzazione). Mentre all’inizio della recessione, le perdite occupazionali erano concentrate tra lavoratori con contratti a tempo determinato (CTD) e nel parasubordinato, nell’ultimo anno ci sono stati licenziamenti anche fra i lavoratori con contratto a tempo indeterminato (CTI). Anche se la probabilità di perdere il lavoro continua ad essere da quattro (per chi ha un CTD) a quindici volte (per chi ha un contratto di collaborazione) più alta per i lavoratori precari che per chi ha un CTI (vedi Grafico 1), i lavoratori con CTI sono ancora più numerosi. Questo spiega perché hanno contribuito ad un quinto della perdita di posti di lavoro (vedi Grafico 2).
Le nuove assunzioni avvengono solo in contratti a tempo determinato e molti CTI vengono trasformati in part-time involontario. Mentre l’occupazione diminuisce aumenta così la quota di lavori precari, salita al 18 per cento. In cifre assolute i lavoratori con contratti a termine o in part-time involontario (tecnicamente sotto-occupazione) sono saliti a 4.145.113 (erano 4.037.958 un anno fa).
Se l’Italia non torna a crescere e non vengono introdotte politiche per ridurre il dualismo del nostro mercato del lavoro è un fenomeno destinato a crescere ancora nei  prossimi trimestri.

(1) Variazione dello stock dei lavoratori per tipologia contrattuale al III trim. 2010 in rapporto alla popolazione iniziale (II trim. 2008).
(2) Variazione dello stock dei lavoratori per tipologia contrattuale in rapporto al totale dei posti distrutti tra il secondo trimestre 2008 e il terzo trimestre 2010.

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Vittime di mitridatizzazione

14 commenti

  1. Salvatore Rapisarda

    Sono un docente di scuola secondaria ed ai miei alunni insegno (persino con qualche profitto) che quando affrontano un argomento devono procedere “more geometrico” dalla definizione dei dati utilizzati. Faccio bene? Evidentemente no. Dal momento che illustri docenti delle più prestigiose università italiane e straniere- che sono culle e fucine della meritocrazia- continuamente parlano di lavoro e occupazione senza agganciarne la definizione ad un minimo di salario e di diritti.Peccato che in questo modo anche una società schiavista od un campo di concentramento sono luoghi di piena occupazione (argomento per assurdo). Ritengo evidente che un lavoro è da ritenersi precario dialetticamente in quanto esiste un lavoro a tempo indeterminato: se dunque annulliamo il lavoro stabile e con qualche garanzia e retribuzione abbiamo (chapeau!) magicamente annullato il precariato, allo stesso modo in cui (per analogia) eliminando il valore legale della moneta eliminiamo il reato di contraffazione. Alcune ulteriori domande: 1- Ma se per il lavoro valesse quello che vale per la moneta ovvero che quello cattivo scaccia quello buono? 2- Quanto costano ai cittadini ed allo Stato gli ammortizzatori?

  2. informazione_corretta

    Se non siete in grado di quantificare quanti dei nuovi posti di lavoro degli immigrati siano frutto di regolarizzazioni o di effettivi nuovi posti di lavoro, allora non é valida neanche la vostra analisi fatta cosi’. Voi dovreste poter aver accesso a dati piu’ precisi, rispetto a noi comuni mortali, cercate di fare analisi davvero precise e non questo tipo di analisi che avrei potuto fare pure io prendendo i dati dal sito dell’ISTAT. E poi anche li, come si fanno a fare statistiche sulle probabilità di perdita di lavoro in base alle varie categorie, se non si sanno i dati dei pensionamenti e dei licenziamenti effettivi non dovuti a licenziamento. E’ un giochetto non tanto giusto.

    • La redazione

      I dati di cui disponiamo per il momento sono gli stessi che sono anche a sua disposizione. Purtroppo l’Istat non ci ha ancora concesso l’accesso ai dati longitudinali nè ai micro dati sulle indagini forze lavoro. Sulla base delle informazioni disponibili, possiamo ricostruire solo i flussi netti, dunque stimare le probabilità di disoccupazione come variazioni degli stock rispetto alla popolazione iniziale nelle diverse categorie. Cordialmente

  3. gianfranco

    il problema dei precari specialmente plurilaureati e con dottorati di ricerca e dei giovani disoccupati e dei disoccupati in genere, è senza ombra di dubbio un grave problema. Mi sembra tuttavia che dalla discussione manchi sempre un punto fondamentale: chi è tenuto a creare i posti di lavoro e pagarne ovviamente i relativi stipendi e costi? Con quali soldi? Per quale motivo? Che cosa ne riceve in cambio? Perché i precari plurilaureati e con dottorati di ricerca ne sono esentati ed hanno diritto indipendentemente dal tipo delle loro specializzazioni, a stipendi fissi (senza rischi) ed adeguatamente remunerativi? Perché ci sono lavori che nessuno vuol fare perché considerati non sufficientemente prestigiosi?

