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La via cinese alla rivalutazione

Confermando la volontà di lasciare che la propria valuta si apprezzi gradualmente, la Cina ha fissato il tasso di cambio di riferimento di 6,7980 per un dollaro. Con quali conseguenze per la Cina? Guardando a esperienze simili di altri paesi, si può prevedere che non ci sarà un crollo della crescita. Né si avranno cadute della borsa o maggiori rischi di crisi bancarie. Vedremo probabilmente un rallentamento della crescita. Che comunque può essere evitato con opportune misure a sostegno dei consumi delle famiglie. E se saranno soprattutto i beni importati a beneficiarne, si tratterà del contributo cinese al riequilibrio globale.

La Cina ha fissato un nuovo tasso di cambio con il dollaro ed ha annunciato che nel futuro gestirà il renminbi in modo più flessibile nei confronti di un paniere di valute. La decisione avrà conseguenze per l’’economia mondiale, ma soprattutto avrà conseguenze per la Cina.

UN CAMPIONE DI RIVALUTAZIONI

Assumiamo che Pechino consenta ora al renminbi di apprezzarsi: quali saranno gli effetti sull’’economia cinese?
Alcuni temono che possa derivarne una brusca frenata della crescita cinese, con effetti negativi sulle esportazioni e i mercati finanziari. Ricordano il caso dell’’apprezzamento dello yen negli anni Settanta, e poi di nuovo negli anni Ottanta, seguito prima da una brusca frenata della crescita giapponese e poi dal “decennio perduto”. Altri sostengono che questi timori sono esagerati e notano che l’’apprezzamento del renminbi nel 2005-08 ha avuto un impatto minimo sulle esportazioni e la crescita cinese. L’’obiezione è che in quel caso l’’apprezzamento della moneta è stato così limitato per durata e grandezza, il renminbi si è rivalutato sul dollaro solo del 7 per cento l’’anno e anche questo minimo apprezzamento si è fermato dopo tre anni – che non è possibile trarre conclusioni generali da quell’’esperienza. Inoltre, il contesto nel quale si è verificato l’’episodio del 2005 era particolare: l’’economia mondiale era in piena crescita e la stessa economia cinese si trovava in una posizione eccezionalmente forte. Si sarebbe trattato, dunque, di un episodio sui generis.
Sarebbe invece interessante disporre di un campione più ampio di episodi analoghi da cui trarre conclusioni. In questo articolo ci chiediamo che cosa si può dunque imparare da altri casi precedenti sui possibili effetti di un abbandono da parte della Cina del suo attuale regime di tasso cambio, di fatto fisso, in favore di una ripetuta rivalutazione della moneta. È in effetti possibile costruire un campione di altre rivalutazioni, sebbene il data set sia relativamente piccolo.
Abbiamo identificato ventisette esempi nei quali un cambio fisso è stato abbandonato e la moneta rivalutata nell’’anno successivo contro il dollaro oppure contro gli Sdr (i diritti speciali di prelievo dell’’Fmi). Molti di questi esempi sono avvenuti nel periodo vicino alla fine del sistema di Bretton Woods, nei primi anni Settanta, sebbene se ne possano trovare un certo numero di altri negli anni successivi: Guinea Equatoriale nel 1979, Mozambico nel 2004 e Malesia nel 2005. Il tasso medio di rivalutazione nel primo anno non è molto lontano dal 7 per cento medio della Cina nel periodo 2005-2008. (1)
Che cosa ci dicono i dati? Il tasso annuale medio di crescita del Pil rallenta di 1 punto percentuale tra i cinque anni precedenti la rivalutazione e i cinque anni successivi. Poiché i paesi che hanno abbandonato il tasso fisso nei cinque che hanno preceduto il mutamento di politica registravano una crescita più veloce di altri – di 1,5 punti percentuali l’’anno in media, è difficile dire se il rallentamento è una correzione salutare per evitare un surriscaldamento dell’’economia oppure qualcosa di diverso. Un elemento coerente con l’’ipotesi del surriscaldamento è il fatto che questi paesi in quello stesso periodo erano caratterizzati da un’’inflazione più alta. Il loro tasso di inflazione era più alto di circa 5 punti percentuali, una differenza troppo grande per essere spiegata con l’’effetto Balassa-Samelson.
Quello che è importante notare comunque è che non c’’è nessun crollo della crescita. La rivalutazione non condanna l’’economia a un “decennio perduto” di stile giapponese. Più in generale, troviamo scarsa evidenza di danni economici o finanziari come conseguenza della rivalutazione. Non c’’è alcun aumento dell’’incidenza di crisi bancarie o finanziarie. Non c’’è alcuna evidenza di una significativa caduta della borsa. Non c’’è alcuna evidenza di un peggioramento della bilancia di parte corrente. Non c’’è alcuna evidenza di una significativa caduta del tasso di investimento. Così come non si registra alcun effetto su una quantità di altre variabili economiche e finanziarie. Mentre il tasso di crescita delle esportazioni scende dal 9,5 per cento al 5,5 per cento annuo, il tasso di crescita delle importazioni rallenta di circa la stessa misura.

