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L’Europa alla ricerca di una nuova finanza d’impresa

La struttura finanziaria delle Pmi europee esce indebolita dalla crisi. Ricorrere alla leva creditizia sarà al tempo stesso più rischioso e meno produttivo per le banche e per le imprese. Occorre una strategia per rafforzare la finanza d’azienda, altrimenti l’Europa non potrà colmare i pesanti gap di competitività. Va sfruttato in particolare lo spazio tra capitale e credito, con strumenti nuovi e servizi adeguati, disegnandoli in uno sforzo comune e concertato tra imprese, finanza e mercato. A partire dal tavolo permanente di lavoro tra imprenditori e sindacati.

 

Con il recente meeting dei ministri finanziari e dei governatori del G20 in Corea si va delineando il quadro regolamentare di risposta alla crisi. In definitiva, le banche ne usciranno con più capitale, le imprese con meno, soprattutto in Europa e soprattutto quelle piccole e medie, per perdite, declino dell’autofinanziamento, deflazione degli attivi, investimenti a ritorno marginale). Non è una buona notizia, perché imprese con meno capitale sono più fragili, meno capaci di crescere in modo competitivo e spesso più dipendenti dai fornitori di credito, ovvero dalle banche. E imprese più vincolate alle banche sono anche meno libere nello scegliere il proprio destino strategico e operativo, in Italia come in Europa. Lo stesso G20 peraltro se ne rende conto e, nel comunicato finale, fa un esplicito riferimento a questi temi. (1)

INVESTIMENTI: DOVE CERCARLI

La riduzione del debito delle imprese è importante quanto quella del debito pubblico. Anche in questo ambito occorre definire una exit strategy convincente.
Alcune proposte di sostegno alla finanza d’impresa, prevalentemente tattiche, si sono delineate all’orizzonte. Tra queste la più significativa è relativa alla riduzione dei termini di pagamento da parte della pubblica amministrazione e dei privati. Una manovra che, se ben attuata, avrà lo stesso impatto, seppure una tantum, di una potente defiscalizzazione degli utili. Tuttavia, questa sola misura non è sufficiente a rilanciare su più robuste basi nel medio termine la finanza aziendale.
Che fare quindi? Non è solo economicismo di maniera, di scuola contabile. Rafforzare il capitale delle imprese è essenziale per il rilancio degli investimenti in innovazione e proiezione internazionale, per la sostenibilità dello sviluppo, per il consolidamento della posizione competitiva nell’economia globale, oltreché per la stabilità del sistema finanziario stesso, perché il capitale nelle imprese, via qualità degli attivi, integra il capitale delle banche. La finanza d’impresa è sempre più oggetto vivo per impostare una nuova politica industriale.
La Commissione europea, nel suo Small Business Act, afferma con solennità che “più che mai l’Europa ha bisogno di industria”. Secondo il documento, occorre coordinare le politiche industriali attraendo capitali dall’estero, inclusi quelli dei fondi sovrani, per progetti di investimenti privati su larga scala e di ammodernamento infrastrutturale. Sarebbe ancora meglio se su questi obiettivi si riuscisse a convogliare il risparmio europeo.
L’Europa continentale, d’altronde, è lontana dalla performance tanto dell’economia americana quanto di quella dei paesi emergenti. Secondo l’interpretazione dell’ampia letteratura corrente, la diversa dinamica è attribuibile in buona parte all’assenza di un massiccio settore di produzione di nuove tecnologie. Non è tuttavia inferiore il ruolo di un ambiente economico, produttivo e istituzionale troppo rigido, frammentato e poco incline all’innovazione. Laddove la tecnologia è più evoluta, la dinamica della produttività è più vivace; ciò è tanto più vero nei contesti nei quali vi è produzione diretta e distintiva di Ict. I sistemi basati sull’imitazione e sull’innovazione di processo sono invece in ritardo.
Le ragioni di aumento della produttività sono di carattere “multifattoriale”, non ascrivibili a una o a poche cause facilmente identificabili. Occorre dunque far permeare l’innovazione nel sistema, puntando sull’appropriazione da parte degli utilizzatori intermedi e finali. Una robusta offerta infrastrutturale (materiale e immateriale) è fondamentale, ma non sufficiente se non accompagnata da un pari sforzo di investimento, per far crescere la produttività attraverso il capital deepening (in questo sembra risiedere una delle cause nascoste dei deludenti risultati della Strategia di Lisbona). Ancor di più ciò è urgente in un contesto laggard come il nostro, dove dobbiamo puntare a un “differenziale positivo” alla Solow, a un salto di produttività generalizzato del sistema.
Mentre si parla molto della necessità di accrescere le risorse destinate in Europa alla ricerca e sviluppo, assai minore attenzione è invece rivolta all’importanza degli investimenti, vale a dire alla domanda di innovazione proveniente dalle imprese, dal sistema della ricerca applicata.
E qui il problema della Unione Europea è del tutto peculiare.

