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La sostenibilità del nuovo patto

Il percorso di riduzione del debito pubblico delineato dal nuovo Patto di stabilità implica dinamiche delle entrate e delle spese credibili? Per l’Italia tutto sommato sì, almeno se l’economia riprenderà a crescere. Ma se si guarda all’insieme delle economie avanzate, c’è il rischio che la generalizzazione di politiche di bilancio fortemente restrittive produca una grave e persistente deflazione. Perché allora non esplorare strade alternative come quella di trasferire a organismi internazionali quote del debito sovrano dei vari paesi?

 

La riforma del Patto di stabilità proposto dalla Commissione europea alla fine di settembre può essere valutata da vari punti di vista. Un possibile approccio, tutto interno alla finanza pubblica, è chiedersi se il percorso di riduzione del debito pubblico delineato dal nuovo Patto implica dinamiche delle entrate e delle spese credibili alla luce dell’’esperienza degli ultimi decenni.

L’ITALIA E IL NUOVO PATTO

Proviamo ad applicare questo approccio al caso italiano. La regola secondo cui il rapporto tra debito pubblico e Pil dovrà ridursi ogni anno in misura pari a un ventesimo della differenza tra il valore effettivo e la soglia-obiettivo del 60 per cento implica per l’’Italia una discesa graduale del rapporto che, partendo da un livello di 115,2 nel 2013 (prendendo per buone le stime ufficiali presentate dal governo nella Decisione di finanza pubblica, Dfp), dovrebbe raggiungere l’’80 per cento nel 2033. (1) Messa così, c’’è poco da dire: difficile definire come draconiano un programma di rientro dal debito che richiede venti anni per scendere all’’80 per cento. L’’esperienza di altri paesi mostra, poi, come un tale programma sia ampiamente realizzabile. Solo per fare uno tra i vari possibili esempi, il Belgio in dieci anni, dal 1997 al 2007, riuscì a ridurre il debito da 122 a 84.
Ma quali sono le implicazioni sull’’avanzo primario e sulla dinamica di spese e entrate? Naturalmente dipende dalle ipotesi che si fanno su crescita del Pil e tasso di interesse. La Dfp per il 2012-2013 prevede un tasso di crescita reale del Pil del 2 per cento e una differenza tra tasso di interesse implicito del debito pubblico e tasso di crescita del Pil pari a 0,37 (maggiore è questa differenza, peggiori sono i riflessi per il rapporto debito/Pil). Se un tale scenario si realizzasse e si mantenesse nei successivi vent’’anni, occorrerebbe, per rispettare il nuovo Patto, realizzare un avanzo primario del 3,3 per cento nel 2014 (partendo dal 2,6 per cento programmato dalla Dfp per il 2013) che successivamente potrebbe lentamente diminuire fino al 2 per cento nel 2024 e all’’1,3 per cento nel 2033 (la linea più bassa nella figura 1). Alla luce dell’’esperienza recente sembrano obiettivi non irrealizzabili anche se impegnativi: nel decennio 1993-2002 l’’avanzo primario si è sempre mantenuto ben al di sopra del 2 per cento, ma nel periodo 2003-2010 solo in due anni su otto (figura 2). Se poi si considera che il percorso di rientro sopra delineato è coerente con un disavanzo totale (sempre assumendo che il costo del servizio del debito resti costante) dell’’1,5-2 per cento del Pil, che rispetterebbe quindi la regola del 3 per cento, ma non quella del pareggio in media sul ciclo previsto dal vecchio Patto, si può concludere che la riforma del Patto non sposta, nella sostanza, l’’asticella che l’’Italia deve superare.
Il quadro, tuttavia, cambia radicalmente se si adottano ipotesi meno ottimistiche sull’’economia. Se il Pil reale crescesse dell’’1% l’anno e la differenza tra tasso di interesse e tasso di crescita fosse pari a 1,37 (maggiore di un punto rispetto a quanto ipotizzato in precedenza), valori più in linea con l’’esperienza degli anni 2000, il saldo primario, per rispettare il nuovo Patto di stabilità, dovrebbe salire al 4,4 per cento nel 2014 e scendere gradualmente raggiungendo il 3 per cento solo nel 2023 e il 2,1 nel 2033 (la linea più alta nella Figura 1). Un sentiero molto più arduo da percorrere, se lo si valuta sulla base di quanto siamo stati capaci di fare negli ultimi vent’’anni (Figura 2). Ma, di nuovo,  la difficoltà non dipende tanto dalla riforma del Patto quanto dall’’andamento dell’’economia.

