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LA SENTENZA EUROPEA E LA RIFORMA DELLE PENSIONI*

LA CONTROVERSIA COMUNITARIA

Con la sentenza del 13 novembre 2008, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha condannato la Repubblica italiana per la normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia ad età diverse a seconda che siano uomini o donne. La procedura di infrazione non riguarda i dipendenti privati, perché il regime previdenziale amministrato dall’Inps è considerato un regime c.d. legale, di natura previdenziale in senso tecnico, conforme alla normativa comunitaria. Il regime gestito dall’Inpdap rientra invece, secondo la Commissione e la Corte di giustizia, tra i c.d. regimi professionali, ovvero quei regimi nei quali il trattamento pensionistico è pagato al lavoratore direttamente dal datore di lavoro. Ora, poiché l’art. 141 del Trattato Ce definisce come retribuzione “il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore, in ragione dell’impiego di quest’ultimo”, il divieto di ogni discriminazione retributiva in base al sesso va applicato anche alle pensioni dei dipendenti pubblici. Dalla sentenza della Corte di Giustizia deriva dunque, per lo Stato italiano, l’obbligo di parificare l’età pensionabile dei pubblici dipendenti tra uomini e donne quanto alla pensione di vecchiaia.
Il 13 gennaio 2009 il Governo ha inviato una nota alla Commissione europea nella quale si assicura la volontà dell’Italia di adempiere alla sentenza, si rappresenta che le possibili soluzioni tecniche sono allo studio, che esse saranno applicate secondo criteri di gradualità e flessibilità e, infine, che maggiori ragguagli circa le soluzioni prescelte saranno forniti al più presto. In caso di mancato adeguamento, la Commissione aprirebbe formalmente la procedura con una lettera di messa in mora. Le sanzioni consistono in una somma forfetaria e in una penalità di mora. Per l’Italia è stata fissata una somma forfetaria minima di 9.920.000 euro, mentre la penalità di mora può oscillare tra 22.000 e 700.000 euro per ogni giorno di ritardo nell’attuazione della seconda sentenza, a seconda della gravità dell’infrazione. Si tratta, come si vede, di somme molto ingenti.
L’urgenza di ottemperare alla sentenza deriva anche dal fatto che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione discriminatoria senza doverne attendere la previa rimozione da parte del legislatore. Oggi, infatti, un dipendente pubblico di sesso maschile potrebbe adire il giudice nazionale per ottenere la pensione di vecchiaia a 60 anni, invocando la norma che prevede tale facoltà per le donne.

IL SISTEMA PENSIONISTICO ITALIANO

I dati sulle prestazioni di vecchiaia delle lavoratici del settore pubblico (per le quali il pensionamento a 60 anni è una possibilità non vincolante, introdotta con la riforma del 1995) consentono di evidenziare la consistenza della scelta di proseguire l’attività lavorativa anche se si sono maturati i requisiti per la pensione. La figura 1, che presenta la piramide per età di pensionamento dei percettori di pensioni dirette (vecchiaia, anzianità e inabilità) erogate dall’Inpdap, mostra che nel 2007 l’età modale per le donne è di 57 anni, ovvero di un anno inferiore a quella degli uomini; ma è elevata anche la frequenza delle uscite dal lavoro ad età più avanzate. In particolare si registra un picco in corrispondenza dei 60 anni, quando si ha la facoltà di accedere alla pensione di vecchiaia. Per le donne il ritiro avviene prevalentemente in corrispondenza dei requisiti previsti per il pensionamento di anzianità e per quello di vecchiaia; per gli uomini, invece, si distribuisce su di un arco di età più ampio, dato che il vincolo per la vecchiaia è più stringente ma più probabile l’uscita per anzianità, grazie a carriere lavorative più continuative. Le donne che si pensionano a 65 anni o anche ad età superiori non sono comunque poche (circa il 23 per cento delle uscite dal lavoro per vecchiaia).

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Figura 1. Pensioni Inpdap dirette sorte nel 2007 – Piramide per età

Fonte: Inpdap, Trattamenti pensionistici dei pubblici dipendenti, anno 2007.

