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DOVE INCIAMPA LA CORSA ALLO SCUDO FISCALE

Molte voci spingono per un’adesione in massa allo scudo fiscale. Compresa una circolare dell’Agenzia delle Entrate. Che però su diverse questioni è in contrasto con il testo della norma oppure crea regole non ricavabili dalla legge. Per esempio, sulla segretezza delle operazioni di emersione. Ai fini Iva, poi, lo scudo non è dissimile dal condono fiscale del 2002. Bocciato dalla Corte di giustizia perché in contrasto con i principi della normativa comunitaria sul tema. Dunque, in futuro il Fisco potrebbe chiedere il pagamento di Iva, sanzioni e interessi sulle somme scudate.

Lo strumento condonistico è presentato come l’ultimo rifugio sicuro prima della nuova stagione di “caccia senza frontiere” agli esportatori o detentori di capitali nei paradisi fiscali al fine di spingere verso un’adesione in massa, e incondizionata, allo scudo fiscale coloro che si trovano nelle condizioni soggettive e oggettive di accedervi. Nonostante le interpretazioni estensive offerte dall’Agenzia delle entrate, quando non anche a causa di queste, la normativa sullo scudo fiscale presenta però delle incongruenze su cui è mancata una riflessione accurata.

I RISCHI CREATI DALL’INTERPRETE-LEGISLATORE

Le circolari fiscali non sono atti normativi né sono a questi assimilabili, promanando dal Fisco e avendo la funzione d’illustrare il significato di una disciplina o garantirne un’uniforme applicazione. Invece la recente circolare sullo scudo tracima, in molte parti e su molte questioni, gli argini del testo normativo, ponendosi in contrasto con lo stesso o creando addirittura regole non ricavabili dalla legge.   
Vediamo alcuni esempi.
– È riconosciuta la possibilità di scudare immobili esteri, oggetti preziosi, opere d’arte, yacht per i quali non c’è stata violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale, che è presupposto di accesso allo scudo.
– Lo stesso per i beni, ivi compresi gli immobili, che non possono essere “rimpatriati”, per ragioni obiettive, né “regolarizzati”, perché si trovano in paesi come ad esempio il Liechtenstein, la Svizzera, San Marino: l’ostacolo è stato superato consentendo la cosiddetta “cartolarizzazione” del bene e il successivo rimpatrio della partecipazione pur priva del presupposto legale del possesso al 31/12/08 richiesto dalla norma per l’accesso allo scudo.
– Si afferma, ancora, che i dati dello scudo del socio di controllo di una società non sono utilizzabili per fare accertamenti alla stessa: si tratta di una “copertura” non contemplata dalla legge, che impedisce l’utilizzo dei dati a sfavore soltanto del contribuente che effettua lo scudo.    
Queste interpretazioni, avulse dal testo normativo, comportano però dei rischi per coloro che aderiranno allo scudo.
Un primo rischio è la mancata osservanza della circolare da parte dei funzionari degli uffici locali, i quali possono disattenderla: la difformità dell’atto impositivo rispetto alla circolare non è causa di nullità o vizio dello stesso. (1)
Un altro rischio è il mutamento in pejus dell’interpretazione dell’Agenzia, se dovesse giungere a negare la sussistenza dei presupposti di accesso allo scudo: in questo caso il cosiddetto “affidamento”, tutelato dallo Statuto del contribuente, neutralizzerebbe le sanzioni e gli interessi ma non l’obbligo di pagare le imposte. L’ipotesi non è peregrina: in occasione dell’istituzione dell’anagrafe dei conti, l’Agenzia ha chiesto agli intermediari anche gli estremi dei conti del precedente scudo, nonostante le garanzie di assoluto anonimato fornite nelle circolari.

