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NOTE TECNICHE SULL’ACCORDO INTERCONFEDERALE DEL 22 GENNAIO

Il motivo principale per cui la Cgil ha rifiutato l’accordo sulla riforma della contrattazione collettiva è la prospettiva che nei futuri rinnovi nazionali esso produca una riduzione degli adeguamenti retributivi rispetto all’inflazione. Cisl, Uil, Ugl e Confindustria, che lo hanno firmato, negano invece questa prospettiva. Cerchiamo di capire come stanno realmente le cose.
Occorre considerare, innanzitutto, che il nuovo accordo prevede esplicitamente che sia negoziato in ogni impresa un premio di produzione: sindacato e lavoratori avranno dunque un vero e proprio diritto all’apertura della trattativa per l’istituzione del premio di produzione in ciascuna azienda in cui il nuovo sistema si applicherà. Questo deve portare a un mutamento di grande rilievo, sia dal punto di vista dell’estensione della contrattazione aziendale, sia nella struttura delle retribuzioni. I sindacati che sapranno riformare se stessi e mettersi in grado di svolgere incisivamente questa funzione attiveranno un modello di relazioni industriali significativamente diverso da quello attuale. Ed è subito evidente che, se non si tiene conto di questo dato, tutti i confronti fra vecchio e nuovo sistema sono inattendibili.

LIVELLO NAZIONALE E LIVELLO AZIENDALE

Per quel che riguarda la parte della retribuzione negoziata al livello nazionale, l’accordo istituisce un meccanismo di adeguamento dei minimi tabellari secondo un indice previsionale costruito sulla base dell’Ipca (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo) che non è di per sé meno protettivo rispetto al meccanismo precedente, fondato sul riferimento all’“inflazione programmata”: esso, semmai, è destinato a portare un adeguamento più vicino all’inflazione reale, rispetto a quanto accaduto nel quindicennio passato.
Nel nuovo sistema il sindacato rinuncia a negoziare al livello nazionale aumenti retributivi collegati agli aumenti di produttività (come avveniva nel vecchio sistema), al fine di lasciare più spazio allo sviluppo della contrattazione al livello aziendale su questa materia. L’accordo, però, prevede pure che i contratti nazionali di settore istituiscano un “elemento retributivo di garanzia” (Erg), destinato a scattare nelle imprese dove la contrattazione di secondo livello di fatto non si attivi. È sostanzialmente una generalizzazione del meccanismo già da tempo previsto dal contratto collettivo dei metalmeccanici, dove è chiamato “assegno perequativo”. Anche se si considera soltanto la parte di retribuzione negoziata al livello centrale, non si può ragionevolmente affermare che il risultato di queste nuove norme-quadro sarà una sua riduzione prima di conoscere l’entità dell’Erg che verrà stabilita da ciascun contratto nazionale.
La Cgil esprime a questo proposito il timore che, nei settori in cui il sindacato è più debole, l’Erg di fatto non venga contrattato, o venga determinato in misura troppo bassa. Ma dove il sindacato è più debole era più difficile anche il “recupero di produttività” che veniva negoziato al livello nazionale nel vecchio sistema.
Finora, nel quadro dell’accordo del 1993, al livello nazionale si negoziava una parte maggiore della retribuzione complessiva, secondo un criterio tendenzialmente uguale per tutti i settori; si lasciava così uno spazio più ridotto alla parte di retribuzione legata agli aumenti di produttività o redditività effettivi e si sacrificavano sul piano nazionale le retribuzioni delle aziende più dinamiche. È possibile che anche questo abbia contribuito a tenere il livello generale delle nostre retribuzioni nettamente più basso rispetto a quelli di tutti i nostri maggiori partner europei.
D’altra parte, aumentare le retribuzioni è possibile soltanto in due modi. Il primo consiste nell’erosione del profitto, dove c’è, a vantaggio dei redditi di lavoro; per questo lo strumento più efficace e penetrante – almeno in riferimento alle aziende con produttività e redditività più alte della media ‑ non è certamente la negoziazione di uno standard nazionale che deve andar bene anche per i settori dove produttività e redditività sono più basse. Il secondo consiste nel rendere più produttivo il lavoro; questo è possibile soltanto attraverso l’innovazione; e l’innovazione che più conta, quella che sovente è portata dall’imprenditore straniero, la si contratta al livello aziendale, non a quello nazionale. Sindacati e lavoratori italiani finora hanno fatto troppo poco questo mestiere; non si può ragionevolmente negare che il nuovo accordo interconfederale apra maggiori spazi per svolgerlo.
Nel maggio scorso avevo proposto una formulazione della clausola relativa all’Erg suscettibile di offrire una “garanzia” assai efficace, pur mantenendo uno stretto collegamento di questa voce retributiva con l’andamento di ciascuna azienda. Si trattava della traduzione in linguaggio contrattuale di un’idea originariamente proposta da Tito Boeri e Pietro Garibaldi: un premio di produttività “di default” collegato al margine operativo lordo di ciascuna azienda, ma i cui parametri minimi fossero stabiliti a livello nazionale, per il caso di difetto di negoziazione nella singola impresa. Questo avrebbe anche costituito una sorta di “traccia” per la contrattazione aziendale anche nelle piccolissime aziende, da parte di lavoratori o sindacalisti privi di qualsiasi esperienza in questa materia. Vi è ragione di ritenere che, se la Cgil, nella trattativa svoltasi nel corso del 2008, avesse sostenuto un meccanismo di questo genere, la Confindustria non avrebbe opposto un rifiuto pregiudiziale. È vero che questo meccanismo non avrebbe prodotto aumenti retributivi nelle aziende che più soffrono l’attuale fase di recessione; ma questo non è necessariamente un male: la flessibilità della retribuzione in relazione all’andamento aziendale favorisce la continuità dell’occupazione ed evita le sospensioni del lavoro e i licenziamenti.

