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UNA EXIT STRATEGY PER IL SISTEMA PRODUTTIVO

Gli industriali italiani e tedeschi scrivono una lettera congiunta alla Commissione Europea invocando un allentamento dei vincoli di Basilea II per un più facile accesso al credito. Ma la crisi deriva da un lungo periodo in cui il credito è stato fin troppo facile. E’ invece arrivato il momento di ripensare i fragili assetti finanziari con cui si è affrontato lo sviluppo passato. E di sfuggire, nell’interesse della stragrande maggioranza delle imprese italiane, al richiamo di sirene che vorrebbero fare del credito una variabile indipendente.

Appare davvero singolare che i rappresentanti degli industriali italiani e tedeschi abbiano trovato una forte convergenza su una richiesta congiunta per intervenire d’imperio sulle valutazioni di merito di credito delle imprese, piegandole a una logica che consenta un più agevole accesso a prestiti e fidi bancari.

BREVE EXCURSUS STORICO

Singolare, ma non casuale. Italia e Germania, con il Giappone, uscite sconfitte dalla guerra, hanno un analogo percorso post bellico. Molte macerie e tanti impianti industriali da ricostruire, una coesione sociale da ristabilire, un passato da mettersi presto alle spalle, una funzione strategica a ridosso delle frontiere presidiate dai regimi comunisti. Il credito era indispensabile per compensare un capitale di rischio inevitabilmente debole. Il sistema bancario rimaneva strategico per la ricostruzione e per il consenso sociale. Il moltiplicatore bancario diveniva un’arma da usare fino in fondo per inserire al più presto i paesi nel processo consumistico, per farli accedere alla welfare economy, per far dimenticare i precedenti regimi e l’oltraggiato nazionalismo. Un capitalismo finanziariamente gracile, ma almeno capitalismo.
Denaro facile ha voluto dire niente discussioni sul rapido recupero delle specializzazioni ante-belliche, delle capacità industriali consolidate, favorite dal libero accesso al commercio mondiale. Le ex tre potenze dell’Asse sono diventate le più forti competitrici sui settori più tradizionali, con tanta innovazione di processo, che stemperava il conflitto fra capitale e lavoro e una specializzazione settoriale che, pur con tutte le importanti trasformazioni intervenute nel frattempo, è ancora quella pre-bellica. Specializzazione, oggi, col respiro corto dappertutto. E un sistema bancario, almeno in Germania e Giappone, duramente provato.

LA SITUAZIONE ITALIANA

L’Italia, oggi come allora, è la più debole delle tre economie per risorse, potenza finanziaria e industriale, specializzazione produttiva. Ma è anche quella con maggiore flessibilità e, diciamolo, con il sistema bancario più sano. Dunque, si può ricostruire davvero, dandosi un profilo competitivo di respiro nel nuovo mondo globale. Si era cominciato a farlo, grazie all’euro e all’abbandono delle svalutazioni competitive della lira, attraverso un processo di ridisegno del profilo competitivo della media impresa italiana, fatto di innovazione (finalmente anche di prodotto), e qualità. La tenuta del nostro export negli anni della globalizzazione è lì a dimostrarci che l’impresa italiana ha saputo reagire alle mutate condizioni. La crisi rischia di interrompere questo percorso e segna un crinale fra rischio di declino industriale da una parte e opportunità di sviluppo dall’altra.
Il governo italiano sta spendendo di meno degli altri per unità di rilancio del Pil. Non può fare diversamente. Tuttavia nessuno può pensare di far mancare adesso i soldi alle imprese, di annichilire organizzazioni produttive già provate, per trasmettere loro vincoli finanziari di breve periodo. Per questo consideriamo con favore tutte le iniziative in atto per stemperare la pro-ciclicità di Basilea II. Tuttavia, il debito delle imprese deve essere oggetto di un ripensamento storico. Pesa come un macigno, al pari di quello pubblico, sulle possibilità di rilancio, ha bisogno di una exit strategycome quella per il passivo governativo. Strategia pensata fin da ora, perseguita con un disegno complessivo tra le parti, in cui il legislatore deve mettere del suo, ricreando in primis una cornice fiscale più favorevole al capitale investito nell’impresa, mentre le banche, migliorando la propria capacità di valutazione del merito di credito, devono farsi promotrici attive del rafforzamento patrimoniale del sistema produttivo, con strumenti e risorse dedicate.

