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UN ANNO DI GOVERNO: UNIVERSITÀ

 

I PROVVEDIMENTI

Gli aspetti più rilevanti del primo anno di attività del governo in tema di università sono i tagli al Fondo di finanziamento ordinario e l’articolo del decreto legge del 10 novembre 2008, poi convertito in legge a gennaio 2009, che stabilisce, per la prima volta in Italia, che una quota significativa delle risorse per gli atenei verrà attribuita sulla base dei risultati conseguiti.
La manovra di finanza pubblica predisposta con il decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008 contiene misure rilevanti per le università. Il perno è costituito dalla riduzione progressiva, su un arco quinquennale, del Fondo di finanziamento ordinario, collegata al rallentamento degli scatti automatici di anzianità (da due a tre anni) e alla limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato. L’effetto negativo del taglio non è tanto legato ai singoli provvedimenti di riduzione o rallentamento della spesa, quanto piuttosto al fatto che è stato distribuito in modo uniforme tra tutti gli atenei. A legislazione invariata i tagli al finanziamento si faranno sentire pesantemente nei prossimi anni, rendendo difficile il necessario ricambio generazionale, il sostegno alla didattica e il finanziamento della ricerca.
Per quanto riguarda invece la quota di risorse distribuite in modo premiale, il decreto del 10 novembre stabilisce che già nel 2009 il 7 per cento delle risorse del Fondo di finanziamento ordinario dovrà essere distribuito in funzione della “qualità dell’offerta formativa, dei risultati dei processi formativi e della qualità della ricerca scientifica”. Le linee guida pubblicate dal ministero a novembre stabiliscono inoltre che nei prossimi anni la quota salirà al 30 per cento. Perché il decreto avvii una trasformazione delle università e dei comportamenti del corpo docente occorre che le regole di ripartizione del fondo siano molto nette e trasparenti: devono premiare dipartimenti, facoltà e atenei che hanno conseguito buoni risultati e non finanziare gli altri. E, all’interno di ciascun ateneo, devono individuare quali gruppi di ricerca hanno contribuito maggiormente al risultato.
Entro il 31 marzo 2009, il ministro avrebbe dovuto definire con apposito decreto in che modo la qualità dell’offerta formativa e della ricerca saranno utilizzate per ripartire i fondi. Non lo ha fatto e il ritardo è grave e inspiegabile, anche perché nei prossimi anni le università subiranno i tagli previsti dal decreto legge 133 del giugno 2008, tagli che peraltro hanno colpito tutti gli atenei, indipendentemente dai risultati conseguiti.

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GLI EFFETTI

I documenti informali sui criteri con cui il 7 per cento sarà ripartito che attualmente circolano tra ministero, rettori e Cun sono preoccupanti. Mentre procede l’utilizzo di indicatori sulla performance didattica per la ripartizione dei fondi legati alla programmazione triennale 2007-9, si ventila l’utilizzo di indicatori diversi con pesi diversi per quanto riguarda l’assegnazione del fondo del 7 per cento. Con il probabile risultato che verranno individuati molteplici criteri, nominalmente riferiti a qualità della didattica e della ricerca, ma di fatto fortemente correlati alla spesa storica delle singole università. Basti dire che nella programmazione triennale gli atenei possono scegliere i pesi da assegnare agli indicatori sulla base dei quali verranno assegnati loro i fondi. Vale la pena di ricordare che una valutazione efficace deve basarsi su pochi indicatori, chiaramente comprensibili da chi deve essere valutato e deve riguardare delle variabili di risultato che siano chiaramente sotto il controllo degli atenei. A titolo di esempio, il numero dei corsi attivati, il numero e la qualità delle pubblicazioni scientifiche, l’impatto delle pubblicazioni sulla comunità scientifica. Se così non fosse, la frustrazione nel mondo accademico sarebbe enorme, anche tra coloro che avevano guardato con favore a riforme basati sul merito e la valutazione.
È imminente la presentazione di un disegno di legge di riforma della struttura organizzativa e di governo delle università, della quale circolano svariate versioni. Dovrebbe prevedere una riduzione dei compiti delle facoltà a beneficio dei dipartimenti, un tetto massimo alla rieleggibilità negli organi di governo e l’ingresso di soggetti esterni nell’amministrazione economica degli atenei. Sembra accantonata la progettata trasformazione degli atenei in fondazioni di diritto privato.
Nel corso dell’anno il ministro ha anche più volte annunciato un piano di riforme con un disegno di legge sulle regole di reclutamento dei professori universitari, la governance e lo stato giuridico. Sempre stando alle anticipazioni, si tratterebbe di una legge delega al governo, che avrebbe un anno di tempo per varare un nuovo sistema di reclutamento, apparentemente centrato su un’idoneità da conseguire a livello nazionale e decisioni di reclutamento e promozioni prese a livello locale. Questo iter potrebbe prolungare l’attuale blocco delle assunzioni per almeno altri due anni (tra approvazione della legge delega e varo dei decreti delegati), arrivando facilmente al 2012. Se si considera che le uscite del personale docente previste tra 2009 e 2012 si posizionano tra 1.500 e 2mila unità per anno, ci si ritroverebbe al varo della nuova modalità di reclutamento con un arretrato di rimpiazzi necessari compreso tra 6mila e 8mila unità, ingolfando immediatamente le nuove procedure con migliaia di domande di partecipazione.

