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Costruiamo nuove università riservate ai bravi scienzati

In Italia non ha molto senso parlare di università migliori di altre. Ci sono semmai scienziati o gruppi di ricerca migliori di altri, indipendentemente dagli atenei cui appartengono. Distribuiti a macchia di leopardo, cosicché nessuno raggiunge quella massa di eccellenza critica necessaria per competere a livello internazionale. Stesso discorso vale per gli studenti più capaci. Si dovrebbe perciò favorire la nascita per gemmazione di nuove università, equamente distribuite sul territorio, verso le quali far migrare solo i professori più bravi.

 

Il livello di competitività dei sistemi accademici nazionali dipende da diversi fattori, culturali e di contesto, in primis la tipologia di finanziamento e i sistemi incentivanti. Nel mondo anglosassone il perseguimento di un vantaggio competitivo ha portato all’’affermarsi di top university capaci di attrarre, sviluppare e trattenere talenti nazionali e stranieri, tra il corpo docente e discente, ma anche capaci di attrarre finanziamenti pubblici e privati, donazioni e imprese nazionali e internazionali sul territorio, che beneficia quindi delle conseguenti ricadute economiche. La competizione ha generato università “di serie A, B e C”, che rilasciano titoli di valore diverso. Al contrario, l’assenza di competitività, unita a radicate prassi clientelari, ha prodotto in Italia gli effetti rivelati da uno studio bibliometrico della produzione scientifica universitaria. (1)
Nell’’arco dei cinque anni (2004-2008) che saranno oggetto di valutazione da parte del Civr, risulta che 6.640 (16,8 per cento) dei 39.512 strutturati (ricercatori e professori di I e II fascia) nelle “scienze dure” non ha pubblicato alcun articolo scientifico nelle riviste censite da Web of Science (WoS). (2) Altri 3.070 accademici (7,8 per cento del totale), pur avendo pubblicato, non risultano mai citati. (3) Il che significa che 9.710 strutturati (pari al 24,6 per cento del totale) non hanno avuto alcun impatto sul progresso scientifico. La distribuzione della produzione scientifica segue una legge quasi paretiana: il 23 per cento degli accademici ha realizzato il 77 per cento degli avanzamenti scientifici complessivi. (4)

SE I MIGLIORI SI DISPERDONO

La forza relativa di un sistema di ricerca nazionale non è data solo dalla performance media, ma anche da come questa è distribuita tra le organizzazioni di ricerca. Nelle università di serie A dei sistemi competitivi (Harvard, Mit, Oxford, Cambridge, per esempio) ci aspettiamo alta performance media dei singoli ricercatori e bassa variabilità; nelle università di serie C bassa performance media e ancora bassa variabilità. Complessivamente, una variabilità di performance più alta tra università che all’’interno delle stesse.
In Italia accade l’’esatto contrario: la variazione di performance tra università è molto più bassa che all’’interno delle singole università. Un’’analisi per settore scientifico disciplinare ha mostrato che il coefficiente di variazione di performance interna per tutte le università è sempre superiore a quello tra università, ad eccezione di due unici casi su un totale di 918 combinazioni università-settore scientifico. In Italia, quindi, non ha molto senso parlare di università migliori di altre quanto, piuttosto, di scienziati o gruppi di ricerca migliori di altri, indipendentemente dalle università cui appartengono. I “top scientist” sono distribuiti a macchia di leopardo negli atenei, cosicché nessuno di questi raggiunge quella massa di eccellenza critica per competere a livello internazionale. Gli studenti italiani più capaci si distribuiscono anch’’essi in maniera piuttosto uniforme tra gli atenei e ricevono una formazione che riflette l’’ampia dispersione di qualità dei loro docenti. Questa realtà richiederebbe azioni diverse dagli attuali indirizzi intrapresi dal governo per indurre una maggiore efficienza produttiva nel sistema di ricerca pubblico.
L’’allocazione di una quota del finanziamento ordinario alle università in funzione del merito risulterebbe efficiente solo se le università distribuissero a loro volta tali finanziamenti su base meritocratica. È velleitario però credere che il 77 per cento degli accademici accetti di rinunciare a una quota di fondi a favore del 23 per cento dei colleghi, ammesso che le università decidano in primo luogo di dotarsi di sistemi seri di valutazione interna della performance. Quand’’anche poi ci sia un’’allocazione efficiente a livello individuale, è altamente improbabile che una quota così esigua di finanziamenti in funzione del merito (3,9 per cento delle entrate totali delle università, nel 2009) possa indurre un significativo incremento dell’’efficienza produttiva e comportamenti di selezione efficiente, tipici dei sistemi competitivi, che sostituiscano radicate prassi clientelari.

