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STUDIARE, L’INVESTIMENTO CHE NON RENDE

Tra il 1993 e il 2004 i rendimenti dei titoli di studio di livello universitario e di scuola media superiore sono diminuiti in Italia in modo consistente e statisticamente significativo. E la diminuzione è più marcata quando si considerano separatamente gli individui con un’età inferiore o superiore a 35 anni. Un risultato sorprendente soprattutto se comparato con le dinamiche di altri paesi sviluppati. Tre le possibili spiegazioni: il ruolo svolto dalle nuove tecnologie, la struttura del commercio internazionale, le caratteristiche istituzionali del mercato del lavoro.

L’Italia ha una delle più basse quote di individui con alti livelli di istruzione fra i paesi Oecd e la letteratura sottolinea come investire in istruzione in Italia renda relativamente meno che in altri paesi. (1) Pochi laureati, basse remunerazioni e, fatto ancora più sorprendente, i rendimenti dell’istruzione che diminuiscono nel tempo a partire dall’inizio degli anni Novanta.

LE RIFORME NON C’ENTRANO

Proprio la variazione nel tempo dei rendimenti dell’istruzione è stata analizzata in un recente studio utilizzando i dati dell’Indagine sulla ricchezza delle famiglie della Banca d’Italia per il periodo tra il 1993 e il 2004. (2)
Il campione su cui si sviluppa l’analisi è costituito dai lavoratori dipendenti nel settore privato. Il livello di istruzione è misurato in quattro categorie: istruzione elementare, media, secondaria, terziaria. E e le stime sono ottenute attraverso la specificazione di una equazione minceriana dei salari. La ricerca dimostra che i rendimenti dei titoli di studio di livello universitario e di scuola media superiore tra il 1993 e il 2004 sono diminuiti in modo consistente e statisticamente significativo. In particolare, il premio associato al possesso di un diploma di istruzione universitaria rispetto al premio salariale relativo a un diploma di scuola elementare si riduce lungo l’intera distribuzione dei salari, con una diminuzione che varia dal 39 per cento in corrispondenza del decimo percentile al 18 per cento in corrispondenza del novantesimo percentile. Un discorso analogo vale anche quando si utilizzano informazioni più dettagliate sulla tipologia della laurea conseguita. La diminuzione dei rendimenti dell’istruzione è evidente per le lauree umanistiche e professionali, mentre per le lauree scientifiche i rendimenti, pur riducendosi nel tempo, non manifestano una variazione statisticamente significativa. Per quanto riguarda invece il premio salariale di un diploma di scuola media superiore, la diminuzione è di almeno il 30 per cento in corrispondenza di tutti i quantili della distribuzione dei salari, e  riguarda sia i licei sia gli istituti tecnici.
Non solo. La diminuzione dei rendimenti dell’istruzione si conferma anche quando si utilizzano nell’analisi diversi sottogruppi della popolazione, ad esempio considerando soltanto gli uomini, includendo i lavoratori autonomi o distinguendo tra giovani e meno giovani. Quest’ultimo caso ci sembra di particolare interesse. La diminuzione dei rendimenti relativi al possesso di un diploma di scuola secondaria superiore e di un diploma di laurea è più marcata quando si considerano separatamente gli individui con un’età inferiore o superiore a 35 anni. Ciò sembra escludere una spiegazione del declino dei premi salariali basata sulla diminuzione della qualità media del capitale umano, da alcuni osservatori collegata agli effetti delle riforme del sistema scolastico e dell’ordinamento universitario avvenute nel corso degli anni Novanta. Se ciò fosse realmente accaduto, avremmo dovuto riscontrare una dinamica decrescente dei rendimenti concentrata sugli individui più giovani, direttamente coinvolti dagli effetti delle riforme. I nostri risultati dimostrano invece il contrario.
Gli andamenti decrescenti dei rendimenti dell’istruzione in Italia sorprendono soprattutto quando vengono comparati con le dinamiche di altri paesi sviluppati. Nei paesi anglosassoni, Stati Uniti e Regno Unito, i rendimenti dell’istruzione sono fortemente aumentati negli ultimi decenni, generando una rilevante crescita dei redditi da lavoro delle persone qualificate rispetto alle non qualificate, con un relativo marcato incremento della disuguaglianza. Da questa evidenza empirica ha preso il via un’ampia letteratura inerente i cambiamenti skill-biased (cioè a favore del lavoro qualificato) dei moderni mercati dei lavoro. E anche rispetto ad altri paesi europei, per i quali l’evidenza di cambiamenti skill-biased è meno pronunciata, si assiste comunque generalmente ad aumenti dei premi per i lavoratori qualificati, anche se meno accentuati rispetto ai paesi anglosassoni, o a una sostanziale stabilità, mai però a una marcata diminuzione.