LA RISPOSTA ALLA SENTENZA DELL’ALTA CORTE DI GIUSTIZIA

Al fine di parificare l’età pensionabile tra uomini e donne nel pubblico impiego, le soluzioni astrattamente prospettabili, limitando il più possibile il perimetro dell’intervento normativo sono tre:

a)     Elevare, nel settore pubblico, l’età pensionabile delle lavoratrici parificandola a quella dei lavoratori, rendendo obbligatorio e non più facoltativo anche a loro l’accesso alla pensione di vecchiaia a 65 anni. Tale soluzione comporterebbe risparmi di spesa pensionistica. Senza effettuare un analogo intervento sul settore privato si aprirebbe, comunque, un problema di parità di trattamento nella normativa pensionistica riferita alle lavoratrici tra settore privato e pubblico impiego.
b)     Estendere nel settore pubblico anche agli uomini la facoltà di accesso alla pensione di vecchiaia all’età di 60 anni. Tale opzione sarebbe onerosa per la spesa pensionistica e, comunque, in contrasto con la tendenza generale all’aumento della vita media e dell’età pensionabile. Anche in questo caso, poi, verrebbe a crearsi una notevole disparità tra i lavoratori del settore privato e di quello pubblico.
c)     Fissare per entrambi i sessi un requisito di età flessibile per l’accesso facoltativo alla pensione di vecchiaia nel settore pubblico, nell’arco di età tra 60 e 65 anni, con costi per l’erario da quantificarsi e comunque crescenti in relazione alla diminuzione dell’età minima stabilita, lasciando per tutti il limite legale a 65 anni. Si tratterebbe, in ogni caso, di una misura in contrasto con la tendenza generale all’aumento della vita media e dell’età pensionabile, e che aprirebbe un’asimmetria nella normativa pensionistica riferita ai dipendenti di sesso maschile tra il settore pubblico e quello privato.

A queste tre ipotesi più “conservatrici” se ne possono affiancare altre due più innovative:

d)     Estendere ai dipendenti pubblici il regime previdenziale dell’Inps, considerato dalla Corte di Giustizia di tipo c.d. legale. Tale soluzione consentirebbe di mantenere la differenza di età pensionabile tra uomini e donne ed escluderebbe la creazione di una disparità nell’ordinamento interno tra dipendenti pubblici e privati; ma comporterebbe una riforma di tutto il sistema previdenziale più radicale di quanto finora considerato, anche dai progetti del passato governo: l’Inpdap dovrebbe essere completamente assorbito da parte dell’Inps fino a scomparire, e così il sistema delle contribuzioni figurative, le peculiarità del trattamento di fine servizio (Tfs) e i regimi speciali, con costi ed effetti di difficile quantificazione.
e)     Fissare l’età della pensione di vecchiaia, uguale fra generi, a regime nella Pubblica Amministrazione nell’arco flessibile dei 62-67 anni.Questa soluzione farebbe tesoro del fatto che già ora, a legislazione vigente, dal 2013 in poi l’età minima di accesso alla pensione di anzianità diverrà di 62 anni per tutti i lavoratori dipendenti (63 per i lavoratori autonomi) e, inoltre, i dipendenti pubblici possono optare di rimanere in servizio fino a 67 anni. E permetterebbe sia di parificare l’età pensionabile tra uomini e donne, sia di elevarla gradualmente, e quindi di ottenere per il sistema pensionistico pubblico risparmi di spesa. La soluzione aprirebbe uno squilibrio rispetto al settore privato, ma proporrebbe anche un cammino di equiparazione delle opportunità e di prolungamento della vita attiva per tutti i lavoratori, dato che l’aumento a 62 anni nel 2013 del requisito di età per la pensione di anzianità si applica a tutti i dipendenti, e anche nel privato è possibile già ora rimanere al lavoro fino a 67 anni. La scelta di estendere il provvedimento anche al privato, infine, potrebbe comportare rilevanti risparmi all’intero sistema previdenziale italiano (pubblico e privato) e liberare così le risorse necessarie a compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere delle lavoratrici dipendenti.
La delineazione delle ipotesi di possibile azione deve, ovviamente, comprendere anche l’ideazione di un periodo transitorio di messa a regime delle norme, durante il quale i requisiti di età per il pensionamento di vecchiaia vengano elevati a gradini (ad esempio di un anno ogni due anni, o simili). Al fine di verificare gli effetti sulla spesa previdenziale e, più in generale, sulla finanza pubblica, delle ipotesi qui sintetizzate, il Ministro Brunetta ha avviato una Commissione di studio composta da Giuliano Cazzola, Fiorella Kostoris, Filippo Patroni Griffi, Germana Panzironi, Maria Cozzolino, Riccardo Rosetti e da me. Il 19 gennaio la Commissione ha prodotto un primo progress report dei lavori, che è stato pubblicato sul sito del Ministero per la pubblica amministrazione, a questo indirizzo.
Nelle prossime settimane la Commissione intende concludere il proprio impegno con la pubblicazione della relazione definitiva; ma sarà lieta di considerare con cura suggerimenti e proposte che possano provenire dagli amici della Voce.info.