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COME CREARE POCHE UNIVERSITÀ DI SERIE A

Il realismo porta a pensare che nessun governo in Italia sia disposto a tagliare chi non produce nella ricerca, ma si può almeno sperare in sistemi incentivanti che leghino le retribuzioni al merito. Lo stesso realismo induce a ritenere che nessun governo, ammesso che lo condivida, sia disposto ad affrontare il rischio della transizione dal sistema attuale a uno fortemente competitivo come quello americano, auspicato da alcuni studiosi. (5)
Si dovrebbe perciò favorire la nascita per gemmazione di nuove università, equamente distribuite sul territorio, verso le quali far migrare dalle attuali sedi, solo i “top scientist” del sistema di ricerca pubblico nazionale. (6) Con un investimento molto basso, relativo ai soli costi infrastrutturali, si potrebbero creare in breve tempo quelle top università che i sistemi competitivi hanno prodotto nell’’arco di decenni in altri contesti nazionali, università in grado di competere a livello internazionale. Le top università così costituite sarebbero per natura fortemente immuni al virus del clientelismo e più inclini ad adottare strategie e pratiche virtuose, tipiche di chi opera in sistemi competitivi. La scelta di fondo è se continuare a puntare al miglioramento di 90 università di serie B pressoché uniformi o far emergere nel breve, attraverso una redistribuzione dei ricercatori pubblici, una dozzina di università di serie A, con effetti positivi non solo sull’’economia, ma anche sulla mobilità sociale.

(1) www.disp.uniroma2.it/laboratoriortt.
(2) Aree disciplinari universitarie 1-9. Sono stati considerati solo i 184 settori scientifici (su 205 totali) in cui almeno il 50 per cento degli strutturati ha pubblicato, su riviste censite in WoS, almeno un articolo nel quinquennio.(3) Non si può escludere che possano essere citati in futuro, con una probabilità che decresce con l’’età dell’’articolo scientifico.
(4) Misurati attraverso il contributo alle citazioni complessive, standardizzate per settore disciplinare e, limitatamente alle scienze della vita, per posizione nella lista degli autori.
(5)Vedi, ad esempio, Perotti R., 2008, L’’università truccata, Einaudi.
(6) L’’individuazione dei top scientist nelle “scienze dure” è di immediata fattibilità con strumenti bibliometrici. Meno agevole, ma altrettanto fattibile, nelle altre aree disciplinari.

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36 commenti

  1. tommaso

    Quale ruolo per l’universitá privata in questa analisi? C’é spazio per questo tipo di iniziative?

  2. lucia spotorno

    Che l’investimento in infrastrutture, soprattutto per alcuni tipi di campi di ricerca (penso a ingegneria chimica, ma ci sono senz’altro molti altri esempi), comporti un esborso basso mi sembra tutto da dimostrare.

  3. Piero Attanasio

    I dati sono interessanti. Ma non capisco perché la concentrazione dei migliori debba essere auspicabile. Si dice: "per essere competitivi", che sembra si possa tradurre: "per entrare nelle classifiche che i giornali pubblicano". Ma ciò significherebbe condizionare la politica universitaria alle modalità di costruzione di classifiche, che a loro volta presuppongono la concentrazione dei migliori. L’altra giustificazione è – se capisco bene – più interessante. Si suppone che la distribuzione delle risorse a vantaggio dei migliori possa essere fatta meglio a Roma (tra università) che dai singoli atenei (tra i gruppi di ricerca locali). Opinione assai interessante, perché se non altro rovescia luoghi comuni consolidati (dal federalismo all’autonomia). Ma forse, proprio perché così dirompente, andrebbe motivata un po’ più a fondo.