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LA CENTRALITÀ DELLE PMI

Negli Stati Uniti c’è un preciso complesso di relazioni che “guida” i progetti di investimento dell’economia. Si tratta dell’aggregato delle grandi multinazionali, della domanda pubblica (con il ruolo fondamentale dell’apparato militare e di difesa), delle infrastrutture centrali per energia, salute, trasporti, ricerca/università/formazione. Il modello decisionale è compatto e collaudato, ha programmi e piani certi per i prossimi dieci-venti anni.
In Europa, al contrario, ben poche sono le multinazionali che contano a livello continentale, il sistema di difesa non è accentrato e non è particolarmente “pesante” sui budget statali. Gli sforzi di ricerca e di infrastrutturazione ambientale trovano poco coordinamento, generiche linee di indirizzo, ancor meno fondi disponibili. Piani al più a tre anni, nessuna certezza a medio termine.
In questo contesto sono centrali le piccole e medie imprese: le loro scelte plasmano inevitabilmente il nostro futuro economico, la dislocazione della produzione, l’allocazione delle strutture di innovazione e di stimolo alla produttività.
La possibilità che dal bacino di Pmi emergano alcune grandi imprese in pochi anni (come Google), persino in grado di diventare protagoniste del mercato finanziario, è utopico e ingenuo. Gli equilibri finanziari di lungo periodo delle Pmi non possono essere risolti per sempre dalle banche. E se ciò avvenisse, sarebbe certamente problematico. Le banche che emergono dalla crisi sono sempre più condizionate da obiettivi “micro” di stabilità finanziaria (Basilea 3), difficilmente potranno giocare un ruolo “macro” nell’orientare le scelte di sistema per il finanziamento del potenziale inespresso dell’economia. Inoltre, l’intermediazione bancaria non può essere efficiente perché, oltre certi limiti, crea una reciproca interdipendenza tra finanziati e finanziatori (too entangled to fail). Infine, le banche non possono gestire magazzini di rischio della portata che si prospetta da qui a pochi anni, né garantire l’alimentazione del mercato degli investitori di lungo periodo, come assicurazioni, previdenza complementare, integrazione del welfare. In definitiva, è difficile immaginare di uscire dalla crisi nello stesso modo in cui ci si è entrati, ovvero con più credito.
Per tale ragione si ritorna sul concetto di una finanza d’impresa più ricca e articolata a livello nazionale ed europeo, per una rinnovata competitività delle reti produttive. La struttura di capitale oggi disponibile (capitale azionario, debito bancario e commerciale) non regge alla complessità dei compiti. Una riflessione sugli strumenti e sulle modalità di finanziamento delle Pmi è necessaria per renderne più solida e dinamica la struttura finanziaria, per accedere ai mercati dei capitali con prezzi efficienti, per dare liquidità alle contrattazioni, sostenendo ordinatamente processi di investimento di medio orizzonte.
Come ha sostenuto Marco Annunziata sul Financial Times, l’indebitamento corporate può essere il vero tallone d’Achille della ripresa europea. (2) Una nuova onda lunga di crescita sostenibile in Europa richiede investimenti competitivi, da sostenere con un pari sforzo di consolidamento patrimoniale, con una strategia chiara da parte di banche, imprese, governi e istituzioni europee.
Certo, la visione della centralità delle Pmi ha bisogno di una politica, non si realizza da sola. Politica pensata fin da ora, perseguita con un disegno complessivo tra le parti, in cui il legislatore deve mettere del suo, ricreando in primis una cornice fiscale più favorevole al capitale investito nelle piccole imprese, ad esempio esprimendo un preciso orientamento che vada dalla tassazione della rendita finanziaria improduttiva all’incentivazione dell’investimento industriale, più favorevole alla finanza d’impresa. Le banche, per parte loro, mettendo in gioco la propria capacità di valutazione del merito di credito, devono farsi attive con strumenti nuovi, servizi finanziari a valore aggiunto e risorse dedicate, sollecitando il risparmio privato e il mercato dei capitali. Si fa cenno in particolare agli strumenti ibridi di capitale, che potrebbero affiancarsi ai fondi di private equity, di venture capital e di supporto governativo. Ovvero alle opzioni sui risultati dei progetti di R&D, in particolare nei settori di punta, della biotecnologia, della farmaceutica, delle nanotecnologie, della chimica ultrafine e così via. Oppure alla finanza di progetto, in particolare per le infrastrutture comuni, all’imprenditorialità sociale nei settori intermedi tra pubblico e privato.
Joseph Stiglitz ha sostenuto in un editoriale pubblicato da La Stampa che, in materia di piccole e medie imprese, l’America avrebbe da imparare dall’Italia, in particolare sul fronte della loro dinamicità nel settore manifatturiero. (3) Dobbiamo trarre coraggio da queste affermazioni. Le Pmi possono diventare la nuova “rete” che regge l’economia e la competitività europea, rafforzando l’integrazione dell’Unione Europea non solo dal lato della domanda ma anche dell’offerta, legittimando una Unione capace di un colpo di reni di fronte all’euro-pessimismo dilagante. V’è solo da augurarsi che negli incontri settimanali tra imprenditori e sindacati non si dimentichi, tra i temi in agenda, il ruolo della finanza d’impresa nel rilancio della politica industriale.