PERCHÉ ACCADE

Quali spiegazioni si possono delineare per la caduta dei premi dell’istruzione in Italia? In linea con la letteratura internazionale sull’argomento, si possono avanzare tre possibili interpretazioni. La prima fa riferimento al ruolo svolto dalle nuove tecnologie, la seconda alla struttura del commercio internazionale, la terza enfatizza le caratteristiche istituzionali del mercato del lavoro.
Per quanto riguarda il ruolo della tecnologia, le maggiori istituzioni internazionali hanno da tempo evidenziato la scarsa propensione in Italia ad adottare nuove tecnologie e a investire in attività innovative. (3) Se si accetta l’ipotesi che il lavoro qualificato è maggiormente complementare, rispetto al lavoro poco qualificato, all’impiego di capitale Ict e alle attività R&D, è possibile argomentare che la dinamica insufficiente degli investimenti innovativi abbia giocato un ruolo significativo nel declino dei rendimenti dell’istruzione.
La spiegazione tecnologica si lega d’altra parte al modello di specializzazione produttiva e quindi alla tipologia di commercio internazionale del nostro paese, particolarmente concentrata in settori tradizionali ad alta intensità di lavoro, spesso poco qualificato. Così, mentre in altri paesi l’interazione fra commercio internazionale e tecnologia ha favorito la crescita relativa dei salari dei lavoratori qualificati, come nel caso degli Stati Uniti, in Italia sembra delinearsi lo scenario opposto. La relazione viziosa fra specializzazione produttiva in settori tradizionali e scelte tecnologiche delle imprese può dunque in parte contribuire a spiegare la diminuzione dei rendimenti dell’istruzione dei lavoratori qualificati.
Una spiegazione alternativa, infine, si riferisce alle caratteristiche istituzionali del mercato del lavoro. In questo caso si pone l’attenzione su fattori come la contrattazione centralizzata e il ruolo dei sindacati, che potrebbero aver esercitato nel tempo una pressione crescente verso la compressione dei salari dei lavoratori più qualificati. Tale spiegazione sembra tuttavia meno convincente rispetto alle precedenti. Nel periodo in esame, la contrattazione collettiva non ha subito riforme significative e i dati inerenti le dinamiche sindacali sembrano suggerire una diminuzione dell’incidenza del sindacato piuttosto che un suo rafforzamento. Sembra pertanto difficile giustificare la diminuzione dei rendimenti dell’istruzione con una maggiore pressione verso la compressione esercitata dalla contrattazione collettiva e dal sindacato.