  4. Vittorio Silva

    Quando lei dice "Si dovrebbe perciò favorire la nascita per gemmazione di nuove università, equamente distribuite sul territorio, verso le quali far migrare dalle attuali sedi, solo i “top scientist” del sistema di ricerca pubblico nazionale." intende che dovrebbero nascere per iniziativa dello Stato o per quella dei privati (tipo la Bocconi)? No, perché nel primo caso credo sia solo poco più che una velleità, mentre nel secondo caso si potrebbe anche pensare sia fattibile, ma bisognerebbe capire bene come il sistema fiscale incentivi/disincentivi iniziative simili.

  5. Luciano Munari

    E chi decide quali sono i docenti bravi? La proposta è molto pericolosa, antidemocratica e sostanzialmente presuntuosa.

  6. AG

    Penso che l’analisi sia corretta nel rilevare la relatà degli altri paesi e anche nel senso che per avere alcune università di eccellenza è necessario che il livello delle univeristà sia molto diversificato. Le università di eccellenza non sorgono tuttavia dal nulla per semplice decreto, sono certamente necessarie molte condizioni ed un processo che richiede tempo. Tanto per citare alcuni aspetti, come pensate che possa convivere un’elevata differenza qualitativa con il valore legale dei titoli di studio, con l’uniformità (insieme alla lentezza e inaffidabilità) del sistema di reclutamento, con l’appiattimento delle retribuzioni, e così via?

  7. Zannarini

    L’idea nella sua eleganza pare la risoluzione del nodo gordiano; sarebbe da valutare il costo di realizzazione di nuove strutture, non tanto come edifici civili, quanto i laboratori veri e propri. Inoltre, occorre valutare che non solo il corpo docente opporrà resistenza a tali cambiamenti, ma l’intero mondo che vive (spesso in nero) attorno alle grandi università italiane e condiziona fortemente lo sviluppo urbanistico delle stesse città.

  8. morselli elio

    Sembra di leggere un capitolo del libro dei sogni. Oramai la nostra università, con le immissioni in massa di professori e ricercatori avvenute negli ultimi decenni, e quelle che si preannunciano, è strutturalmente lesionata. Anche il numero delle università si è moltiplicato esponenzialmente. Vogliamo crearne delle altre? E con quali criteri valutare il merito dei docenti? Si è sicuri che l’impact factor sia un criterio razionale? E il valore delle pubblicazioni può essere misurato in base al numero delle pagine stampate, o meglio ancora, a peso, in etti e chilogrammi?

  9. alberto pelissier

    Quel che viene in mente dalla lettura dei temi "Scuola e Università" (o da quel che si sente dai media) è cercare di produrre alcune sedi (4 o 5 in tutto il territorio nazionale) come la Normale di Pisa in cui, appunto, ci siano insegnanti di pregio e studenti meritevoli, altrimenti costringeremo ragazzi fortemente motivati (e con genitori ad alto reddito) a frequentare università straniere perché le nostre non forniranno più garanzie di preparazione adeguata (inutile dire che il Politecnico di Torino o Milano o la Luiss sono migliori di altre in Italia, se confrontate con eccellenze straniere spariscono, la pratica dei "crediti" sta portando la nostra Università al ridicolo e allo sfascio.

  10. Mario Milani

    L’idea proposta mi sembra buona ma bisognerebbe approfondire i problemi nel concreto: 1. ancora non esiste alcun criterio di valutazione utilizzato per l’assunzione del personale, per gli scatti di carriera, per la distribuzione dei fondi e per licenziare i fannulloni. Di fatto tutte le decisioni sono in mano una sorta di consorteria pseudomafiosa in cui le conoscenze dirette contano piu di ogni cosa. Basta pensare ai metodi di reclutamento del personale. 2. Infrastrutture: invito chiunque si trovi a Milano a venire a dare un’occhiata al dipartimento di biologia di citta studi, più che una sede universitaria pare un garage. E’ il posto peggiore che ho visitato fino ad ora in ambito scientifico, chiaramente frutto di interesse dei palazzinari piuttosto che di quello dei ricercatori. Morale, le infrastrutture non sono un problema secondario. 3. Si dovrebbe introdurre, tra le altre cose, un metodo di finanziamento delle università legato alla qualità didattica e alla produttività scientifica. In questo modo ci sarebbe un incentivo ad assumere veramente i migliori (che devono rimanere tali nel tempo) altrimenti niente soldi e licenziamento.

