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Leva fiscale per attrarre gli investimenti

Commento dopo le modifiche apportate dal Parlamento

La prima norma che abbiamo commentato (art. 40) relativa alla fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno, non è stata modificata. Valgono le considerazioni fatte.
La seconda norma (art. 41), sul regime fiscale di attrazione europea, che consente, previo apposito interpello,  a un’’impresa di un altro stato membro dell’’Unione europea di investire in Italia adottando il regime fiscale preferito tra quelli vigenti in ambito UE, ha subito qualche modifica:

1-  l’’efficacia del provvedimento è stata limitata a tre anni;
2-  è stato specificato che l’’opzione riguarda solo i tributi statali, quindi un’‘impresa di un altro stato membro che investisse in Italia potrebbe evitare di pagare l’’Ires (pagando invece, ad esempio, la Koerperschaftsteuer tedesca, ad aliquota del 15 per cento o la corporation tax irlandese, al 12,5 per cento) ma dovrà pagare l’’Irap, in quanto imposta regionale;
3-  è stata introdotta una norma antielusiva, per evitare che usufruiscano surrettiziamente dell’’agevolazione imprese che già sono presenti  in Italia o che solo virtualmente svolgano la propria attività nel territorio dello stato.

Si tratta di modifiche  che riducono l’’appeal della misura, che risolvono il problema da noi posto relativamente alla possibile ricaduta di parte dei costi dell’’agevolazione sui tributi degli enti decentrati, ma che, al contempo, non fugano né i dubbi di costituzionalità della norma né quelli della sua compatibilità con le norme comunitarie,  e che coinvolgono, come sottolineato anche recentemente dall’’esperto di diritto tributario comunitario Adriano Di Pietro su Il sole24ore, oltre al codice di condotta, anche le norme sugli aiuti di stato.

La manovra e la competitività: commento dell’1 giugno 2010 alla versione pre-emendamenti

Subito dopo il consiglio dei ministri di mercoledì scorso che ha varato la manovra, il presidente del Consiglio aveva invitato a leggere attentamente il testo prima di esprimere un parere. Ma come si faceva dal momento che dal consiglio dei ministri non è uscito alcun testo ufficiale e per giorni non si è saputo quante e quali norme sarebbero sopravvissute alle modifiche dell’ultima ora? In quella che sembra la versione finale del decreto sono contenute due norme che usano la leva fiscale per attirare le imprese a investire nel Mezzogiorno, e, quelle estere, in tutta Italia. Meritano attenzione per la loro finalità “a favore dello sviluppo”. Cerchiamo di capire perché non ci si può aspettare molto da nessuna delle due.

LA “FISCALITÀ DI VANTAGGIO” PER IL MEZZOGIORNO

La prima norma introduce la possibilità, per alcune regioni del Sud (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia), di modificare le aliquote Irap “fino ad azzerarle e di disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei riguardi delle nuove iniziative produttive”.
Già oggi le Regioni possono variare l’aliquota, entro un range del +/-0,92 rispetto alla aliquota base del 3,9 per cento e concedere deduzioni, detrazioni e altre agevolazioni. (1) Con la nuova norma alle Regioni del Sud viene concesso un più ampio margine di manovra fino a consentire di azzerare completamente l’’Irap, sulle nuove iniziative produttive.
La norma anticipa, espressamente, l’’attuazione di quanto già previsto, in termini più ampi e generali, nella legge delega sul federalismo (legge 42/09 articolo 2 comma 2 lettera mm) che prevede l’’individuazione di “forme di fiscalità di sviluppo, con particolare riguardo alla creazione di nuove attività di impresa nelle aree sottosviluppate”. In entrambe le disposizioni si richiama, opportunamente, la necessità che l’’agevolazione sia “nel rispetto”, o “in conformità”, della normativa comunitaria. Fiscalità differenziate non solo fra settori di attività, ma anche sul territorio nazionale, potrebbero infatti essere ritenute incompatibili con la normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato, posta a tutela della concorrenza nel mercato comune europeo.
Non è un caso che le Regioni, quando hanno utilizzato la flessibilità loro concessa a favore di alcuni settori o territori disagiati, si sono sempre mosse nell’’ambito della regola del de minimis che consente che determinati interventi pubblici selettivi non siano ritenuti aiuti di Stato incompatibili, se il loro importo non supera determinate soglie.
Nel caso in cui si superi il de minimis, come avverrebbe con la riduzione, fino ad azzeramento, dell’’aliquota Irap, il test da passare, stando almeno a quanto emerge dalla giurisprudenza comunitaria, è che la decisione dell’’ente avvenga in piena “autonomia istituzionale, procedurale ed economica”. La Regione, quindi, non solo deve prendere in piena autonomia la decisione, ma deve anche sopportare il calo di gettito che ne deriva, come peraltro esplicitamente previsto dalla relazione tecnica che dice che “l’’esercizio della facoltà riconosciuta alle Regioni interessate è chiaramente subordinata all’’individuazione di corrispondenti compensazioni nell’’ambito dei propri bilanci”.
È difficile pensare che le Regioni del Mezzogiorno, tanto più dopo i tagli previsti dalla manovra in discussione (e, per alcune di esse, l’’obbligo di far ricorso alla leva fiscale per coprire i disavanzi sanitari) abbiano risorse per avviare una concorrenza fiscale nei confronti delle altre aree per attirare nuove iniziative. E anche quando si ritenesse che una concorrenza fiscale tra regioni è non solo possibile, ma anche sana e utile alla crescita produttiva, è tutto da vedere se, data la situazione di arretratezza, carenza di infrastrutture, degrado istituzionale, esposizione alla malavita organizzata in cui molte zone delle regioni interessate dalla “fiscalità di vantaggio” si trovano, sia sufficiente abolire l’’Irap per compensare i maggiori costi che un investitore sostiene aprendo un’’attività. Forse anche per questo, pudicamente, il decreto parla di “fiscalità di vantaggio”, mentre nella delega sul federalismo si parla di “fiscalità di sviluppo”.

