Il cantiere delle regole per l’industria finanziaria dovrebbe occuparsi anche di alcuni aspetti più tecnici, che pure hanno avuto un ruolo centrale nella crisi. Come il trattamento delle attività finanziarie detenute da una banca per finalità di negoziazione. Il caso del trading book è utile per capire come dallo scarso coordinamento tra regolatori diversi e, in particolare, tra regole contabili e autorità di vigilanza possano scaturire fragilità e incertezza. Le soluzioni possibili per ottenere maggiore omogeneità nei criteri contabili.

Il “cantiere delle regole” per l’industria finanziaria è in grande fermento. Il dibattito si è finora concentrato su questioni di fondo, come il ritorno dello Stato banchiere, o contingenti, come restituire liquidità ai mercati. Minore attenzione è stata dedicata ad alcuni aspetti più tecnici che pure hanno avuto un ruolo centrale nella crisi. Tra questi, il trattamento delle attività finanziarie detenute da una banca per finalità di negoziazione, il trading book. Eppure il problema fondamentale oggi è quello della trasparenza dei bilanci e, come ricordato anche dal governatore Mario Draghi in un suo recente intervento pubblico, quello dell’omogeneità dei criteri contabili fra banche, soprattutto didiversi paesi. E il caso del trading book è utile per capire come dallo scarso coordinamento tra regulator diversi (in questo caso, tra regole contabili e autorità di vigilanza) possano scaturire fragilità e incertezza.

IL PORTAFOGLIO DI TRADING: UNA POLTRONA PER DUE

I principi contabili introdotti nel 2005 – Ifrs, meglio noti come Ias – chiedono di includere nel portafoglio di negoziazione, iscrivendole in bilancio al valore corrente, le attività che la banca ha intenzione di negoziare (“trading intent”) per trarre profitto dalle differenze di valore che si generano sul mercato. Questaintenzione, chiaramente soggettiva, prevale su criteri di carattere tecnico o operativo: ad esempio, il fatto che le attività siano facilmente valutabili o effettivamente negoziabili su di un mercato liquido. È dunque possibile includere nel trading book un titolo privo di quotazioni di mercato significative. Ma come stimarne il valore corrente? Esistono due soluzioni: l’uso dei prezzi di attività comparabili (“level 2”) o di modelli matematici calibrati sulla base di stime (“level 3”).
Nel trading book va iscritta la maggior parte delle posizioni in derivati, anche se detenuti per coprire il rischio di altri titoli.Per evitare che il derivato oscilli di valore, mentre il titolo “coperto” resta registrato al costo storico, sovente si classificano nel trading book entrambe le posizioni, così che le loro variazioni di valore si compensino. Anche per questo, molti prodotti finanziari, coperti con derivati, sono stati “attratti” all’interno del “trading book” e iscritti al valore corrente (marked-to-market, cioè “allineati al mercato”), ancorché illiquidi e complessi, ricorrendo al level 2 o (più spesso) al level 3.
Si potrebbe pensare che il trasferimento di posizioni nel trading book, cioè in una porzione del bilancio esposta ai capricci dei mercati, porti con sé un aumento dei requisiti patrimoniali minimi. Tutto il contrario. Il principale motivo risiede nel fatto che i modelli per il rischio di mercato ipotizzano di norma che i titoli possano essere liquidati entro un lasso di tempo limitato, ordinariamente una decina di giorni. Ciò, in linea di principio, limita il rischio in capo al singolo, pur mantenendo un presidio adeguato a livello di sistema: ciascun operatore avrà risorse per affrontare il proprio “spicchio” di perdite fino alla cessione ad altri.
Il capitale richiesto a fronte del rischio di credito dei titoli del trading book viene dunque misurato in modo mediamente meno severo, attraverso il rating assegnato dalle agenzie oppure modelli interni messi a punto dalla banca. Al contrario, le posizioni detenute fuori dal trading book (portafoglio di intermediazione o banking book) sono di norma oggetto di requisiti più articolati ed elevati. Il trasferimento nel portafoglio di negoziazione può dunque condurre a un minor assorbimento patrimoniale.