  11. Giovanni Scotto

    A chi non piacerebbe lavorare o imparare in un’università in cui i docenti sono di altissima qualità? La domanda pertinente però è: varrebbe la pena investire miliardi per strutture nuovissime in cui concentrare i docenti più dinamici? Nel testo si parla più volte di competitività: ma è sbagliato confondere la competitività di un ateneo per attrarre studenti dal mondo e il buon funzionamento dell’economia e società italiana. Chi propone piani per salvare l’università italiana potrebbe almeno partire da un’analisi di quelle che in Italia sono (o sono considerate) realtà di punta: Istituto Europeo, Scuola Normale, le tradizionali private (Bocconi, LUISS). Quanto costano, cosa portano? E poi magari un’analisi dei risultati e del rapporto costi/benefici dell’unico progetto proprio del tipo descritto dall’autore realizzato negli ultimi dieci anni: l’IIT di Genova (chissà perché sparito dalle cronache). Se facessimo migrare i docenti più dinamici in "centri di eccellenza" il sistema universitario italiano farebbe la fine di quello ferroviario: una rete limitata e costosissima di treni confortevoli e veloci, e il resto abbandonato al degrado e all’invecchiamento. A chi serve?

  12. frix

    L’ultima volta che ho sentito parlare di creazione del superuomo (o della superuniversità) è stato intorno al 1937-40, anzi no, ogni tanto lo sento ancora dire ad alcuni ordinari di grido, quelli che pensano di essere migliori degli altri.

  13. Marcello Romagnoli

    Costruire nuove università dove traslocare i migliori non mi sembra una via percorribile. Due ragioni su tutte: anche se i costi possono essere bassi (?) in tempo di vacche magre sono sempre troppi; occorre stabilire prima come si scelgono i migliori (anche qui qualche dubbio mi assale). Sui dati di produttività scientifica (che non è il solo parametro su cui misurare l’efficienza di una università, ma occorre anche la qualità della didattica e la capacità di interazione con il territorio), ho letto studi che ci collocano in sesta posizione nel rapporto pubblicazioni/soldi spesi per la ricerca (un punto di meditazione). Perchè allora non pensare a un sistema di valutazione oggettivo di questi tre parametri che determini azioni premiali o punitive forti sui docenti/ricercatori? Un sistema semplice, trasparente e oggettivo che aumenti o diminuisca gli stipendi e le risorse? In breve tempo i migliori passerebbero alla guida degli atenei e i peggiori avrebbero sempre meno peso indipendentemente dalla loro qualifica.

  14. Alberto Rotondi

    Invece che moltiplicare ulteriormente le sedi, basterebbe depurare le università dalla zavorra e favorire, con nuove norme, l’emergere dell’eccellenza, che è molto più diffusa e distribuita di quanto non si creda. Ma quali norme? Ma semplicemente quelle in vigore da molti anni all’estero: 1) legare il potere accademico, lo stipendio, i finanziamenti in fondi e nuovi posti alla qualità dei risultati ottenuti dal docente o ricercatore; 2) dare autonomia nelle assunzioni ai dipartimenti, eliminando i concorsi e assumendo per cooptazione, almeno ai livelli più bassi (giovani ricercatori); 3) disincentivare in modo drastico (o proibire se le leggi lo permettono) la permanenza del ricercatore nelle stessa sede in caso di promozione e vincita di un nuovo posto; 4) riservare un numero di posti a bandi internazionali per studiosi stranieri di chiara fama. Quasi nulla di tutto questo c’è nella riforma Gelmini. Basterebbero queste norme ed una chiara volontà di salvare, migliorare e finanziare il sistema pubblico. Ci sono migliaia di bravi ricercatori, in Italia e all’estero, in attesa di queste semplici norme. Alberto Rotondi- Professore di Fisica Università di Pavia