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LA RAPPRESENTATIVITÀ

L’accordo del 22 gennaio prevede la stipulazione entro tre mesi di un accordo ulteriore, per la definizione dei criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati, al livello nazionale e a quello aziendale. È evidente che un sistema di regole sulla rappresentanza non può funzionare se non lo firma anche la confederazione sindacale maggiore. Mi sembra difficile, però, che la Cgil possa sottrarsi alla negoziazione e stipulazione di questo secondo accordo, essendo sempre stata proprio la fissazione delle regole sulla misurazione della rappresentatività dei sindacati la bandiera della stessa Cgil. Quanto al contenuto di questo futuro accordo, fin dal maggio scorso le tre confederazioni maggiori hanno raggiunto un’intesa abbastanza precisa sulle regole da istituire.
Questo secondo passaggio potrebbe costituire l’occasione per ricucire lo “strappo” tra le confederazioni. E a quel punto, anche la riforma della struttura della contrattazione collettiva potrebbe decollare, nonostante il probabile permanere del dissenso della Cgil: una volta stabilito il criterio di misurazione della rappresentatività, settore per settore sarà la coalizione sindacale maggioritaria a decidere se applicare o no le nuove regole. Così avremo, per esempio, a seconda della maggioranza sindacale operante in ciascun settore, quello tessile e quello chimico che applicheranno le nuove regole, il settore metalmeccanico e quello del commercio che non le applicheranno; e ci sarà la possibilità di misurare e verificare gli effetti dell’uno e dell’altro assetto della contrattazione collettiva. A ben vedere, un vero pluralismo sindacale significa proprio questo: possibilità per modelli diversi di relazioni industriali di confrontarsi e competere tra di loro, in modo che i lavoratori possano compiere la loro scelta a ragion veduta, in modo pragmatico e non soltanto sulla base di opzioni ideologiche. Rinvio in proposito al dialogo con Eugenio Scalfari pubblicato in questo sito nel febbraio 2006.

DEROGHE AL CCNL

Tra le altre novità contenute nell’accordo, una di grande rilievo è costituita dalla previsione della possibilità che il contratto aziendale – se stipulato dalla coalizione sindacale maggioritaria– deroghi al contratto nazionale, sia in materia retributiva, sia in materia “normativa”; e questo sia in situazioni di difficoltà economica, dove è necessaria una riduzione dello standard retributivo, sia, al contrario, nelle situazioni in cui la deroga è necessaria per introdurre un’innovazione nell’organizzazione del lavoro non compatibile con il modello fissato dal contratto nazionale. Su questo punto è profondamente cambiata la filosofia stessa dell’accordo, rispetto al testo che era stato proposto dalla Confindustria nella primavera scorsa. Chi ha letto quanto ho scritto su questo punto (in particolare, il libro “A che cosa serve il sindacato?” e il saggio “Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore” ) sa perché considero indispensabile questo ampliamento dello spazio della contrattazione aziendale per aprire maggiormente il nostro sistema all’innovazione e agli investimenti stranieri, che sono il solo modo per ottenere un forte aumento delle nostre retribuzioni.
A dire il vero, nel mio libro testé citato non propongo che la facoltà di deroga venga attribuita a qualsiasi coalizione sindacale che sia maggioritaria nella singola azienda: propongo invece l’istituzione di un filtro ulteriore, costituito dall’appartenenza dei sindacati stipulanti al livello aziendale ad associazioni radicate in almeno tre altre Regioni. Questo al fine di evitare possibili degenerazioni del meccanismo, soprattutto nel Mezzogiorno. Credo che adottare questo filtro ulteriore in questo accordo interconfederale non sarebbe stato male (e le parti sono ancora in tempo per farlo); ma sono altrettanto convinto che in questa materia la possibilità di degenerazioni marginali non debba indurre a paralizzare o appesantire eccessivamente l’intero sistema nazionale.