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(1) Si veda: http://www.g20.org/Documents/201010_communique_gyeongju.pdf. “We welcomed a set of actions identified to improve access to financial services for the poor and SMEs. We welcomed the strong response to the SME Finance Challenge and look forward to the announcement of the innovative winning entries at the Seoul Summit. We agreed to develop a funding framework to support the effective implementation of the winning proposals of the SME Finance Challenge”.
(2) “Corporate debt’s role in the eurozone recovery”, Financial Times, 10 febbraio 2010.
(3) “L’America può imparare dall’Italia”, La Stampa, 7 ottobre 2010.

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  1. MARCO MUSCETTOLA

    L’Italia è basata sulla sua storia e sulle sue tradizioni. Il passato, ed il conforto di esso, ha da sempre illuminato gli imprenditori con una nostalgica paura di spingersi troppo nel futuro. Questo perchè gli istituti bancari sostengono (finanziano) soprattutto il passato e le proprietà mentre potrebbero essere il giusto volano della crescita se avessero il coraggio di istituzionalizzare un nuovo modello di valutazione del rischio di credito basato realmente sulla capacità di rimborso delle PMI, sulla redditività prospettica e sul Valore Aggiunto (ricchezza per l’intero territorio circostante). Cosa succederebbe se le banche cominciassero – mediante appositi strumenti di finanzia d’impresa – a discriminare le imprese che possiedono dei prospettici indicatori di redditività (EBITDA) positivi agevolandole nell’accesso al credito?

  2. bob

    Il gap è enorme tra le banche e la più piccola delle imprese. Nella gestione, nella progettualità le banche rispetto alle imprese sono indietro di 100 anni e in più con personale scadentissimo. Il personale di una qualsiasi banca può essere paragonato in termini di preparazione e d’efficienza con quello della ASL, della Provincia e via dicendo. Oggi anche la più piccola impresa si confronta con un mercato globale, per cui un linguaggio che non si incontra.

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