  15. giuseppe

    Ottima idea ma, come si può constatare anche da molti dei commenti all’articolo, impossibile da realizzare. In Italia ormai tutti parlano di merito, ma nessuno in realtà vuole una valorizzazione del merito perchè porterebbe a differenziare (mansioni, status, trattamento economico, sanzioni) e questo è considerato unfair. E poi le infrastrutture costano e poi l’Italia è una e indivisibile e poi i privati sono opportunisti e poi piove…governo ladro; l’importante è che siamo tutti uguali. Alla fine sono studiosi eccellenti solo quelli che tra loro si dicono che sono eccellenti; e sei poi questi non vengono chiamati nell’università eccellente? Come fanno a scrivere sui giornali che loro sono studiosi eccellenti.

  16. SC

    La verità è che chi deve prendere le decisioni (cioè la politica) o è incapace (buona fede) o non ha la volontà di farlo (cattiva fede). Probabilmente ambedue le cose. In Francia il sistema delle Grandes Ecoles funziona alla grande, è meritocratico e soprattutto seleziona. Il compito dell’università è quello di selezionare, se il voto medio dei laureati italiani è 108, non ci vogliono delle lauree in statistiche per darsi una risposta…

  17. Domenico

    Parlo da semplice studente magistrale presso l’università di Salerno e propongo un paio di domande all’autore… La sua idea potrà anche essere fantastica per i capacissimi (o fortunati) studenti che si ritroverebbero a studiare nella 10-12 università di serie A… Ma l’altra miriade di studenti che, volenti o nolenti, dovranno impegnarsi nelle università di serie C rimanenti cosa dovrebbero fare? So benissimo che attualmente le nostre università sono mediocri, ma la soluzione è realmente la creazione di grandi stelle del firmamento universitario mondiale a scapito delle università discarica? Inoltre queste università sarebbero pubbliche o private? E, nel primo caso, come individuare il merito degli studenti? Con i test inutili della Gelmini? Oppure, ancora peggio, tramite i voti delle scuole superiori che, a mio avviso, sono sempre meno legati alla realtà (soprattutto nel sud italia come spesso rilevato anche in questo sito)? Grazie Mille per l’attenzione e ancora complimenti per il sito.

  18. Dario Quintavalle

    L’idea stessa di università di serie A è equivoca. L’università dovrebbe di per sè essere un istituto di eccellenza, non un superliceo capace di dare solo una infarinatura teorica. E poi, l’intero discorso è autoreferenziale: la bontà dei docenti si misura solo dalle pubblicazioni, cioè dal giudizio che di loro danno altri accademici. E gli studenti, trattati come fatto eventuale? Non importa cosa imparano, che lavoro trovano, se rimangono disoccupati, se la loro formazione ha applicazioni pratiche? Io sono laureato in giurisprudenza, e trovo allucinante che durante tutto il corso di studi non si rediga un parere legale, non si entri in un’aula di tribunale; nemmeno un piccolo ricorso contro una multa si impara a fare all’università! Ha senso studiare le cose solo in teoria per consentire ai signori professori di macinare "pubblicazioni"? E perchè questa università autoreferenziale ce la dovremmo pagare noi contribuenti?

  19. maurizio canepa

    La proposta, in apparenza di ambiente ultra liberista, richiederebbe per la sua attuazione di un governo di stampo autoritario (ma noi non abbiamo Napoleone, abbiamo Berlusconi e Tremonti). Ma perché questa ossessione per le classifiche, peraltro stilate da anglosassoni con criteri puramente anglosassoni? Davvero si pensa che in pochi anni si possa costruire a tavolino qualcosa del tipo Cambridge od Oxford? Un’illusione da gosplan. La storia italiana è piena di cattedrali nel deserto. Diversa, più praticabile e democratica sarebbe la proposta di istituire altre (poche!) scuole superiori "vere" (tipo Normale, per intenderci) per gli studenti più dotati. Però, e so di andare controcorrente in questo sito, a me sembra necessario pensare seriamente anche a quegli studenti (meritevoli) che non diventeranno mai top scientists, top manager, top model, top SOB, In Italia quello che manca veramente è una solida base di persone mediocri, nel senso "aureo" del termine, capaci di mandare avanti onestamente e con buoni risultati, aziende, ospedali, scuole, ferrovie, uffici. Sono queste persone che ovunque hanno costituito e costituiscono la spina dorsale di uno stato efficiente.