  4. Franco

    Non mi stancherò mai di affermare che l’unico modo per frenare lo sfruttamento al ribasso dei lavoratori precari e di riportare così il contratto alla sua ispirazione iniziale di collaborazione autonoma e professionale a singole iniziative imprenditoriali discontnue rispetto ai piani e alla collocazione di base per la produzione, è quellas di imporre per legge un livello minimo di retribuzione che tenga conto, e quindi retribuiscae, della mancanza di ognii ogni aspettativa e garanzia propria del contratto a tempo indeterminato. Sappiamo invece che gli sforzi sindacali e politici della cosiddetta opposizione sono rivolti invece a implementare il più possibile di garanzie…altrui i contratti precari, finendo così proprio per determinare l’effetto opposto della loro sempre maggiore estensione nello sfruttamento del lavoro, L’incapacità politica di ogni governo di mettere un freno alla micragnosa economia produttiva italiana può essere messa alla frusta solo in questo modo nè bisogna far distinzione tra grandi medi e piccoli perchè la micragna è, sotto aspetti più o meno sofisticati e nascosti, linfa comune degli italici sfruttatori di lavoro.

  5. Marco Spampinato

    In primo luogo un articolo non firmato non è bello, e questa non è una considerazione estetica, ma propriamente politica. Così facendo lavoce.info insegna che cosa sia la democrazia che abbiamo, e che cosa possa essere quella che avremo in futuro? Denunciare un problema solo "in nome collettivo", e discutere poi soluzioni solo "in nome individuale"? Inoltre, si potrebbe anche dire che non è la probabilità di perdere il lavoro l’unica variabile che conta, quando si vuole parlare, o se si volesse veramente parlare, di diritti dei lavoratori. Altre variabili altrettanto importanti sono la possibilità di beneficiare di un sussidio quando si resta disoccupati, la possibilità di studiare, sul serio, per poter cambiare lavoro e datore di lavoro nell’arco della propria vita lavorativa, la possibilità di avere un percorso, formale e trasparente, per un contratto a tempo indeterminato (un percorso formalmente e sostanzialmente corretto giuridicamente). Ed invece in Italia non c’è solamente il precariato, ma anche o sopratutto la schiavitù, che è esattamente l’appropriazione del lavoratore da parte del datore di lavoro, attraverso modalità che ne limitano o impediscono la crescita.

  6. Emilio Odescalchi

    I motivi sono tre: il rapporto salario netto/Costo fino a 1 a tre!. La non flessibilità del lavoratore che una volta assunto esibisce un attaccamento alla mansione o compito e all’orario di lavoro. Crisi della domanda di beni e servizi che andrà avanti fino al 2015/2016 andar bene. Basse competenze dei laureati o diplomati rispetto alla domanda. Occorono specialisti e tecnici, non filosofi o letterati. Lauree e diplomi troppo facili da ottenere. Si studiano poco e male per discipline che non servono. In alcune aree geografiche il miraggio è ancora l’impiego statale. Nessun politico che s’impegni e racconti la verità ai giovani e disoccupati. La non attrattività dell’Italia per investire. Cose note e predicate da Ichino, Monti, Draghi, Ricossa e tanti altri. Poi una domanda perenne alla quale nessuno mi ha mai risposto: "Ditemi tre, solo tre buoni motivi per i quali dovrei investire in un’attività produttiva in Italia.". Dal 1973 ad oggi nessuno ha saputo rispondermi. Triste e vero purtroppo.

  7. Gabriele

    Per riuscire a valutare compiutamente le considerazioni offerte nell’articolo, ritengo sia opportuno chiarire in che modo è stata valutata l’apporto della "Cassa Integrazione" ordinaria e/o in deroga. Temo che se non è stata indicizzata questa grandezza si corre il rischio di fornire un dato falsato. Purtroppo, anche per l’uomo della strada, appare evidente che in molti casi la CIG è un mezzo per "sostenere" i lavoratori, ma non esistono reali prospettive di essere riassorbiti in aziende oramai sull’orlo del baratro. Temo quindi che il numero dei posti di lavoro persi sia purtroppo superiore a quanto illustrato, incidendo soprattutto, in questo caso, sui lavoratori a tempo indeterminato.