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IL SETTORE PUBBLICO

Ho, invece, forti perplessità sulla possibilità di buon funzionamento del nuovo assetto della contrattazione collettiva nel settore pubblico. Fino a che non sarà stato attivato il sistema di valutazione indipendente e trasparente delle performance delle singole amministrazioni previsto dal disegno di legge approvato nel dicembre scorso dal Senato e attualmente in discussione alla Camera, non vedo come la contrattazione decentrata possa svolgere correttamente, in questo settore, la funzione di collegamento delle retribuzioni all’andamento gestionale.

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14 commenti

  1. Pietro de Biasi

    In realtà le critiche principali della CGIL all’accordo sono: riduce la tutela del CCNL, introduce gravi vincoli alla libertà di contrattazione. A mio giudizio la prima critica è infondata, la seconda è corretta. In realtà, contrariamente a ciò che si dice, il nuovo accordo rafforza il contratto nazionale. Innanzi tutto l’indice previsionale IPCA sarà sicuramente più alto di qualsiasi inflazione programmata. Infatti se osserviamo gli aumenti dati dal CCNL metalmeccanico, il più importante contratto, nel periodo di vigenza dell’accordo del 1993, questi sono quasi sempre stati inferiori all’inflazione reale, tant’ è che ad ogni nuova trattativa bisognava recuperare una parte di inflazione non valorizzata nella tornata precedente. Inoltre il nuovo elemento di garanzia introdotto non è affatto uguale a quello dei metalmeccanici, perchè si applica già in mancanza di contrattazione integrativa nel quadriennio precedente, rafforzando così enormemente il CCNL. E’ invece difficile contestare che un sistema che esclude la negoziazione salariale nel CCNL, affidando l’individuazione dell’aumento ad un ente terzo, privando le OS di qualsiasi potere negoziale, non sia molto problematica.

  2. Alioscia

    Scrive Ichino: "sindacato e lavoratori avranno dunque un vero e proprio diritto all’apertura della trattativa per l’istituzione del premio di produzione in ciascuna azienda in cui il nuovo sistema si applicherà". Domanda: "Ma davvero oggi per le RSU è proibito (dall’accordo del 1993) aprire una trattativa per il premio di produzione o per qualcosa del genere? Io non credo.

  3. GIAN PIETRO

    Quello che dice l’autore può anche essere condiviso, o comunque discusso nelle varie sue pieghe. Il problema è un altro (come sempre). Tutti le persone che percepiscono un reddito fisso, ma per ora mi fermerei a considerare i salariati (tutti) hanno una posizione criticissima nei confronti di tutti quelli, tecnici, politici, giuslavoristi, banche centrali e quanta’altri, perchè mai e poi mai prendono in considerazione nelle loro valutazioni il vero e unico problema che c’è in Italia, la madre di tutti i mali: l’evasione fiscale. Recentemente è stato pubblicato un dato sull’evasione stimata in Italia. E’ di 332 miliardi di Euro ogni anno! Dunque, perché ogni volta andare a ritoccare quelle condizioni di lavoro, rapporti di lavoro, orari di lavoro, normative sul lavoro, contratti che tendono sempre più a precarizzare il posto di lavoro. E mai una parola, se non timida e proferita con vergogna, sulla vera lotta all’evasione fiscale? Altro argomento caldo, che viene sempre disatteso, nella sua drammaticità, le morti bianche. Perché non si fa niente? Non si capisce che queste sono un attentato alla vita, perché non capirei che siamo alla frutta?