  20. AM

    L’idea mi sembra inattuabile in Italia per molte ragioni. Si basa innanzitutto sulla meritocrazia, ma la meritocrazia (che implica necessariamente selezione) in Italia è considerata antidemocratica e antisociale (nella Pubblica amministrazione, nelle imprese, nella scuola). Il risultato è che di fatto poi nella vita la selezione avviene comunque e avviene in base a vari criteri spesso con effetti non positivi per il progresso del paese. La carriera, oltre che dal merito, viene infatti favorita dalla posizione sociale della famiglia, dalla politica, dalle corporazioni, dalla fortuna, dalla salute, dalla spregiudicatezza, ecc.

  21. Giuseppe Esposito

    Non riusciamo proprio a guarire dalla tentazione di immaginare riforme grandiose, epocali, rivoluzionarie e infattibili. Purtroppo l’Università italiana resiste al cambiamento, e gli interventi di ampio respiro devono fare i conti con due inconvenienti: tempi di attuazione molto lunghi (questa proposta non fa eccezione) e facilità con cui in itinere possono essere introdotte trasformazioni di portata apparentemente limitata, ma in realtà in grado di stravolgere tutto (esemplari i peggioramenti introdotti dal Parlamento al testo, peraltro già molto carente nella sua forma originaria, della riforma Gelmini). Forse sarebbe meglio concentrarsi su misure circoscritte, di applicabilità immediata e di effetti rapidamente verificabili.

  22. Sergio

    L’Università non è (almeno, non dovrebbe essere) una scuola, come molti pensano, ma dovrebbe essere lo strumento per selezionare i migliori studenti affinché possano diventare i migliori professori, i migliori ricercatori e i migliori dirigenti del futuro. E’ diventata invece "di massa": ormai vi accede chiunque , vi si laurea quasi chiunque con il risultato che abbiamo decine di migliaia di "finti" laureati che lottano l’uno con l’altro per pochi posti da 1000 euro al mese (se va bene). Bisognerebbe finirla col pensare che l’Università sia un diritto: all’università dovrebbero accedere pochissime persone e dovrebbero arrivare a laurearsi ancora meno. Invece abbiamo un numero spaventoso di atenei, un numero spaventoso di docenti ordinari e associati e un numero enorme di studenti fuori corso.

  23. Angelo

    Ma di cosa si sta parlando!! di università di serie A, B, C? Al solo pensiero preferisco tenermi le università italiane pubbliche, considerate "mediocri" e poi, perché mediocri? Perché forse le si considerano funzionali solo al sistema economico e all’ economia? Le università sono centri di cultura e di sapere e non devono insegnare a saper fare, ma solo a saper essere. Dobbiamo cominciare a fare proposte concrete e a convincerci che il solo bene per le università e non solo, per il sistema scolastico in generale, sono gli investimenti continui nella cultura e nella innovazione. Solo in una società con un alto tasso di scolarizzazione si può cominciare a parlare di meritocrazia e forse, fra mille anni, fantasticare idee semi vuote del genere….

  24. Bruno Ferrari

    Proposta ridicola di chi non ha il coraggio di parlare apertamente di "scuola di classe", esattamente come quella che domina nei Paesi anglosassoni. Se tutto viene finalizzato ai fabbisogni di produttività e competitività del sistema economico (ma già qui molti economisti hanno perso la strada: produttività e competitività rispetto a che cosa?), allora parlare di università è perfettamente inutile. Meglio parlare appunto di pochi e selezionati centri di formazione, dove accedono i migliori. Chi sono i migliori? I soliti. (V. i fallimenti dei borsisti francesi nelle Grandes Ecoles). E sono più bravi rispetto a che? La massa, anche se stratificata ai vari livelli, deve sapere lavorare bene e in silenzio. E’ un perfetto sistema di oppressione (Simone Weil). Ma perché persone colte e preparate come voi, che si sentono degli scienziati e che io leggo per imparare qualcosa, sono incapaci di liberare il proprio pensiero dalle banalità degli studi attuali di economia?