  8. luigi saccavini

    Gli indici, comunque interessanti, e quasi tutti i commenti partono dal CTI quale optimum da perseguire ad ogni costo; un assunto che, logico se si adottano parametri trascorsi, è superato qualora si guardi al lavoro dei prossimi anni. Le aziende saranno sempre meno in grado di proporre CTI, complice il mercato instabile che tale rimarrà ed una competitività internazionale accesa. Non poco incide inoltre la rigidità in uscita delle regole d’oggi: chiamate diritti ma sostanziali benefit conquistati quando il sistema lo poteva elargire. Ciò che conta e conterà sempre più è il lavoro quale che sia. Lo si avrà per come le imprese possono offrirlo, come il Paese sarà in grado di guadagnare in competitività su innovazione e materiali. Nella diffusione di part time e CTD (che dai dati UE in Italia risulta inferiore agli altri paesi), c’è anche l’estrema frammentazione del lavoro in piccole imprese. Occorre ripensare e modulare gli strumenti di entrata e uscita dal lavoro in modo compatibile con la situazione: rimpiangere il CTI entro un sola azienda, sempre la stessa, non potrà farlo aumentare, purtroppo.

  9. marisa manzin

    Come fa un autonomo a perdere il posto di lavoro? Se è autonomo non ha un posto di lavoro, ma un’attività autonoma, a mio modesto parere. Quindi chiedo gentilmente la redazione di spiegare il termine “autonomo”, che evidentemente ha assunto una coonotazione a me sconosciuta.
    Marisa Manzin

    • La redazione

      Grazie per l’acuta osservazione. Molti lavori autonomi in realtà mascherano prestazioni alle dipendenze. Come ad esempio nelle maglie del parasubordinato, tra i co.co.co, i contratti a progetto e le asspa ci sono monocomittenze. Quando queste cessano si perde il lavoro. Ma anche un artigiano può perdere il lavoro quando la sua azienda chiude.

  10. Armando Pasquali

    Parlando di economia qualche dato non fa male. Negli Stati Uniti al 1983 al 1998 l’incremento dei redditi è andato per il 47% all’1% più ricco e per il 42% al restante 19%. Cioè il quinto che guadagna di più ha catturato l’88% dei nuovi redditi. L’altro 80% ha catturato solo il 12%. (Edward Wolff, Top Heavy, The New Press, 2002.) E’ intuitivo – e dimostrato – che i quintili più bassi, specialmente l’ultimo, hanno visto peggiorare sensibilmente la loro posizione. Da allora il trend non è cambiato (per la pessima situazione dei lavoratori americani vedi "America Works" di Richard Freeman). Conclusione: nei paesi occidentali è in atto una dismissione dei lavoratori delle fasce più basse, destinati a un lento impoverimento. Negli Usa il fenomeno è causato un mix di politiche interne ed esterne, mentre in paesi come l’Italia è il corollario dei processi di integrazione internazionale. Perché è evidente che il dilemma CTD/CDI va risolto togliendo i diritti e le protezioni a chi li ha, in modo da rendere l’aggiustamento verso il basso più agevole. I precari guadagneranno qualcosa in più, ma certo non quanto perderà la maggioranza dei lavoratori.

  11. LOREDANA

    Mi sembra che il mondo del lavoro nel nostro paese sia affetto da un cancro che sta "metastatizzando" le vite di noi giovani quarantenni…se non si pone immediatamente rimedio in maniera forte e radicale siamo spacciati. io "giovane" quarantenne a quindici anni dalla laurea, master e quant’altro sono ancora lì a ricoprire lo stesso posto di lavoro da otto anni, in una PA con un contratto co.co.pro a 1300 euro al mese senza diritti (maternità, malattia, buoni pasto, congedi…)..ma con la responsabilità di creare (insieme ad un unica strutturata che è la responsabile) una banca occhi. Quando il risultato è raggiunto, dopo cinque anni di lavoro mi mandano a casa….e la Banca resta senza personale…poi torno e poi di nuovo senza contratto e poi….ma cos’è questa? Flessibilità? Precariato o incapacità a gestitre gli interessi pubblici e quelli del singolo? Ed ora ci sembra che tutto possa solo peggiorare…Svegliatevi voi che siete comodamente aggrappati alle vostre poltrone, il paese sta morendo e sembra che nessuno se ne accorga!

  12. michele

    Non credo che il contratto a tempo indeterminato sia la vera causa della disoccupazione. Eliminandoli si accentuerebbe la disoccupazione e peggiorerebbe la situazione generale dei lavoratori dipendenti. La mia visione vede il lavoratore come risorsa da formare e da far crescere insieme all’azienda a cui difficilmente si possa rinunciare semplicemente per una flessione del mercato. Cosa diversa è il lavoratore come limone da spremere da non far crescere sia come mansioni che come stipendio. Alcuni contratti oltre a rispondere efficacemente a questa visione idelogica del lavoro sono lesivi dei diritti degli esseri umani ad un equa retribuzione e a un giusto trattamento se non altro come persone. Sono pertanto da considerarsi non indecenti ma semplicemente illegali. Il vero nodo della questione è la pressione fiscale e la flessibilità che non può essere scaricata sul lavoratore o sul contribuente (c.i.g.) ma deve essere un impegno politico e governativo a riqualificare e ricollocare lavoratori di settori maturi o in crisi da riassumere con contratti sempre rispettosi dei diritti dell’uomo e della persona.

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