(1) Oecd (2008), Education at a Glance, Ocse press. Si veda poi ad esempio Boeri T., Galasso V. (2007), Contro i giovani. Come l’Italia sta tradendo le nuove generazioni, Mondadori.
(2) Si veda Naticchioni P., Ricci A., Rustichelli E. (2007), “Far from a skill-biased change: falling educational wage premia in Italy”, Tor Vergata Ceis Working Paper, n. 260, in corso di pubblicazione per Applied Economics.
(3) Secondo i dati forniti dall’Oecd (2001) nel 1996 la quota di beni capitali Ict sullo stock di capitale in Italia era circa il 2%, mentre si attestava al 5% nel Regno Unito e al 7% negli Stati Uniti. Inoltre, dai dati di fonte Oecd Stan si può notare che la percentuale di spese in R&D nel settore privato italiano, calcolata sulla produzione a costi correnti, è diminuita dal 1991 (0,98 per cento) al 2001 (0,68 per cento) ed è comunque decisamente inferiore ad altri paesi come la Francia (dove si attesta intorno al 2,3 per cento), la Germania (2,7 per cento) e Stati Uniti e Giappone (circa 3 per cento).

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FACOLTA’ DI AGRARIA: TUTTO IN FAMIGLIA

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TRE PROPOSTE PER L’UNIVERSITA’

34 commenti

  1. Beppe

    Direi che un’altra spiegazione del fatto che studiare in Italia non rende si possa ricondurre al clientelismo. Senza dilungarmi troppo cito un esempio eclatante: un uomo di 37 anni trova lavoro come impiegato bancario senza avere né laurea in Economia ma con un semplice diploma tecnico industriale. Il sottoscritto, laureato in Economia non ha mai ricevuto risposta da una banca. Quanti esempi conosciamo di questo tipo nelle nostre esperienze quotidiane? Credo che studiare sia invece un ottimo investimento per chi giustamente eccelle e per chi abbia uno sponsor vicino. Questo per me è il mercato del lavoro italiano

  2. Massimo MERIGHI

    Chi mai ha pensato che sia la classe dei dirigenti ad essere inadeguata a fornire le linee guida ai propri dipendenti? In un paese in cui la media dei dirigenti laureati è la piu’ bassa di altri paesi sviluppati non cè da stupirsi poi se per il processo di cooptazione dirigenziale si scelgano altri dirigenti non-laureati eliminando di fatto il valore pratico della laurea come leva salariale. Ma non vi preoccupate più di tanto oggi pure il mercato dei cervelli è globalizzato per cui spesso, anzi sempre per un laureato è più conveniente andare all’estero. Il che significa una perdida secca per il sistema italia, soluzioni: meritocrazia, meritocrazia ed ancora meritocrazia!

  3. Laura

    Buongiorno, mi sono laureata nel 1989 in lettere moderne e non ho voluto insegnare. Cosi’ mi sono dovuta arrangiare con lavoretti precari e sottopagati. Ultimamente non segnalo nemmeno più la laurea nel curriculum, già ho 44 anni e faccio scappare tutti per l’eta’, con il titolo di studio diventerebbe ancora peggio.

  4. T. Gennari

    Le prime due spiegazioni proposte sono senza dubbio le più convincenti. A loro volta, potrebbero essere in parte spiegate dalla bassa diffusione di cultura e alta educazione tra le classi dirigenti, pubbliche e private, italiane.

  5. nicola di feo

    Il tempo in cui viviamo invita i giovani a non studiare e darsi alla musica, allo sport e soprattutto alle cose futili che danno un guadagno immediato. Questo fenomeno è attribuibile alla grande pubblicità che si fa ai personaggi del mondo dello sport e dello spettacolo in genere per i lauti guadagni. Una TV più cauta e senza enfatizzare molto il personaggio che non offre alcun utile alla società in cui vive. I giornali meno euforici nei confronti dei privilegiati, perchè in fondso tali sono. Il gioco del pallone al quale si da una notevole importanza può essere sicuramente la panacea per alcuni mali di carattere nazionale, ma diventa sensibilmente il male che devia le coscenze e i cervelli. Imporre ad esempio a questi giovani di frequentare scuole e univcersità per dare un senso alla vita, un concetto all’attività che si svolge e darsi una cultura tale da far capire ai più che la vita è bella ma con i sacrifici appropriati è ancor più bella. Che senso fa ad un ragazzo vedere un cassano e altri che sono un po effervescenti e che non conoscono la lingua italiana ? semplice giocare al pallone è meglio che studiare.