LA FINANZA D’IMPRESA COME LEVA COMPETITIVA

Chi scrive non difende le banche o la normativa di per sé. Vi è alla base una considerazione più articolata: cambia il modo di competere. La finanza d’impresa è una delle fondamentali armi competitive, al pari della tecnologia, della forza commerciale, dell’efficienza produttiva. Gli imprenditori, trascinati dai problemi di sopravvivenza quotidiana, non possono comportarsi pensando “qualunque cosa, pur di uscirne”. Vi è la necessità di ripensare i fragili assetti finanziari con cui si è affrontato lo sviluppo passato. E di sfuggire al richiamo di sirene che vorrebbero il credito come “variabile indipendente” su cui esercitare azioni dirigistiche, percorrendo strade infruttuose.
Il rating (un oggetto ormai irreversibile che si attribuisce a Basilea II, non capendone la sua inevitabile funzione, a prescindere dalla regolamentazione) è un meccanismo che innova il rapporto tra banca e impresa perché affianca alla dialettica capitale/lavoro quella, tutta interna al capitale, tra azionisti e creditori. Questo rapporto, oggi molto semplice e asimmetrico, con la banca sovente subalterna, diventerà necessariamente più conteso, paritario, cooperativo. Consolidare i crediti delle banche, con la moratoria appena sottoscritta, non è sufficiente. Domani questi debiti dovranno essere trasformati per il consolidamento patrimoniale dell’impresa, per la sua crescita dimensionale, per la sua internazionalizzazione. Occorre riempire il terreno che oggi è terra di nessuno tra capitale e credito commerciale, con forme tecniche adeguate, disegnandole nelle loro fattispecie legislative, di comune concerto tra imprese, finanza e mercato. Uno sforzo che vada dal private equity ai prestiti subordinati, agli strumenti ibridi di capitale, ai prestiti partecipativi. Forme contrattuali da “impacchettare” in bond di distretto o di settore, in emissioni “made in Italy”, in veicoli di investimento a disposizione di chi desidera accedere alla finanza d’impresa italiana.
Il sistema finanziario è molto complesso, è oramai l’infrastruttura di base, inevitabilmente e irreversibilmente globale dell’economia di questo inizio secolo. Le agenzie di rating non sono tutto, non entreranno mai sul mercato delle Pmi. Le banche non possono essere un indifferenziato magazzino di rischio sempre più gonfio e impacciato; sono invece nella posizione ideale per trasferire il rischio delle Pmi agli investitori, sostenendolo con la propria reputazione, in modo da accedere sistematicamente al mercato dei capitali. Per questo i rating interni devono essere credibili, per servire alla crescita esterna delle imprese, non delle banche. Sono la garanzia per gli investitori che la valutazione è credibile. Che cosa se ne farebbero gli investitori di una misura che cambia nel tempo a seconda del vento o delle emergenze del caso?
Per queste ragioni, dunque, invocare un credito come bene pubblico fa l’interesse di pochi (quelle imprese che hanno diretto accesso al mercato dei capitali o più forte potere negoziale nei confronti delle banche) e distrugge valore per la stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese italiane. È la negazione del concetto di squadra che dovrebbe connotare una classe imprenditoriale, che non può che fare forza con le proprie abilità cooperative.

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UN’AMNISTIA DI FATTO DIETRO LO SCUDO FISCALE

  1. Piero

    Se allarghiamo il credito privato+pubblico finanziamo la ripresa ed affondiamo il futuro. Se lo teniamo stretto limitiamo la nuova bolla, ma rimaniamo in stagnazione per 10 anni. Ormai siamo in un vicolo cieco..