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* L’autore è Consigliere economico del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione.

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  1. Nicola S.

    Buona la proposta della Commissione di cui al punto e) che ricorda quella di Cazzola al Parlamento. Ancora meglio se si fissasse un’età tra 65 e 68 anni (per tener conto dell’all’aumento della speranza di vita dall’anno della rif. Amato) l’età per ottenere la pensione di vecchiaia e tra 58 e 64 l’età per ottenere quella di anzianità.Alle pensioni di anzianità si applicherebbe esclusivamente il metodo di calcolo contributivo(è molto vicina ,ma più semplice della proposta Boeri-Bugiavini). I risparmi per lo Stato sarebbero molto consistenti, le possibilità di scelta dei lavoratori molto più ampie, il mercato del lavoro per queste fasce di età meno rigido.

  2. Antonio ORNELLO

    Mi ha molto colpito vederla asserire, Professore, che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione discriminatoria senza doverne attendere revoca o abrogazione. Così, 1) i dipendenti pubblici potrebbero invocare la pensione di vecchiaia a 60 anni, come le donne; 2) tutti i dipendenti con 57 anni potrebbero chiedere pensione di anzianità secondo il sistema contributivo, come le donne, entro il 2012; 3) anche i dipendenti con contributi maggiori di 18 anni al 31/12/95 potrebbero scegliere la pensione contributiva, come gli autonomi; 4) tutti i lavoratori potrebbero superare i 41 anni di contribuzione, per avere, con la pensione, la restituzione dei versamenti previdenziali; 5) l’importo pensionistico dei 41 anni dovrebbe essere superiore a quello dei 35. E potrei continuare ad elencare speranze di equità, disattese. Equità addirittura osteggiata da troppi professori, cultori della massimizzazione del risparmio previdenziale, proprio a spese di chi ha contribuito per più di 35 anni, come se non si capisse – ormai – che il risparmio pensionistico costituisce un boomerang per l’economia nazionale, favorendo il lavoro nero.

  3. Antonio ORNELLO

    In una circolare Inps di fine 2008 è stabilito che il dipendente, volendo cumulare pensione e reddito da lavoro, deve dimettersi. Giorni fa ho ascoltato il consulente pensionato Benelli, dire, su radio Rai 1, che il dipendente dimissionario pensionato avrebbe potuto, solo dopo qualche tempo, trovare un altro lavoro. La discriminazione tra autonomi e dipendenti è evidente dove si consideri che il mio barbiere, pensionato, non faceva il barman prima di pensionarsi, non avendo mai confuso lo shampoo con i cocktails, così come i ballerini televisivi non hanno necessariamente dovuto darsela a gambe per aver raccontato balle in tv. Non nego però il fascino di un vecchio Commissario che va a fare il commesso, magari in farmacia. Più facile è il caso di un Commercialista che finisce con lo svolgere semplici commissioni a pensionati committenti. Che mal di testa!

  4. varna baldo

    Mi viene spontanea una domanda dettata dalla mia ignoranza in materia: cosa significa che la Corte di giustizia qualifica il regime Inpdap come un regime professionale, ovvero un regime nel quale il trattamento pensionistico è pagato al lavoratore direttamente dal datore di lavoro? Risulta che siano iscritti all’Inpdap tutti i dipendenti pubblici sia quelli dei Ministeri o Enti dello Stato sia i dipendenti delle Regioni, Provincie e Enti locali; enti distinti che versano la contribuzione a carico datore di lavoro e nei confronti di tali dipendenti l’Istituto si comporta come l’Inps perchè a cessazione calcola la pensione spettante e la eroga. E’ forse perchè la Corte di giustizia ha un concetto di finanza allargato che comprende tutto ciò che è pubblico? Sono una dipendente pubblica e non mi sento discriminata per il fatto che la mia pensione di vecchiaia matura a 60 anni anzichè a 65, tuttaltro questa è una facoltà consentita perchè posso comunque rimanere in servizio fino ai 65 anni o fino alla maturazione dei 40 anni di servizio (a seguito delle ultime norme introdotte lo scorso anno col decreto Brunetta). E non si venga a dire che in questo modo si favoriscono le donne!

  5. Dina Borsari

    Si parla tanto di trattamento pensionistico uguale per tutti. Perché si mantiene il trattamento pensionistico diverso tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi? Verrà modificato anche il trattamento pensionistico delle e dei parlamentari?. E’ quello che tutti si aspetterebbero….

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