ESPANSIONE E COLLASSO

Ma davvero tutti i titoli trasferiti nel trading book sono effettivamente liquidi e negoziati? In realtà, spesso non è così. Per la normativa basta però che un intermediario si impegni a quotare dei prezzi, anche se non vi sono scambi.
Quando il mercato vira al peggio e le negoziazioni scompaiono, quando tutti gli investitori cercano di liquidare le posizioni per limitare le perdite, i prezzi possono facilmente inabissarsi e trascinare con sé anche i valori delle attività stimate tramite level 2 o 3. Gli effetti si propagano sull’intero portafoglio, moltiplicandosi rispetto al movimento originale. 
Si comprende allora come, finché i prezzi sono stati stabili o crescenti, fosse possibile conseguire (oltre ai profitti) un risparmio patrimoniale “impacchettando” crediti in titoli e spostandoli nel trading book. Il capitale di vigilanza così risparmiato poteva essere investito in nuovi attivi, meglio se nel trading book, in successivi “round” di negoziazioni e di investimenti. E per inciso, il meccanismo generava anche credito all’economia. Si accresceva tuttavia la porzione di bilancio da valutare al valore corrente, accentuando la volatilità/ciclicità dei profitti e dei requisiti patrimoniali.
Con la crisi dei mercati questo stesso moltiplicatore ha prodotto perdite ampie e accelerate (ancorché sovente solo sulla carta, visto che i titoli risultavano di fatto invendibili), che, a ogni trimestre, depauperando il patrimonio delle banche, ne compromettevano la solvibilità e quindi la capacità di raccogliere fondi su un mercato sempre più spaventato e illiquido. Per arrestare la spirale, i principi contabili sono stati modificati “in corsa”, consentendo lo spostamento di posizioni dal trading al banking book, evitando così la necessità di ulteriori svalutazioni.

CHE FARE ORA?

Il tema è molto delicato perché la significatività dei prezzi delle attività finanziarie è un bene pubblico, di rilievo macroeconomico, da cui dipende una parte non piccola della possibilità di ripartenza del mercato del credito e dell’economia reale.
Il comitato di Basilea, comprensibilmente preoccupato, ha recentemente proposto di rafforzare le tecniche di valutazione delle attività inserite nel trading book, sia in termini di modelli usati che di presidi organizzativi, affinché i prezzi esposti in bilancio siano maggiormente significativi. Idea di per sé condivisibile, ma che equivale a aumentare il numero degli arbitri in una partita di calcio dove parte dei giocatori crede di giocare a rugby. La proposta che si può avanzare è di rafforzare i controlli negli spogliatoi, così da lasciar fuori chi vuole giocare un’altra partita.
Fuor di metafora, va integrata la regola del trading intent, stabilendo che non possano essere iscritte nel portafoglio di negoziazione attività che non siano attivamente negoziate o non strettamente collegate a sottostanti attivamente negoziati. Ciò perché una posizione illiquida, non potendo essere gestita (ad esempio, immunizzata attraverso operazioni di mercato) può essere solo “subìta” e va dunque considerata un investimento a lungo termine. Tale obiettivo potrebbe essere conseguito escludendo dal trading book le posizioni oggi valutate a level 3, oppure tutte le attività che non siano state oggetto di transazioni reali, con terzi indipendenti, nell’esercizio considerato.
Il capitale di vigilanza sarebbe maggiormente aderente al rischio e si limiterebbero gli incentivi alla creazione di titoli illiquidi, complessi e soggetti a forte rischio di controparte. Si dice che di buone intenzioni – anzi, di buoni intent – è lastricata la via dell’inferno: non è mai troppo tardi per fermarsi prima del fuoco.

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