  4. Dario Quintavalle

    A due anni dal lancio della campagna contro i Nullafacenti, ripresa dal prof. Brunetta con il più fortunato termine di Fannulloni, sarebbe bene, invece di pensare all’ennesima Autorità Indipendente (lo abbiamo visto quanto sono indipendenti!), misurare i costi collettivi delle loro pensate. Alla Casta, che ha fatto dimenticare quanto costa, benone. Alla PA un po’ meno: ridotta al pubblico orinatoio su cui chiunque può scaricare il suo scontento; nessuna assunzione, quindi nessun rinnovamento; nessuna meritocrazia, totale demotivazione. Grazie! Nel frattempo, il mondo è cambiato, e nessuno può più raccontarci la favola del Privato che crea ricchezza e del Pubblico che la spreca. Oggi Obama si è detto scandalizzato degli alti bonus che sono stati attribuiti ai supermanager nonostante abbiano portato al tracollo le loro aziende. Ecco, anch’io vorrei aver conto dei bonus milionari pagati ai dirigenti di Alitalia, Trenitalia, per avere i risultati che sappiamo. È da lì che bisogna partire per “collegare le retribuzioni all’andamento gestionale”. Il pesce puzza dalla testa, non dalla coda…

  5. Paolo

    Argomentazioni plausibili, ci mancherebbe altro. Ma credo che sia sfuggito un fatto contabile molto importante: secondo molti commentatori l’indice Ipca viene depauperato di fatto di un buon 15 per cento perchè nel calcolarlo non si terrebbe conto dell’inflazione legata all’aumento di carburanti e materie prime. E inoltre forse non si tiene nel dovuto conto nella realtà che la contrattazioine di secondo livello verebbe applicata solo nelle aziende più grandi, mentre la maggior parte delle eziende italiane sono medio – piccole (per questo l’innovazione è spesso portata dagli stranieri: le aziende italiane sono troppo piccole per avere le risorse per sviluppare tecnologia e devono limitarsi a "comprarla").

  6. Giovanni Gisonda

    Complimenti. Finalmente ho potuto leggere un articolo che spiega in modo sufficiente i punti più significativi del nuovo accordo. Sarebbe però molto utile poter sentire il parere della CGIL, che non è d’accordo. Se aspettiamo le TV e i giornali, resteremo sempre tutti ignoranti.

  7. Davide

    Ma è cosi’ difficile capire che in tantissime aziende medio-piccole non avviene e non è mai avvenuta alcuna contrattazione aziendale? Ichino dice: "il nuovo accordo prevede esplicitamente che sia negoziato in ogni impresa un premio di produzione: sindacato e lavoratori avranno dunque un vero e proprio diritto all’apertura della trattativa per l’istituzione del premio di produzione in ciascuna azienda in cui il nuovo sistema si applicherà." A parte il fatto che questa è già la situazione attuale, ma lui sa che nella maggioranza delle aziende medio-piccole, ovvero la stragrande maggioranza delle aziende italiane, il sindacato molto semplicemente non esiste? È presente nel nuovo accordo una norma che difende il reddito di questa massa di lavoratori che non ha le forze (e la voglia) di contrattare a livello aziendale?

  8. lucio

    Condivido pienamente le considerazioni di Ichino, il grave problema è rappresentato dal conservatorismo delle organizzazioni sindacali, in particolare della CGIL, incardinato sulla filosofia del "ben altrismo" cioè che è sempre più urgente e meglio fare altre cose piuttosto che iniziare a fare le cose giuste di cui si sta discutendo per aggiungere immediatamente dopo tutte le altre azioni buone e opportune. Una delle condizioni inderogabili e urgenti per poter superare la drammatica crisi in cui ci troviamo è avere una classe dirigente, compresa quella sindacale, in grado di capire il nuovo scenario e i nuovi paradigmi, e rimettere al centro il merito e quindi differenziare i salari in funzione del grado di salute di ciascuna azienda e dell’impegno e delle capacità di ciascun lavoratore.

  9. Francisco Genre

    Dalla lettura del testo dell’accordo mi sembra di evincere nel punto 15 che il cosiddetto “elemento retributivo di garanzia” non viene escluso ma non viene nemmeno imposto come soluzione. Non siamo in presenza, quindi, di un nuovo diritto per le organizzazioni sindacali, e così non potrebbe essere dato che tale soluzione era già stata adottata precedentemnte in alcuni ccnl, ma al massimo di una dichiarazione programmatica. Così vale anche per altre eventuali forme di garanzie. Non ci sono quindi obblighi cogenti per le parti datoriali che tra l’altro possono godere di benefici fiscali anche in caso di contrattazione individuale.