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OCCASIONI MANCATE

L’impianto generale dei progetti annunciati – ad esempio per quanto riguarda l’abolizione dei concorsi esclusivamente locali e una maggiore indipendenza dei rettori dai corpi accademici – è condivisibile, ma una cattiva partenza sulla ripartizione del 7 per cento e una dilatazione dei tempi avrebbe un effetto fortemente negativo sull’efficacia di un processo di riforma.

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MONOETNICI A CASORIA

14 commenti

  1. Stefano

    Per la distribuzione del 7% del fondo detto, in che modo si valuteranno i risultati dell’attività didattica? Spero non solo dai voti agli esami: frequento una Università romana e assicuro che studia solo chi ha voglia di farlo, visto che gli esami sono facili o, talvolta, regalati. Con voti medio-alti che fioccano. Ho assistito a scene surreali: lo studente "graziato" perché all’ultimo esame; la studentessa che, oltre ad essere impreparata sul programma ed avere una capacità espositiva da terza media, mostra lacune intollerabili di cultura generale, e che tuttavia viene promossa; la studentessa che cade alla prima domanda e alla quale si concede di guardare sul libro per darle comunque la possibilità di rispondere (!). Ciò a fronte, in modo ridicolo, di programmi talora ponderosissimi, spiegati a passo di carica in una trentina d’ore (che si riducono notevolmente tra ritardi dei docenti, lezioni saltate, etc.) compresse in due mesi e mezzo/tre. Programmi utili solo al docente per ficcare i libri propri, o degli amici, nella bibliografia d’esame e fare bella figura con qualche suo referente.

  2. Massimo Cerro

    Contrariamente a quanto pubblicato nell’articolo, gli scatti automatici di anzianità rimangono biennali. Il decreto 112 recitava all’art. 69 «la progressione economica degli stipendi» «si sviluppa in classi ed aumenti periodici triennali con effetto sugli automatismi biennali in corso di maturazione al 1° gennaio 2009». Nulla più dice la legge di conversione 6 agosto 2008 n. 133. Come spesso accade si dà molto risalto alle notizie che possono far contento il popolino, ma non si dà altrettanto spazio a tutto ciò che lo può scontentare.