L’ASSOLUTA SEGRETEZZA CHE IN REALTÀ NON È TALE

Quest’ultima osservazione offre lo spunto per analizzare il tema della segretezza delle operazioni di emersione.
L’anonimato nei confronti del Fisco è previsto dalla legge. E la “opacità informativa” è stata più volte sottolineata nella circolare, la quale già in esordio, a pagina 5, rileva che “è assicurata un’ampia riservatezza, anche nel tempo, dei dati e delle notizie comunicati agli intermediari relativi alle attività oggetto di emersione. Tali informazioni sono, infatti, coperte per legge da un elevato grado di segretezza, essendo preclusa espressamente la possibilità per l’amministrazione finanziaria di venirne a conoscenza, a eccezione dei casi in cui sia lo stesso contribuente a fornirle nel proprio interesse”.
Qualche precisazione pare però opportuna. Non è esatto, anzitutto, che il Fisco non possa venirne a conoscenza se non per iniziativa volontaria, in quanto “interessata”, del contribuente. E infatti, con un’interpretazione “creativa” è stato sancito, nella stessa circolare, l’obbligo per il contribuente di “confessare” l’esistenza dello scudo al Fisco quando inizia un controllo o entro 30 giorni dalla ricezione di un atto impositivo o anche solo di un invito o di un questionario: il segreto è dunque destinato ad avere breve durata, dovendo essere svelato – secondo l’Agenzia – la prima volta in cui il Fisco “contatta” il contribuente. In secondo luogo, se lo scudo è effettuato mediante “regolarizzazione”, e cioè mantenendo all’estero i beni, l’intermediario è obbligato a comunicare all’anagrafe tributaria i dati dell’operazione. Inoltre, nel caso di scudo mediante “rimpatrio” non vi è alcuna riservatezza per i redditi prodotti da attività finanziarie non soggette a ritenute alla fonte o imposte sostitutive, come ad esempio i dividendi e i capital gain derivanti da partecipazioni significative.
Ma vi è dell’altro. Dopo la cosiddetta manovra anticrisi (decreto legge 78/2009), Agenzia delle Entrate e Guardia di finanza possono richiedere a Banca d’Italia, Consob e Isvap tutte le informazioni possedute sui contribuenti oggetto d’indagine fiscale. Ci si domanda: ma le banche non devono comunicare alla Banca d’Italia tutte le informazioni relative alla propria attività, senza distinzione alcuna? E per tale via il Fisco può venire a conoscenza, quindi, anche di dati, informazioni e conti secretati, ancorché non ne possa fare uso per accertare i contribuenti che hanno scudato?         

LA RINUNCIA ALL’IVA INCOMPATIBILE CON LA NORMATIVA UE

Totalmente negletta è la problematica dell’Iva. Lo scudo può essere effettuato, tra gli altri, da imprenditori e lavoratori autonomi, e la circolare, da un lato, ha ribadito che “gli accertamenti sono preclusi anche con riferimento ai tributi diversi dalle imposte sui redditi” (pagina 34) e, dall’altro, ha assicurato che lo scudo fatto dai soci di controllo di società non può essere utilizzato per fare controlli e accertamenti nei confronti delle medesime società (pagina 40). Per tali soggetti la descritta copertura, sia quella legale sia quella di fonte amministrativa, è però solo una copertura sulla carta.
E ciò è evidente se appena si considera che, ai fini Iva, lo scudo fiscale non è dissimile, mutatis mutandis, dal condono fiscale di cui all’articolo 8 della legge n. 289/2002, che è stato bocciato dalla Corte di giustizia perché costituiva una «rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili» in contrasto con i principi della normativa comunitaria sull’Iva. (2)
Secondo il sottosegretario all’Economia Molgora, che lo scorso 21 ottobre è stato chiamato a rispondere sul punto nel question time in Commissione finanze alla Camera, un simile effetto non si verificherebbe con lo scudo, perché gli accertamenti Iva possono essere comunque effettuati e la preclusione in ordine alla possibilità di recuperare i maggiori imponibili Iva vale entro i limiti di valore delle attività scudate, e, dunque, l’Iva sulla parte eccedente può essere recuperata. Tale argomento non pare invero decisivo, perché dette evenienze erano proprie anche del condono bocciato. In quell’occasione il contribuente presentava una dichiarazione con cui “integrava” gli imponibili dichiarati, pagandovi la relativa imposta, e otteneva una “franchigia” pari al doppio di quanto pagato. Cosa significava ciò? Che il Fisco poteva effettuare gli accertamenti ma il recupero della maggiore imposta accertata poteva avvenire solo per l’importo eccedente il doppio di quanto pagato col condono: per l’Iva, dunque, non era possibile recuperare i maggiori imponibili accertati fino al doppio di quanto dichiarato. Fatta eccezione per il quantum della franchigia, non vi è alcuna differenza con lo scudo. 
Ma se è così, anche per lo scudo la rinuncia agli accertamenti Iva èillegittima, donde la possibilità che il Fisco in futuro chieda – facendo leva sulla superiore “ragione comunitaria” – il pagamento di Iva, sanzioni e interessi sulle somme scudate, con un prelievo complessivo che potrebbe raggiungere anche il 50 per cento di quanto scudato.