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REGIME FISCALE DI ATTRAZIONE EUROPEA

In base alla seconda norma: “Alle imprese residenti in uno Stato membro dell’Unione Europea diverso dall’Italia che intraprendono in Italia nuove attività economiche, nonché ai loro dipendenti e collaboratori, si può applicare, in alternativa alla normativa tributaria italiana, la normativa tributaria vigente in uno degli Stati membri dell’Unione Europea.”
Si tratta di una norma accattivate quanto fantascientifica: non solo perché non si capisce come possa essere concretamente applicabile, ma anche perché appare in palese contrasto con le regole comunitarie, nonché con la Costituzione italiana.
La norma è finalizzata ad attirare in Italia imprese di altri paesi europei. A queste imprese verrebbe infatti riconosciuta la possibilità di scegliere la normativa fiscale più favorevole fra le ventisette esistenti all’’interno della Unione. Non tutte sceglierebbero la stessa: il vantaggio che si può ricavare dall’’una o dall’’altra normativa dipende infatti dai dettagli delle singole normative, per quanto riguarda aliquote e basi imponibili, e dalle caratteristiche specifiche dell’’impresa: come si finanzia, quanti ammortamenti ha, quale è la sua forma societaria, quanti dipendenti e collaboratori assume e così via.
Per valutare la corretta applicazione delle imposte da parte di ciascuna di queste imprese, l’’Agenzia delle entrate dovrebbe conoscere ventisette diverse normative tributarie (redatte nelle lingue di ciascun paese), con la relativa regolamentazione secondaria, per quanto riguarda non solo la tassazione dell’’impresa, ma anche la tassazione dei dipendenti e collaboratori. La stessa conoscenza è ovviamente richiesta ai giudici che si trovino a dirimere il contenzioso tributario che dovesse sorgere.
Ma supponendo anche che questi ostacoli applicativi venissero superati, la nuova norma avrebbe importanti implicazioni in termini di violazione della concorrenza. Le imprese italiane, o quelle non europee che operano sul territorio nazionale, verrebbero esposte alla concorrenza di altre aziende che potrebbero godere di un regime fiscale sensibilmente più vantaggioso, per quanto riguarda sia la tassazione dei loro utili sia il costo del lavoro. Si tratterebbe di una violazione delle regole che l’’Unione Europea e l’’Ocse si sono date per evitare la “competizione fiscale dannosa” (dannosa in quanto mira ad attirare agenti economici di altri paesi con un trattamento preferenziale rispetto ai soggetti residenti).
Un altro profilo da considerare riguarda il fatto che i lavoratori italiani di un’’impresa multinazionale che ha scelto, ad esempio, il regime di tassazione estone, si troverebbero a pagare un’’imposta sui loro redditi da lavoro flat tax del 20 per cento, mentre quelli che lavorano per un’’impresa italiana resterebbero sottoposti all’’Irpef progressiva. Una disparità che difficilmente può essere considerata coerente con i principi costituzionali della capacità contributiva e dell’’uguaglianza davanti alla legge.
Un ulteriore problema si porrebbe poi in un contesto di federalismo fiscale: a quale quota del gettito prelevato su imprese e lavoratori secondo le regole tributarie di un altro paese europeo, e secondo quali criteri di ripartizione, avrebbero diritto le regioni e i comuni che perderebbero l’’addizionale Irpef regionale e comunale nonché l’’Irap (e forse anche l’’Ici sulle imprese) prevista dalla nostra normativa tributaria?
La relazione tecnica al provvedimento non aiuta certo a chiarire questi dubbi: la perdita di gettito è infatti quantificata, e per giunta in modo molto approssimativo, con riferimento alla sola Ires. Ma la norma citata non parla della sola imposta societaria bensì dell’’intera normativa tributaria dell’impresa nonché di quella relativa a dipendenti e collaboratori.