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Figura 1

Figura 2

NON SCENDE LA PRESSIONE FISCALE

È interessante chiedersi se il percorso di rientro sia compatibile con una qualche riduzione della pressione fiscale. Dipende naturalmente dalla dinamica delle spese. Per dare un’’idea, nel periodo 1996-2009 la spesa corrente primaria è cresciuta, in termini reali, a un tasso medio del 2 per cento l’anno. Negli ultimi quarant’’anni, la spesa si è ridotta in termini reali solo nel 1994 e 1995. La Dfp, assumendo la piena efficacia della manovra realizzata con il decreto legge di fine maggio, prevede una significativa inversione di tendenza: una diminuzione in termini reali nel 2011 e 2012 (-1,3 per cento e -0,5 per cento) e un lieve aumento nel 2013 (+0,6 per cento). Si possono immaginare tre scenari diversi: uno che mantiene le tendenze (stimate) del 2012-13, con una spesa costante in termini reali; uno scenario sfavorevole, per cui dal 2014 la spesa ritorna a crescere al 2 per cento reale l’anno; uno scenario intermedio con la spesa che cresce all’’1 per cento reale l’’anno. Se adottiamo l’’ipotesi di crescita economica della Dfp – crescita reale del Pil al 2 per cento – nello scenario peggiore la quota della spesa primaria sul Pil rimarrebbe costante al livello del 2013 (43,8 per cento) e tutto l’’onere dell’’aggiustamento graverebbe sulle entrate, mentre negli altri due scenari la quota della spesa diminuirebbe. La tabella 1 mostra l’’andamento delle entrate (complessive) sul Pil nei tre scenari, partendo dal livello del 2013, pari a 46,4 per cento. Come si vede, se la spesa dovesse rimanere sul trend di crescita di lungo periodo, non vi sarebbe alcuno spazio, nei prossimi dieci anni, per ridurre le entrate, mentre margini significativi si aprirebbero qualora si riuscisse a mantenere costante in termini reali la spesa. Cosa è realistico attendersi? Si può immaginare, seguendo la ricetta proposta dal Fmi, una politica della spesa di grande rigore che si dia l’’obiettivo di mantenere costante in termini di quota del Pil la spesa per pensioni e sanità (resistendo quindi alla pressione che su queste voci produrrà nei prossimi anni l’’invecchiamento della popolazione) e costante in termini reali la spesa restante (costituita in buona parte dagli stipendi dei pubblici dipendenti). Data l’’attuale composizione della nostra spesa (dove pensioni e sanità pesano per circa metà del totale), ciò significherebbe grosso modo una crescita reale dell’’1 per cento l’’anno, il nostro scenario intermedio, dove qualche spazio di riduzione delle entrate vi sarebbe anche se solo nel medio periodo.
Anche questi modesti margini sparirebbero, tuttavia, se la crescita economica fosse minore (crescita reale del Pil all’’1% e differenza tra interesse e crescita a 1,37): contenendo all’’1% reale la dinamica della spesa, la pressione fiscale potrebbe scendere al di sotto del livello 2013 solo a partire dal 2024. Soltanto un congelamento in termini reali di tutta la spesa primaria (che nelle ipotesi date corrisponderebbe a una diminuzione della quota spesa/ Pil di 4,5 punti in dieci anni) consentirebbe, comunque non subito, di ridurre le entrate. Il dettaglio è nella Tabella 2.
Insomma il messaggio è quello in realtà già noto: se l’’economia italiana riprende a crescere (a un tasso di almeno il 2 per cento l’’anno) il compito è molto impegnativo ma non impossibile, se invece l’’economia ritornasse sul sentiero di quasi stagnazione del periodo 2000-2007 (prima della crisi), le prospettive sarebbero davvero preoccupanti.

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Tabella 1 – Quota delle entrate sul Pil al variare della dinamica della spesa
(crescita reale del Pil 2%, r-g=0,37)

Crescita reale spesa primaria Entrate/Pil
2013 2014 2017 2020
2% 46,4 47,1 46,5 46,2
1% 46,4 46,7 44,9 43,3
0% 46,4 46,2 43,2 40,6

 

Tabella 2 – Quota delle entrate sul Pil al variare della dinamica della spesa (crescita reale del Pil 1%, r-g=1,37)

Crescita reale spesa primaria Entrate/Pil
2013 2014 2017 2020
2% 46,4 48,2 48,9 49,7
1% 46,4 47,8 47,2 46,7
0% 46,4 47,3 45,5 43,8

 