  2. Davide

    Ottima analisi, ultimamente si pensa troppo a demonizzare (quindi a trovare soluzioni per singole persone) piuttosto che a ragionare sulle regole (quindi a trovare soluzioni sistemiche). Basilea II sbaglia negli aspetti tecnici (come la pro-ciclicità e la discriminazione delle PMI) ma non nella filosofia di fondo e cioè che il credito bisogna guadagnarselo con il merito. Se no a perderci saranno di nuovo le imprese virtuose.

  3. dvd

    La differenza sostanziale tra Italia e Germania è che noi pur dovendo competere nell’economia attuale (regole del mercato) non abbiamo ancora risolto problemi strutturali e antichi preesistenti alla nascita della repubblica. Io condivido tutto ma come si può pensare di competere alla pari con certe nazioni quando da noi ancora ci sono città in mano alla criminalità o regioni che basano le forniture sanitarie sulla "bontà" dell’escort di turno. La germania vede l’allentamento di Basilea II buono per il definitivo "rilancio" della sua economia noi solo per sopravvivere, è diverso, non possiamo pensare, senza prima avere risolto i problemi di fondo, di essere "uguali" a certi paesi: è da irresponsabili. Prima ne prendiamo atto prima si risolve il tutto. Ah, se noi comunque bene o male ci siamo ancora (g8,g20 che sia) e non siamo invece i maggiori rappresentanti dei paesi "poveri", non per merito dei politici di turno, ma lo si deve alla innegabile fantasia e voglia di impresa che ancora esiste, non mortifichiamola di continuo.

  4. paolo

    Alcune domande / osservazioni sull’articolo: – la controversa esperienza del MAC non permette di essere ottimisti sulla possibilità che le banche possano veicolare il rischio delle pmi mettendo a disposizione la loro forza reputazionale. le banche non sono pronte a fare gli sponsor per piccole aziede o alle pmi italiane non interessa andare sul mercato dei capitali? – a cosa serve davvero il rating in un panorama come quello italiano? Ovvero, a cosa serve retare un’impresa che chiede un anticipo fatture? (a tal proposito sarebbe interessante sapere, ad esempio, qual è la percentuale di autoliquidanti concessi in italia sul totale dei crediti alle imprese rispetto agli altri 2 paesi presi in esame) questo per dire che condivido in toto quanto scritto negli ultimi due articoli pubblicati dagli autori, ma che purtroppo lavorando sul mercato ogni giorno ci si rende conto di quanto siamo culturalmente distanti dalla possibilità di evolverci rapidamente verso un sistema come quello auspicato.

  5. BOLLI PASQUALE

    L’elemento più negativo che impedisce all’Italia di uscire dall’attuale crisi è la cronica ingovernabilità del Paese. Sulla possibilità di ripresa, inoltre incidono altri fattori: la politica creditizia e il blocco psicologico creatosi nella società per i recenti fatti dovuti alla finanza creativa. Oggi, i denari sono nel materasso, le imprese si sono fermate, non c’è liquidità, gli impieghi e gli occupati diminuiscono e la ripresa appare sempre pù lontana.Le colpe non si possono dare alle imprese che,come detto ,vorrebbero credito: facile,a buon mercato e senza Basilea 2. Le Banche, da sempre ,hanno saputo fare bene il loro mestiere. Tant’è che, nel passato ventennio, solo il Banco di Napoli ha avuto problemi di dissesto,ma questo è da addebitare non alla sua dirigenza, ma alla classe politica che strumentalizzò l’Istituto per propri scopi. Auguriamoci che, dopo tanto, la decantata istituenda Banca del Sud,che vorrebbe il Ministro Tremonti, non faccia la stessa fine. La ripresa del sistema produttivo,allo stato, è come la nave che naviga a vista e che il porto non è avvistabile per densa foschia.

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