  3. Carlo Inverni

    Il resoconto sull’attività del governo per quanto riguarda l’Università stranamente non menziona il dl 180 poi convertito in legge1/09. Tale riforma necessità, per essere applicata, di due Decreti Ministeriali. Uno sulla composizione delle commissioni (che è uscito), l’altro sui criteri di valutazione di titoli e pubblicazioni (per i soli concorsi da ricercatore). Il secondo DM NON è mai uscito (doveva uscire il 9 febbraio…). Ciò de facto blocca tutti i concorsi da ricercatore banditi dopo il 10 novembre 08. Inoltre non sono mai state indette le procedure per consentire la nomina delle commissioni della I sessione 08. Il risultato è che il 2009 è stato un anno senza concorsi. L’ipotesi di una ulteriore riforma tramite un ddl può avere senso, tuttavia non sarà certo applicativa in tempi brevi e nel mentre va garantito il normale e regolare svolgimento dei concorsi. E’ assurdo che il Ministro sia libero di dire in giro che ha consentito di bandire 4000 posti da ricercatore quando non solo tali posti non sono stati banditi ma – anche se lo fossero – non potrebbero essere svolti i concorsi in assenza del DM sui criteri di valutazione.

  4. Silvia Bianchi

    La sostanza della azione del governo sull’università è stata la delegittimazione della rispettabilità e del ruolo dei docenti universitari nel loro complesso (partendo da alcuni casi eclatanti si è fatto passare il messaggio che "i docenti sono tutti baroni e fannulloni strapagati") per giustificare i tagli, anzi, le amputazioni senza anestesia al sistema accademico italiano. Se non ricordo male il tema della meritocrazia, inizialmente assente dai provvedimenti (che infatti portavano la firma del ministro Tremonti e non del ministro Gelmini), è stato introdotto dopo la vigorosa protesta del rettore del Politecnico di Milano, sostenuto dal Presidente della Regione Lombardia, Formigoni. Solo a quel punto si è parlato di ridurre i tagli del turnover (e non di eliminarli!) per le università "virtuose" e di introdurre un minimo meccanismo premiale. A tutt’oggi i meccanismi di valutazione non sono stati definiti e moltissimi ordinari anziani (fra i quali più probabilmente si annidano i baroni e i fannulloni) se ne andranno in pensione con lo stipendio pieno, mentre i loro giovani colleghi dovranno impegnarsi al massimo per far fronte all’accresciuto carico didattico.

  5. paolo Gianni

    Vi faccio notare che il rallentamento degli scatti automatici da biennali a triennali era presente nel testo originale del decreto legge, ma non nel testo finale in cui si parla solo di un differimento, una tantum, per un anno.

  6. Paolo Manzini

    “… le uscite del personale docente previste tra 2009 e 2012 si posizionano tra 1.500 e 2mila unità per anno”. Si fa riferimento a dati fortemente sottostimati, questi numeri erano validi prima dei provvedimenti citati nell’articolo (eliminazione del fuori ruolo, biennio opzionale che può essere negato, pensionamento coatto dei ricercatori con 40 anni di contributi). Il CNVSU (Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario) nel Nono Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario di dicembre 2008 a pag 85 riporta un grafico da cui si ricava che le uscite teoricheper raggiunti limiti di età tra 2009 e 2012 saranno tra duemilaseicento e 1.600 per anno. Ma subito dopo fa presente che il pensionamento rappresenta solo il 48,0 % delle effettive cessazioni dal servizio (variando dal 23,2 % dei ricercatori al 59,2% degli ordinari). Quindi ogni anno le cessazioni dal servizio tenderanno almeno al DOPPIO delle teoriche. Tenendo però conto che chi anticipa la propria uscita non l’effettuerà più al momento teorico, pare ragionevole concludere che il Sistema Universitario perderà nei quattro anni considerati fra i 2.500 e i 4.500 Docenti all’anno. In totale quasi 13.000!

    • La redazione

      Il CNSVU alla pagina 87 dello stesso rapporto citato dal lettore indica che le uscite per raggiunti limiti di età del personale docente saranno 2084 nel 2009, 2576 nel 2010, 1560 nel 2011 e 1659 nel 2012, per un totale di 9911 unità nel quadriennio 2009-2012. L’affermazione del lettore per cui ogni anno "le cessazioni dal servizio tenderanno almeno al doppio delle
      teoriche" è infondata perché la legge ha modificato la normativa sul fuori ruolo e abolito la discrezionalità dei due anni di proroga per i professori ordinari e associati oltre i limiti dell’età della pensione. Non è facile quindi estrapolare dai comportamenti passati. Molti docenti inoltre hanno presentato ricorso per rimanere in servizio anche oltre l’età dei 70 anni,
      e altri saranno riassunti dagli atenei con contratti di docenza o di ricerca di cui è difficile stimare il costo.