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(1) La possibilità di variazioni in aumento è stata sospesa, a partire dal 2009, e fino all’’attuazione del federalismo fiscale, tranne che per le Regioni con disavanzi sanitari.

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  1. giampaolo vitali

    L’articolo conferma che la norma è stata scritta da fiscalisti "dilettanti", se non peggio.

  2. Lorenzo Lusignoli

    Gli autori giustamente richiamano il problema della concorrenza fiscale nei confronti delle imprese italiane che solleva l’articolo 41 "regime fiscale di attrazione europea". Mi domando se tale articolo non possa essere anche oggetto di forti critiche da parte dei nostri principali partner europei (penso ad esempio a Francia, Germania e Spagna). Un testo che avesse previsto in luogo della tassazione italiana la tassazione del paese di provenienza poteva presentare difficoltà tecniche ma poteva essere spiegato come una necessità di non dissuadere imprese che provengono da un regime fiscale più favorevole dall’investire nel nostro paese. Ma il testo dell’articolo prevede addirittura che si scelga per la tassazione il sistema più favorevole all’interno della UE. Sembra un metodo piuttosto aggressivo di concorrenza fiscale volto ad attirare investimenti dall’estero. Difficile che la tassazione estone possa essere accettata dai nostri vicini in Italia. Immaginiamo poi cosa succederebbe se per frenare la concorrenza in risposta tutti i paesi UE decidessero di applicare una norma di questo tipo. Ci ritroveremo improvvisamente ovunque ad applicare il sistema di tassazione estone?

  3. Cyrano

    Prima che la nostra classe dirigente si trastulli con queste nuove mirabolanti iniziative per il Sud, bisognerebbe ricordare loro che già annunciarono con enfasi a profusione, l’istituzione delle Zone Franche Urbane a Lecce, per le quali i leccesi ancora aspettano i decreti attuativi. Le chiacchiere non costano niente, ma rendono.

  4. enzo

    Si dice: impresa di un paese membro che può scegliere la normativa di uno qualsiasi dei paesi UE; esempio un’impresa francese in Italia utilizzerà la normativa spagnola. Domanda: oltre alle osservazioni già fatte, ma se fosse consentito a tutte le imprese europee, come potrebbe essere vietato alle imprese italiane fare la scelta più conveniente cioè utilizzare la normativa fiscale di un altro paese UE? Con tutto quel che ne conseguirebbe..

  5. padanus

    In merito alla tassazione di vantaggio europea, mi pare che alcuni dubbi sollevati siano dissipati se solo si fa lo sforzo di intuirne un’applicazione reale. Un’impresa tedesca che investe in Italia si trova ad operare secondo "arm-length" ed a dover sottostare alla normativa del suo paese d’origine. Quindi potrebbe scegliere al limite tra applicare la normativa tedesca (a lei ben nota) oppure la normativa italiana (ben nota alla sua filiale). Punto. Pensare a fantasiosi incroci di investimenti tedeschi tassati alla lettone su suolo italico è una elucubrazione vana. La Merkel non lo permetterebbe di certo. Però per il board straniero che deve decidere se tenere o no uno stabilimento in Italia, l’aspetto fiscale diventa indifferente. Da applicare per le Finanze non sarà semplice, ma è nella direzione della armonizzazione europea. Trovata sicuramente perfettibile, ma non così banalizzabile.

  6. iraniano

    Già, la normativa tributaria nostrana è un ginepraio se aggiungiamo pure la possibilità di usufruire di sistemi diversi sarà ingestibile. La proposta è folle. Mi stupisco che si parli di province sì, province no.

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