RISCHIO DEFLAZIONE

Questo è quanto si può dire assumendo un punto di vista tutto interno alla finanza pubblica, che trascura completamente gli effetti della politica fiscale sulla domanda e sull’’economia. Un punto di vista che peraltro è l’’unico sensato se il discorso riguarda un singolo paese come l’’Italia. Non è, tuttavia, quello migliore se si guarda all’’insieme delle economie avanzate che, secondo questa impostazione, dovrebbero tutte insieme eliminare l’’eccesso di debito pubblico formando consistenti avanzi primari di bilancio. È un’’ottica che sottovaluta il rischio che la generalizzazione nei prossimi dieci anni di politiche di bilancio fortemente restrittive produca una grave e persistente deflazione. A dire il vero, è un’’assunzione di rischio che sembra consapevole, almeno a giudicare dall’’ultimo World Economic Outlook del Fmi, dove un intero capitolo è dedicato a illustrare come politiche di consolidamento fiscale abbiano effetti restrittivi, almeno nel breve periodo (ma nel lungo periodo, saremo) e questo tanto più quando i tassi di interesse sono, come adesso, vicini a zero e fare affidamento sull’’effetto mitigante di una svalutazione del cambio è semplicemente precluso dal numero di paesi coinvolti. Varrebbe, invece, davvero la pena di esplorare strade alternative come quelle indicate nelle proposte di trasferire a organismi internazionali quote del debito sovrano dei vari paesi, scorporandole dai bilanci nazionali e riconoscendo così la loro natura di debiti collettivi. (2)

(1) In realtà, non sappiamo quando si applicherà il nuovo Patto. Ipotizziamo che, poiché i Piani dei singoli paesi per il 2011-2013 sono stati già approvati dalla Commissione, si inizi dal 2014
(2) P. Savona, Il Messaggero 19 maggio 2010; V. Visco, Corriere della sera, 13 luglio 2010.

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11 commenti

  1. Piero

    Che il Pil italiano crescerà del 2% lo trovo un pò utopistico. I tagli alla spesa ridurranno i consumi, le imprese si stanno delocalizzando e questo causa una perdita permanente di produzione che non rientrerà più (non solo l’Est, ma anche la Svizzera che finanzia lo stato con i proventi derivanti dalla sua segretata finanza) ed il costo del servizio del debito prima o poi riesploderà dai livelli ipercompressi che stiamo sperimentando col quantitative easing americano/giapponese se non altro per il riemergere dei default (curano il malato da debiti con futuri nuovi virus monetari). La competitività extra-ue diminuirà anche a causa della guerra valutaria. Non credo proprio che riusciremo a centrare questo obiettivo… è per questo che in pubblico la Germania ci ha imposto il nuovo patto. E’ per questo che nel segreto la Germania stà già pensando come fare a sganciarsi in emergenza dall’euro insieme agli odiati cugini di Francia, anche se i forti legami con le altre economie ed i titoli greci che hanno in pancia le loro banche per ora li frenano.

  2. marco

    Due osservazioni sulla proposta conclusiva. Un debito a livello UE significa una sua gestione a livello UE, chi se ne occupa? Non il Consiglio perchè così i capi di governo possono sempre farsi schermo dell’abusato "l’ha imposto l’Europa" di fronete agli elettori. La commissione sarebbe uno strumento migliore, a patto che diventi pienamente responsabile di fronte agli elettori. Questo presuppone un passo decisivo verso un’unione politica. Seconda osservazione scaricare un po’ di debito a livello più alto può essere uno stimolo ad accumularne di nuovo , tanto è diluito. Insomma, un modo per rinviare il problema nel tempo. Aggravandolo. Lo so che suona male, ma non sarebbe il caso (non solo per i debiti nazionali) di iniziare a considerare l’opzione ristrutturazione?

  3. Nicolò

    La Germania non si staccherà facilmente dai paesi dell’Europa meridionale, semplicemente perchè ha un forte vantaggio nel restare nell’euro. Se l’euro non fosse sceso notevolemente quest’anno a causa dei timori sui PIIGS, le esportazioni su cui la Germania fa molto affidamento per crescere sarebbero state molto minori, sia verso l’esterno dell’area euro, che verso l’interno. Se esistesse ancora il marco tedesco, questo avrebbe probabilemente seguito il suo percorso degli anni 60, 70 e 90 di costante apprezzamento, annullando i guadagni di competitività ottenuti dalle imprese tedesche. Le esportazioni nette ne avrebbero risentito. La Germania con il caso Grecia ha bluffato: ha fatto finta di fare il duro per favorire il trend ribassista dell’euro, a tutto suo (e nostro) vantaggio.

  4. luigi zoppoli

    L’analisi proposta dimostra che il tasso di crescita è l’elemento cruciale che consente rientro dal debito e insieme alla crescita il cotenimento della spesa come elemento per ricavare risorse. Penso che, intervenendo con appropriate riforme, l’Italia possa esprimere un buon potenziale di crescita attualmente inespressa. Più difficilmente percorribile l’ipotesi di spostamento di quote di debito ad organismi sovranazionali. I paesi in condizioni nettamente migliori, quale interesse avrebbero rispetto a una siffatta ipotesi?