  10. Sonia

    Sono un lavoratore della sanità. Mi sembra di capire che con questo accordo i lavoratori pubblici saranno più penalizzati dei lavoratori privati per almeno 3 ragioni: 1) gli aumenti, al contrario del privato, saranno definiti nel rispetto e nei limite della legge finanziaria assumento l’indice IPCA come parametro di riferimento 2) si procederà alla verifica dell’eventuale scostamento solo alla fine del triennio e l’eventuale recupero (eventuale è riferito anche alla possibilità che una volta verificato lo scostamento si possa anche non recuperarlo?) avverrà nel triennio successivo 3) come sarà possibile, a fronte della mancanza assoluta di sistemi che misurino la produttività, fare una contrattazione di secondo livello? La mia azienda ha un deficit di 73 milioni di euro ed è nel fatidico nord-est, in una Regione, il Veneto, che negli accordi regionali ha sempre messo a disposizione pochissimo a fronte di bilanci molto sostanziosi.

  11. francesco papa

    Ho letto con molto interesse il commento, del prof Ichino, quello che mi meraviglia e’ quando parla di ”diritto” del lavoratore e del sindacato ”maggiormente rappresentativo” ad avere una contrattazione di secondo livello, che si fa nel caso di violazione? In ambito civile o penale la violazione di un diritto da ragione al ricorso in sede giudiziaria; nel caso di mancata volonta’ di procedere all’accordo di secondo livello (maggioranza delle aziende italiane) quale organo l’ordinamento indica per costringere i datori di lavoro a porre in essere la contrattazione di secondo livello? Non si puo’ parlare di diritto, si puo’ parlare di tentativo di limitare per le imprese dei costi derivanti da standard nazionali. Se si vuole aumentare veramente i salari cominciamo a recuperare un po’ di fiscal drag, potremmo poi, in aggiunta allo standard nazionale nelle imprese piu’ virtuose, andare a contrattare un altro pezzo di salario ma il riferimento nazionale non deve essere smantellato, infine paghiamo le imposte su ciò che residua dai nostri stipendi una volta effettuati tutti gli esborsi per condurre una vita dignitosa, in questo modo emergerebbe anche l’evasione.

  12. andrea malatesta

    E’ noto che solo il 30% dei lavoratori del settore privato ha un contratto integrativo. Non mi pare che da questo accordo-quadro le cose possano cambiare in modo che la maggioranza dei lavoratori possa avere una contrattazione di secondo livello. Immaginare tra l’altro che ciò possa avvenire in una fase di recessione economica, che potrebbe sfociare in una vera e propria depressione, è pura follia. Bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di ammettere che i contratti che saranno stipulati secondo questo accordo-quadro sposteranno gli aumenti contrattuali dalla parte riservata alla generalità dei lavoratori della categoria alla contrattazione di secondo livello, dove già esiste. I lavoratori italiani sono destinati ad avere le retribuzioni più basse d’Europa, dopo quelle dei lavoratori greci.

  13. VINCENZO TONDOLO

    Dice, giustamente, il prof. Ichino che "se non si tiene conto di questo dato (cioé della capacità dei sindacati di riformare se stessi e mettersi in grado di svolgere incisivamente questa funzione), tutti i confronti fra vecchio e nuovo sistema sono inattendibili". Mi chiedo e chiedo ai cd. esperti: se in questa fase ti impongono una scelta tra "prendere o lasciare", quale tipo di confronto potrà scaturire per il futuro? Se il primo obiettivo, come già visto nel passato, è quello di dividere "chi ci sta" da "chi non ci sta", è davvero immaginabile una "qualità" di confronto. Qui non si tratta di metodo, ma di regole elementari tra persone civili.

  14. Daniele Fppi

    Sono un delegato sindacale appartenente ad una delle organizzazioni firmatarie dell’accordo del 22 Gennaio, e mi vien da dire: finalmente un po’ di chiarezza! . Lo dico perché finalmente il prof. Ichino ha chiarito alcuni degli aspetti fondamentali dell’accordo. Si sente oggi tanto parlare a sproposito su questo accordo per motivi che non riesco a capire, o che forse capisco, ma spero non sia così. Spesso mi domando se i giornali e tanti politici che ne parlano hanno letto il testo o, se l’hanno letto, se hanno almeno le basi per riuscire a capirlo! Chiaro è che ci sono ancora molte ambiguità da chiarire, ma queste negli accordi sottoscritti tra le parti sociali ci sono sempre state. Purtroppo non credo sarà facile riuscire ad applicare il nuovo modello con la CIGL che continua ad osteggiare il cambiamento ed a fare del vittimismo. Purtroppo in Italia, né una parte degli industriali, né la CIGL hanno mai voluto parlare di produttività (in termini di innovazione) e di partecipazione. Con questo accordo si potrebbe iniziare a parlarne, se tutte le parti in gioco facessero la propria parte. Spero che non rimarrà in gran parte inapplicato come invece è successo per l’accordo del ’93.

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