  6. Armando

    Clientelismo e nepotismo sono effetti delle due prime spiegazioni. Essi sono permessi sia dalla bassa tecnologia dei processi produttivi che dalla specializzazione manifatturiera degli stessi. Se il lavoro è dequalificato chiunque potrà svolgerlo, e perché non il protetto?

  7. Marco Solferini

    Non posso che essere d’accordo con la prospettiva che i numeri citati nell’articolo dipingono, per quanto essa sia la rappresentazione di un problema assai serio, che si è trascinato e continua a farlo da molti anni. L’insegnamento, inteso come conoscenza e acquisizione di professionalità, rimane una delle risorse più importanti per la crescita delle economie nella Nazione, purtroppo c’è un serio problema di meritocrazia lavorativa, laddove è indiscutibile che l’accesso al mondo del lavoro è autogestito, di città in città, da consolidate e potenti caste locali. Vere e proprie parentesi di disuguaglianza organizzata che si interpongono fra i giovani e, più che l’accesso al lavoro, le loro reali possibilità di carriera. E’ altresì evidente che a livello universitario, è da tempo in essere la dispendiosa e potenzialmente infinita prassi di creare corsi e materie allo scopo di allocare poltrone, un moltiplicatore umano spesse volte giustificabile solo attraverso logiche di lobby. Naturalmente questo è massacrante per la spesa pubblica e annacqua la formazione dei giovani perché trasforma lo studente in un numero adatto ad un macroscopico risiko numerico privo di contenuti formativi.

  8. mirco

    Nei contratti del pubblico impiego, i sindacati hanno influito eccome, tant’è che nella riforma delle qualifiche professionali la laurea è considerata carta straccia.

  9. Carlo

    Condivido l’analisi, ma come si concilia con l’articolo: “Laurea – un ottimo investimento” di 3 anni fa, che criticai gia’ allora?
    http://www.lavoce.info/articoli/-scuola_universita/pagina1818.html
    O la situazione e’ cambiata drasticamente negli ultimi 3 anni, o mi fa alquanto strano trovare articoli che dicono l’esatto contrario l’uno dell’altro!

  10. Corrado Rainone

    Leggendo l’articolo mi sorge un dubbio: se il calo del rendimento dei titoli di studio può essere collegato agli scarsi investimenti in tecnologie avanzate ormai tipici del nostro paese, come mai le lauree scientifiche (che presumibilmente sono ben più legate agli investimenti in tecnologia di quelle professionali o umanistiche) sono meno toccate delle altre da questa perdita di valore, come i dati evidenziano?

  11. marco

    Il vero motivo per cui molte società straniere tendono ad assumere laureati italiani è proprio perché i dottori italiani sono a basso costo, e accettano un salario ben al di sotto della media europea. a ciò contribuisce non solo e non tanto una sedicente scarsa qualità dei nostri corsi di laurea, quanto una legge sul lavoro e tin materia di contrato di primo impiego che non li tutela per niente. I sindacati sono interessato a un’acquisizione di diritti e tutele progressiva con l’età del lavoratore, e pongono scarsa attenzione ai giovani che cercano un primo impiego. Al ruolo carente dei sindacati in Francia ad sempio supplice l’efficienza delle associazioni studentesche, da noi una realtà invisibile quando c’è da rivendicare un salario dignitoso. vi è poi la mentalità tutta italiana, e di comodo per molti, per la quale dalla teoria bisogna passare alla pratica, il laureato non è in grado di lavorare, e ha bisogno di un periodo di tirocinio, magari gratuito, in cui deve "imparare un mestiere". Sottovalutiamo il valore della cultura, e quindi neghiamo un valore economico a chi la possiede.