  25. Sergio

    Giusto per dare due numeri. Dal sito di statistiche del MIUR per l’anno 2009: si sono laureate 292810 persone (!) il cui voto è stato: 110 e lode: circa 60000 tra 106 e 110: circa 60000 tra 101 e 105: circa 55000 tra 91 e 100: circa 78000 tra 66 e 90: circa 30000 e questa sarebbe una selezione dei migliori ? O forse è un’incredibile regalìa di voti ?

  26. Alberto

    Egregio Abramo, purtroppo in It vive ancora un sistema di assunzione di professori e ricercatori basato sui concorsi pubblici. Le università non sono finanziate in base ai risultati della ricerca ma in base a criteri antidiluviani (numero studenti ecc…….). Se le uni, fossero valutate e ricevessero i finanziamenti su base quinquennale e sulla base delle pubblicazioni e della ricerca svolta,e fossero libere di assumeroe chi gli paresse forse avremmo più risultati e meno baronie. Questo non è altro che il già sperimentato sistema inglese. Creare delle università pubbliche in cui vengono raccolti i migliori cervelli (ma poi chi la farebbe la selezione, e lei si sente davvero uno di questi?) Sarebbe solo l’ennesimo spreco di denaro pubblico. Si ricordi poi che i migliori sono anche quelli che trascinano i meno bravi. Questo nelle aziende private come nelle pubbliche i migliori manager valorizzano le competenze di tutto il personale se vogliono avere successo.

  27. Giulio

    L’idea esposta da Abramo può anche avere una sua giustificazione teorica, ma mi sembra complicata quanto inapplicabile in Italia. La sola via é la distribuzione di sovvenzioni per la ricerca a singoli gruppi e/o individui da parte di un’agenzia indipendente, sulla base di progetti dettagliati e di un curriculum con pubblcazioni su riviste di prim’ordine. Questa soluzione, americana però applicata con successo in paesi europei, come la Svizzera, porterà inevitabilmente alla formazione di Univrsità o di Facoltà più apprezzate di altre creando cosi una dinamica positiva.

  28. Mauro Degli Esposti

    Leggo ora con interesse quest’articolo, che fa una proposta ‘outrageous’, ma che va nella direzione che alcuni di noi accademici all’estero stiamo prendendo, in termini propositivi. Quella di creare un’università di qualità nuova. L’iniziativa di censire gli scienziati top intrapresa dalla Via-academy (http://www.topitalianscientists.org/Top_italian_scientists_VIA-Academy.aspx), che ha avuto pure eco qui su lavoce, ha dimostrato come sia possibile individuare le persone di maggior impatto in quasi tutti i settori dello scibile, non solo nelle ‘hard sciences’. Dagli economisti ai linguisti, oltreché agli ingegneri e psicologi. Benché molte di queste eccellenze siano disperse in tutto il mondo, si son riscontrati dei ‘clusters’ in certe universita’ ed istituti di ricerca, per cui si può produrre un ranking aggiornato delle stesse università ed istituti sulla base del numero dei loro scienziati top. Speriamo di poter mostrare questi dati ai lettori de La Voce.

  29. Agostino

    Le eccellenze maturano in contesti positivi. Le università siano strutturate per formare bravi medici, ingegneri, agronomi, letterati, perchè la nazione ha bisogno di bravi medici, bravi ingegneri e bravi insegnanti. L’università deve poi individuare le eccellenze e curarle come fragili piante da accudire e portare a frutto. Queste eccellenze saranno le nostre punte di diamante. Ma prima gli Istituti Superiori dove si devono formare bravi ragionieri, bravi geometri, bravi periti devono ritornare a dare una vera formazione, rivedendo programmi e materie (ad esempio portare a 6 anni i corsi e introdurre Analisi 1 in tutti gli indirizzi). Ma prima ancora bisogna risistemare la scuola di base. Insomma, toglieteci dai cabasisi la Gelmini (che alla discussione della tesi ha fatto scena muta.. ed ora è ministro..), rimettete le vie preferenziali usate fino al 1969/70 in virtù delle quali un ragioniere non si sarebbe mai sognato di fare medicina (la vuole fare? Per diritto allo studio? Allora superi un esame di ammissione). Insomma, meno filosofia e meno parole, più senso pratico ed elevazione generale della qualità della scuola e della università. I Rubbia verran da soli.