  7. Giovanni Scotto

    La scheda avrebbe potuto essere più esauriente su una serie di aspetti. Anzitutto va ricordato che la l. 1/2009 , che ha convertito il DL 180/2008, ha introdotto il blocco assoluto del turn over e degli stanziamenti premiali per le università cd. "non virtuose" – ovvero quelle che spendono per il personale oltre il 90% delle risorse a loro assegnate dal Fondo di finanziamento ordinario, e limitato al 50% il turn over per tutte le altre. A legislazione invariata, la diminuzione progressiva del FFO significherà l’aumento esponenziale nei prossimi anni di atenei "non virtuosi". Ciò a fronte della nota accelerazione dei pensionamenti. Poiché all’offerta formativa di base (lauree triennali e specialistiche) devono corrispondere precisi "requisiti minimi" stabiliti a livello ministeriale, questo significa che tali università saranno costrette a ridurre in maniera sensibile l’offerta formativa. Obiettivo esplicito del resto del ministro Gelmini.

  8. Lucandrea

    Nel resto d’Europa dove mediamente si spende di più (molto di più) in ricerca ed istruzione superiore e dove le possibilità di inserimento nel settore accademico è molto più alta per i giovani hanno continuato ed anzi incrementato le risorse. Perfino la già in crisi GB ha aumentato la spesa pubblica in questo settore ritenendola "strategica". Qualunque intervento che non miri a: aumentare la dotazione delle università, premiare la ricerca, aumentare lo standard qualitativo della didattica è un atto che è – mi si passi il termine – "sovversivo". Un primo – importante e privo di costi – passo sarebbe l’abolizione del valore legale del titolo di studio (di primo e secondo livello) ed (eventualmente) il riconoscimento legale del solo titolo di Dottorato di Ricerca. L’effetto sarebbe quello di evitare l’assalto da parte di statali frustrati che sperano nello scatto di carriera grazie all’acquisizione del titolo e la connivenza dei docenti che accettano di far passare gli esami (ma anche le tesi) perchè tanto "non fanno del male a nessuno". L’altro effetto sarebbe quello di permettere l’accesso alle posizioni nella PA non solo al titolo, ma al curriculum, cioè alla persona!

  9. Mario Trabucco

    Nelle recenti esternazioni del Ministro Gelmini si affronta il tema del collegamento dell’università con il mondo del lavoro. E in effetti tutta la nostra Repubblica è (o dovrebbe essere) fondata sul lavoro. Mi chiedo allora: che effetto avrebbe un sistema di valutazione dell’efficienza degli atenei legato al numero di laureati, specializzati, addottorati, che nell’ultimo anno possano mostrare un contratto di lavoro? Si potrebbe prendere il numero dei titolati e attribuire alla struttura (ateneo, facoltà, dipartimento) un punto per ogni contratto a tempo indeterminato, mezzo per un part-time o un tempo determinato, un decimo di punto per un contratto di collaborazione, e ovviamente un punto in meno per ogni disoccupato. Il punteggio, rapportato al numero totale dei laureati sarebbe un utile indicatore per attribuire fondi alle strutture che effettivamente formano personalità spendibili sul mondo del lavoro. Mi piacerebbe leggere una vostra opinione in merito.

  10. Leonardo Cannavò

    E’ vero, l’avvio della nuova normativa sui concorsi (che dovrebbe funzionare: è praticamente la fotocopia del sistema più avanzato di selezione d’Europa, quello spagnolo, in vigore da poco tempo) è un’occasione mancata. Il motivo è però non tanto economico, quanto giuridico. I tanto vituperati concorsi locali (scellerati sì; ma non scordiamo che molti di noi, anche di questo sito, se ne sono avvantaggiati; io per primo, 10 anni fa) già banditi, con domande e titoli depositati, non possono, ma debbono essere svolti, poiché questo è un principio ordinario del diritto. Il governo non si prende la responsabilità di riattivarli come dovrebbe; poi potrebbe passare al nuovo sistema. Le "vecchie" domande non possono confluire nel nuovo sistema, semplicemente perché è un illecito amministrativo prima e penale poi. Ma poiché nel nostro sventurato paese si pensa che il beppegrillismo sia cultura giuridica. Ovvio (ma mi sembra solo di scoprire l’acqua calda) che i tagli sconsiderati e insieme il polverone "meritocratico" che confonde diffusione bibliometrica e valutazione scientifica stanno assestando il colpo finale all’università pubblica.