  12. Salvatore Filippone

    Ieri stavo facendo un conto dei ragazzi in gamba con cui ho avuto a che fare negli ultimi 8 anni in università: su 11, solo 2 sono in Italia, 1 in USA, 1 in Francia, 3 in Svizzera, 3 in Germania, 1 in Gran Bretagna. E non torneranno. Che abbiamo pagato a fare? Per fare un regalo agli altri paesi? La logica conseguenza dei dati dell’articolo è semplice: aboliamo le università che tanto sono uno spreco di denaro pubblico. Oops, un momento, ma ci stanno già mettendo mano…

  13. Ennio

    44 anni, Laurea in giurisprudenza, corso post laurea in Comunicazione, seminari e convegni a go go, conoscenza del mondo delle nuove tecnologie, uso abituale e non per modo di dire del computer…. il mio capo mi usa anche per fare la rassegna stampa e le ricerche su internet visto che lui sa appena accendere il computer… Il Mio capo è un Amministratore Unico di una S.p.a. che fattura 3 milioni in servizi alla P.A…. Il mio stipendio!? 900 Euro… Troppo per quello che faccio!? Peccato che sono anche responsabile Ufficio Gare!

  14. giovanni

    La prima spiegazione dei bassi salari è la totale deregolamentazione del mondo del lavoro. In Francia e altri Paesi lo stage è possibile solo per studenti, non èuna forma contrattuale proponibile a dei laureati. E in Francia essite un contratto di primo impiego e un ruolo da protagonisti delle associazioni di neolaureati che qua non esiste.

  15. Fabrizio

    Le conclusioni a cui siete arrivati erano già note da diverso tempo.Nelle inserzioni i posti di qualità per neolaureati sono riservati esclusivamente ( giustamente) a chi ha conseguito la laurea con ottima votazione e in tempo utile e svariate volte richiedono anche un Master attinente e un ottimo inglese e siccome questi posti sono veramenti pochi rispetto al totale, i pochissimi che hanno i titoli idonei vi accedono con tutte le conseguenze positive del caso, il resto, ossia la stragrande maggioranza va a svolgere lavori di ordinaria amministrazione per i quali, a livello di contenuto tecnico, è sufficiente un diploma di scuola superiore relativo al settore per il quale si va a lavorare. In poche parole, in termini quantitativi il sistema universitario attuale è un mero stipendificio per i professori e tutto l’indotto che ci lavora e ciò viene ulteriormente confermato anche a livello qualitativo perchè la preparazione conseguita è puramente teorica e totalmente scollegata dalle esigenze operative richieste dal mondo del lavoro!! Oltre al danno vi è anche la beffa che un neodiplomato raccomandato dal sindacato ti soffia il posto dopo aver conseguito laurea, master e stage!

  16. Gino

    Il livello di istruzione in Italia è davvero desolante: un’ennesima prova è fornita dall’ atroce italiano (italiano?) in cui scrivono i tre esimi ricercatori: "Il campione su cui si sviluppa l’analisi", "il premio salariale associato al possesso di un diploma", la "tipologia della laurea conseguita" (neanche a livello universitario si conosce piu’ la differenza tra "tipo" e "tipologia"). Trovo poi che con la frase "Sembra pertanto difficile giustificare la diminuzione dei rendimenti dell’istruzione con una maggiore pressione verso la compressione esercitata dalla contrattazione collettiva e dal sindacato", gli autori approdino inconsapevolmente nella prosa d’arte: peccato solo che la frase sia incomprensibile.

  17. Erika

    Vogliamo poi parlare dell’importanza che riveste il possesso di una laurea di primo livello (triennale) e di una successiva laurea magistrale di specializzazione agli occhi di una selezionatore? Giusto ieri ad un colloquio per il mio primo impiego mi sono sentita dire che "i selezionatori sono stufi di leggere di persone con due lauree. Sono tutte frottole! voi avete una e una sola laurea come noi vecchio ordinamento!". E io per cosa avrei studiato due anni in più? Per acquisire maggiore specializzazione o per scaldare ancora un po’ la sedia della mia cara (in tutti i sensi) Università?! Poi parliamo di investimento che non rende…nel mio caso, questo è doppio!