(1) Vedi Cassazione n. 237/2009.
(2) Sentenza 17 luglio 2008 (causa C-132/06).

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  1. Roberto

    Testo molto interessante… Sottopongo alla riflessione anche le vicende di coloro che ogni giorno varcano le frontiere con la Svizzera per guadagnarvi il pane e trattati come i maggiori criminali-esattori per non parlare di chi all’estero ha lavorato e risparmiato per ricevere dall’AdE lettere che non sono altro che rompicapo insolubili… Ma – invece di martoriare e torturare chi è emigrato per poter guadagnarsi da vivere- non sarebbe più opportuno dare la caccia ai privilegi e agli evasori rimasti in Patria? Ah… l’Italia…

  2. ettore falconieri

    Ha un aspetto anticostituzionale là dove impone il rientro e trattamenti formali diversi per i fondi in paesi extra UE come la Svizzera. E’ diritto del cittadino di possedere beni ovunque, Lo stato non può discriminare a seconda del paese dove i beni dei cittadini sono posseduti. Tale discriminazione, nata per far dispetto alla Svizzera, fa sorridere tanti, per la sua meschineria, negli ambienti bancari europei e non solo svizzeri.

  3. AM

    La strumentalizzazione di questo provvedimento da parte della lotta politica ha causato tanta superficialità nei commenti, Ben vengano quindi studi seri per approfondire il tema in parola. Vediamo di demolire alcuni luoghi comuni. Innanzitutto non è vero che i capitali detenuti all’estero siano sempre frutto di evasione fiscale o peggio i proventi di criminalità organizzata. Potrei citare, se ce ne fosse lo spazio, una tutta serie di motivi diversi per cui persone fisiche residenti in Italia hanno costituito, senza evasione fiscale, capitali all’estero privilegiando la segretezza sulla redditività. Molti di questi motivi non valgono per un cittadino USA e non valgono oggi in Italia, ma hanno avuto un peso in passato. Vi è poi la garanzia dell’anonimato che anche lavoce ha contribuito efficacemente a demolire. Ed infine, come sostiene questo articolo, vi è il rischio di un futuro intervento del Fisco in tema di IVA.

  4. Burebista

    Roberto ha sollevato il problema degli emigrati italiani, ma sinora non mi pare sia stato affrontato anche da parte del Ministero il problema degli immigrati dall’estero residenti in Italia, alcuni dei quali hanno acquisito la cittadinanza italiana (spesso hanno doppia cittadinanza). Costoro, in larga maggioranza, non hanno mai denunciato nell’apposito quadro le loro proprietà immobiliari precedenti alla data d’immigrazione in Italia, ma lo stesso comportamento si è avuto anche per le proprietà acquisite successivamente e per i capitali accumulati presso banche del paese d’origine anche grazie alle rimesse (canali formali e canali informali) dall’Italia.

  5. G

    Mi rifaccio al giustissimo contributo di AM per portare la mia testimonianza Molti capitali sono fuggiti all’estero per paura della rivoluzione comunista, portati da chi, come borghese, non aveva nessuna intenzione di vivere sotto una dittatura e, peggio ancora, di essere "rieducato" Ricordo inoltre una singolare legge Svizzera che, sempre al tempo, poneva il divieto per gli stranieri di acquistare case più grandi di 150 metri quadri Questo era dovuto al fatto che chi prendeva i suoi provvedimenti per fuggire dalla rivoluzione, spesso acquistava anche casa, ovviamente nell’ottica di dare rifugio a sé a ad altri parenti Questo falsava il mercato immobiliare con un eccesso di domanda per case di grandi dimensioni, adatte ad ospitare più famiglie.

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