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ATTENZIONE AI CONSUMI DELLE FAMIGLIE

Che cosa spiega allora più direttamente la riduzione del tasso di crescita? Poiché esportazioni e importazioni rallentano nella stessa misura, la risposta non è il contributo delle esportazioni nette. Né si registrano cambi significativi nel tasso di crescita di investimenti e spesa pubblica. Piuttosto, si registra un significativo rallentamento nella crescita dei consumi delle famiglie, sia di beni importati sia di beni prodotti all’’interno del paese (tutto in relazione al loro precedente tasso di crescita, naturalmente). Di nuovo, potrebbe rivelarsi un aggiustamento salutare verso tassi di crescita più sostenibili, che permetta di evitare un surriscaldamento dell’’economia. Ma può anche darsi che il rallentamento avrebbe potuto essere evitato del tutto se il governo avesse aumentato la spesa pubblica oppure avesse preso misure destinate a incoraggiare i consumi delle famiglie, come la liberalizzazione dei mercati finanziari o lo sviluppo di una rete di sicurezza sociale.
Quali sono dunque le conseguenze che la Cina di oggi deve aspettarsi? L’’esperienza di altri paesi offre ben pochi motivi per pensare che una rivalutazione possa avere effetti seriamente negativi per la sua economia. Indica però la possibilità di un rallentamento della crescita. Se le autorità vogliono limitare i rischi di un rallentamento eccessivo, possono mantenere inalterato il livello di spesa pubblica e raddoppiare gli sforzi per favorire la crescita dei consumi privati. Se maggiore spesa interna significa anche maggiore spesa per beni importati, questo sarà il contributo cinese al riequilibrio globale.
(1) Per maggiori dettagli si veda il nostro lavoro “27 Up: The Implications for China of Abandoning its Dollar Peg,” at http://www.econ.berkeley.edu/~eichengr/and http://faculty.haas.berkeley.edu/arose/.

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  1. serpico48

    Mi sembra la classica manovra dei vertici dell’economia cinese che, avendo il controllo di fatto su tutto il sistema bancario della Rpc potranno condizionare il movimento in alto od in basso della valuta Usa obbligando di volta in volta le banche cinesi a vendere od a comperare dollari a secondo delle esigenze della loro economia. L’operazione è già iniziata il giorno dopo la decisione presa dal Governo cinese. Inoltre dobbiamo ricordare che la Cina e le sue banche dispongono di una liquidità straordinaria di dollari e di bond Usa per cui può facilmente controllare, come detto, l’andamento della moneta americana sui mercati internazionali.

  2. mirco

    Se la Cina volesse, potrebbe decidere di riposizionare il suo paniere delle valute detenute in cassa e svalutare il dollaro e rivalutare l’euro. Non è che per caso vuole dotarsi di più euro e meno dollari e tenta di farlo alla pari? Se cosi fosse ora è il momento dell’euro debole che poi si risolleverà perchè il vero debito sovrano non è europeo ma americano e anglosassone.

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