  5. Enrico Motta

    Quella di rifilare parte dei debiti degli stati sovrani su altri conti mi sembra una cosa assurda, un modo per rinviare il problema nel migliore dei casi. Se la qualità delle soluzioni è questa, andiamo tranquilli verso la bancarotta e non pensiamoci più. Ci penseremo dopo. Trovo invece interessante la proposta di Visco di tassare le transazioni finanziarie, che potrebbe esssere applicata da tutti gli stati, dato che nessuno sfugge al problema, ma senza parcheggiare il debito chissà dove e per quanto tempo.

  6. Roberto A

    Finalmente qualcuno che ragiona.. Io avevo piu’ o meno dimostrato che non é un’impresa impossibile e se la si sapesse gestire davvero bene, neanche cosi’ tragica. http://www.lavoce.info/commenti/012-281001927.html http://www.lavoce.info/commenti/281001927.html

  7. Marcello Novelli

    Io riprendo una vecchia proposta che continuo a fare da qualche anno e che, non essendo io un economista di professione, potrebbe essere infattibile, ma credo che, almeno nel principio, abbia una sua logica. La soluzione e’ semplicissima: La BCE stampa 10.000 Euro (o venti, questo e’ solo un parametro da tarare) a testa per ogni cittadino dell’Unione Europea e glieli da’. Fino ad oggi la politica espansiva ha fatto piovere soldi dall’altro, sperando che arrivassero in basso, questa proposta in vece mette i soldi direttamente nelle mani dei cittadini che possono utilizzarli per ripianare il loro debito, per fare invenstimenti o per soddisfare qualche esigenza, non importa. Cosa ne dite, e’ fattibile?

  8. Alessia

    E se si provasse a impostare un controllo fiscale più assiduo e davvero efficiente sui conti degli imprenditori e gli evasori fiscali, in modo da recuperare qualche entrata in più da utilizzare per coprire il debito?! Più controlli e piu severità nel riscuotere le tasse e le imposte, cosa difficile visto che sono proprio gli stessi governatori a facilitarne l’elusione, ma secondo me sarebbe un buon modo per recuperare entrate monetarie.

  9. Marino

    Per ogni euro stampato la BCE deve emettere bond di pari importo da collocare sul mercato. Altro debito. Eccoci, Argentina… No grazie

  10. Claudio M

    Non sono un economista quindi posso solo portare dei dubbi (confutabili, lo ammetto) sulla proposta di trasferire debiti su società finanziarie internazionali. Il dubbio è: chi ripagherà i debiti di questi enti internazionali? Noi come stati? Allora non siamo al punto di partenza? E se non siamo noi come stato, nessuno altro lo farà perchè non c’è nessun altro (banche private manco ci pensano, non sono pazze). Un buon padre di famiglia, invece di fare debiti, cerca di risparmiare e spendere solo se ha la cassa da spendere. Se vuole fare un investimento, rimane molto conservativo (un basso TIR insomma) e quindi si indebita poco (non esistono investimenti molto redditizi e sicuri al tempo stesso, se non illeciti). E un buon padre di famiglia, se si facesse finanziare per coprire propri debiti saprebbe che diventrerebbe alla mercè del suo secondo creditore e metterebbe a repentaglio la normalità della vita dei suoi cari.

  11. domenico

    Ottima proposta quella di Visco, ma io credo si possa far meglio. Per evitare lo spread dei tassi di interessi sui titoli dei paesi UE e la relativa instabilità finanziaria, ci deve essere un’unica Autorità che emetta titoli pubblici dell’Unione, garantiti da un fondo comune. Ogni stato é chiamato poi a contribuire a tale fondo per una percentuale prestabilità in base al suo rapporto deficit/Pil. Sarebbe un patto di stabilità preventivo e concomitante, automatico e non soggetto ad applicazione postuma e politica. Per evitare i trade off risanamento/deflazione occore decidere semplicemnte di monettizzare una percentuale del debito dei paesi (magari con riferimento al rapporto Defict/Pubblico), convertendo questi titoli in azioni per effetuare investimenti strategici in settori decisi a livello UE. Chi pensa che nell’attuale contesto economico il quantitative easing genera inflazione e non sviluppo è semplicemnte legato a una stupida idelogia e non un economista. In un economia globalizzata e aperta alla concorrenza con l’euro stabile sui mercati internazionali, anzi soggetto a continue rivalutazioni, acquistare titoli pubblici sul mercato primario è una politica saggia e fattibile.

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