  11. anonimo

    Mi pare che l’articolo badi troppo ai dettagli e poco al quadro generale. Che potrebbe essere questo. Il Ministro, dopo l’insediamento, ha preso atto che le Università hanno mal gestito le (poche) libertà lasciate loro; che non Le riusciva di ricondurle, in breve tempo, a maggior ragionevolezza; e che gli eventuali danni fatti ora si sarebbero comunque palesati dopo anni. Con il generale accordo del Governo, si è scelta la collaudata strada di affamare la bestia, bestia comunque già provata dai ministeri precedenti (p.e. Moratti e Mussi). Ora, delle due, l’una: se si vuole l’Università privata, la si privatizzi, ignorando le (giuste, a mio avviso) proteste. Il Governo ha una solida maggioranza e può riuscirci con tranquillità. Ma se la si vuole pubblica, la si finanzi decentemente e organizzi. Ricordo che la Repubblica investe circa il 5/1000 del pil in istruzione universitaria, che è un numero modestissimo (cfr. p.e. economist del 25 aprile). E che, comunque, se l’amministratore delegato dell’azienda X dicesse che i suoi ingegneri sono tutti ignoranti e corrotti, penserei che fa molto male il suo mestiere, soprattutto se poi resta al suo posto e nulla fa per migliorare.

  12. Luca Valerio

    Oggi la Gelmini ha finalmente sciolto i dubbi sui famosi criteri di ripartizione del famoso 7% e mi sono ricordato di questo articolo… vorrei sapere ora come commentate (detto simpaticamente, sia chiaro): Voi: "il numero dei corsi attivati, il numero e la qualità delle pubblicazioni scientifiche, l’impatto delle pubblicazioni sulla comunità scientifica" la Gelmini (stando al Messaggero, ci sono altri articli ma aspettiamo i documenti ufficiali): "il numero di studenti fuori corso, la quantità di laureati piazzati sul mercato del lavoro, i risultati della ricerca, la proporzione tra numero di docenti e corsi attivati". Più o meno ci siamo. Manca l’impatto delle pubblicazioni sulla comunità scientifica, ma voi vi rendete conto benissimo del fatto che è difficile usarlo come parametro (l’impact factor esiste nelle discipline scientifiche ma non in quelle umanistiche; ci sono disparità fra le sottodiscipline, es. in medicina, di cui mi occupo, la miglior rivista di Nefrologia ha IF minore della peggior rivista di Cardiologia). L’ho anche letto su questo sito…

  13. Vincenzo Spallina

    La gelmini ha, secondo me, iniziato un lavoro di riassetto del sistema universitario centrando i punti più cruciali. Sta intervenendo i quei settori (i software appunto) dove l’università italiana necessita di essere riformata, anche se non condivido proprio tutto quello che sta facendo. Tuttaltro! Il problema vero è che l’università italiana ha un problema più serio, ovvero non ci sono risorse a disposizione e anche gli atenei più eccellenti fanno fatica a confrontarsi con le università europee per non dire americane. Questo problema sono appunto i finanziamenti (di circa 2000 eur/stud inferiori alla media europea per non parlare del confronto con Francia Germania e GB). Fino a quando non si interverrà sui finanziamenti (l’hardware appunto) l’università italiana avrà sempre un handicap difficile da superare. Una riflessione più dettagliata è su questo link (è un pò datato ma i concetti di fondo sono ancora attuali): http://pdpoli.wordpress.com/la-questione-universitaria-vista-dai-giovani-del-pd/

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