  30. Giovanni

    Qualche anno fa l’allora ministro Moratti propose la creazione a Genova di qualcosa di simile al MIT. Da allora non se ne è più parlato molto. Che fine ha fatto?

  31. marco polin

    Un articolo molto interessante. Vorrei aggiungere un paio di idee/commenti: 1) si potrebbe anche pensare, almeno in un primo momento, ad un sistema tipo quello di EMBL a Heidelberg, in cui *nessuno* puo’ rimanere piu’ a lungo di un numero precisato di anni (penso max. 10), inclusi i capi dei laboratori. In compenso ricevono un sacco di soldi e il vantaggio di essere esenti da tasse in toto -formalmente e’ territorio internazionale-. 2) In Italia ci sono delle realta’ eccellenti. Ad esempio nell’ambito di fisica teorica la SISSA/ICTP a Trieste e’ ben nota in tutto il mondo. Magari si potrebbe iniziare da un istituto di ricerca/studi avanzati; 3) avere come obbiettivo una dozzina di istituti eccellenti penso sia troppo. Penso che se si iniziasse a pensare di aprirne uno o al massimo due sarebbe meglio. Comunque mi fa piacere che si inizi a parlare di questi problemi in Italia, perche’ il paese avrebbe grandi potenzialita’ per attrarre scienziati dall’estero.

  32. marco polin

    …me lo domando pure io!

  33. GA

    Costruiamo nuove università riservate ai bravi scienziati. Ma, per riconoscere scienziati e studenti non bravi, occorrerà in primo luogo un segno di riconoscimento, ad esempio un asterisco verde cucito sulla giacca. Poi si dovrà pensare a costruire scuole e università per i non bravi, intorno alle quali occorre sistemare dei muri alti alti alti perché i nonbravi non possano uscire a contaminare i bravi. E, per maggior sicurezza, filo spinato sopra e ai lati del muro. Ecc.

  34. Angelica Pons

    Condivido al 300% quanto affermato dal dott. Abramo. Potrei raccontare di molti esempi di ricercatori di cui conosco le ottime capacità e che sopravvivono in Italia oppure si sono semplicemente trasferiti in Nord Europa o in America, così come potrei citare centinaia di migliaia di casi di non meritocrazia… ma non lo farò, perché sono sotto gli occhi di tutti. Solo non arrendiamoci mai!

  35. silvestro gambi

    Problema 1: nessuna regione accetterà di non avere un’università di eccellenza. Problema 2: non è che per caso continueremo ad accollarci i costi delle 90 università di serie B e delle restanti lettere dell’alfabeto? Tra gli altri problemi uno solo: non è stato ancora individuato il vaccino contro il clientelismo e il nepotismo, mentre, malgrado i divieti, sulla clonazione rimaniamo all’avanguardia.

  36. bob

    Il degrado politico che accompagna questo Paese impedirà qualsiasi riforma seria. La cosa positiva è che studenti da Torino a Palermo parlino lo stesso linguaggio e fanno la stessa protesta. Il concetto di Stato liberale è un concetto alto, per il mio modo di pensare da imprenditore. Einaudi, Olivetti possono dare il senso ad un pensiero liberale. Oggi metà Paese è in mano ai localismi della Lega (il degrado culturale peggiore e mai visto in questo Paese), per cui fanno bene e danno speranza alle persone come me, questi studenti che protestano. Le rivoluzioni e i cambiamenti sono sempre passati per le Università, anche i peggiori hanno portato qualcosa di positivo. I masaniello portano sempre miseria e povertà.

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