  18. Maurizio Porcellano

    Concordo sostanzialmente con le prime due tesi proposte nell’articolo. Il problema è dato dalla domanda media di lavoro non "qualificato", o meglio di tipologie di lavoro che possono essere svolte adeguatamente anche da non laureati. Dal punto di vista del datore di lavoro un dipendente viene retribuito per il ruolo e le mansioni che effettivamente svolge e non per i titoli di studio acquisiti. Esiste pertanto anche un problema di orientamento agli studi, soprattutto universitari. Le lauree non hanno tutte lo stesso valore di "mercato"; ci sono molti laureati con titoli "aspecifici" a fronte di un numero molto ristretto di posizioni lavorative per quali sono richieste per lo più lauree scientifiche e sapere molto ,molto specialistico.

  19. az

    Il problema è tutto lì. Un laureato tecnico antico ordinamento aveva a metà anni 90 uno stipendio di ingresso attorno a 1.400.000, e in due anni poteva raggiungere i 2 milioni e sorpassarli. Non molto. Ma oggi, nei fatti, un perito e un laureato hanno pari stipendi di ingresso (attorno ai 1000 eur, potere d’acquisto inferiore rispetto agli anni 90). Questo perché la produzione di tecnologia italiana (già bassa allora) negli ultimi 15 anni è diminuita. In molti settori hi tech le aziende sono passate in mani estere, e i nuovi proprietari hanno azzerato o quasi l’R&D in loco, lasciando solo la produzione. Nei 90 i periti con ruoli di dirigenza tecnica spesso osteggiavano l’ingresso dei laureati ("non sano fare"). Oggi in molti casi quelle aziende non esistono più. Scoppiata la bolla dell’IT, neanche gli informatici sono più al sicuro. Nel frattempo, per fare un esempio, l’Irlanda, iniziava ad offrire posizioni postdoc a 3.300 euro/mese, attirando investimenti nell’alta tecnologia. Una combinazione letale tra involuzione universitaria e politica dei tagli qui ha portato a un panorama generale desolante, dove le isole di eccellenza sono, appunto, isole.

  20. alessandro

    E’ inutile creare università di eccellenza quando è già forte e presente il fenomeno della fuga dei cervelli. E’ inutile enfatizzare la bassa scolarizzazione degli italiani quando i giovani soccombono dietro a master, corsi post-laurea e stage: meri ammortizzatori sociali creati per dare lavoro più a chi li produce che a chi li frequenta. L’università ha i suoi problemi, ma il principale problema consiste nel mercato del lavoro. I bassi salari sono il risultato di un mercato del lavoro che si trova sul gobbo l’inefficenza di chi tutelato dalle giuste conoscenze o da qualche sigla sindacale è un intoccabile e che pertanto spreme e umilia chi queste protezioni non ce le ha. Inutile dire che il peso della flessibilità è mal ripartito in termini generazionali. E’ triste che i giovani siano privati dei diritti (che non essendo più per tutti diventano privilegi) che invece hanno i loro genitori. E’ vergognoso che i genitori portino i figli a manifestare per la difesa dello staus quo.

  21. Erik

    Dal mio punto di vista i problemi sono principalmente due: 1) L’offerta di laureati è molta, soprattutto tenendo conto che la maggioranza delle aziende è medio-piccola e quindi assorbe pochi laureati; ovvero abbiamo aziende troppo poco tecnologiche e all’avanguardia. Perchè non provate a confrontare il rapporto tra laureati (in materie scientifiche) e le aziende medio-grandi? 2) E’ opinione diffusa tra i responsabili del personale che la qualità dei laureati è calata e, di conseguenza, quello che prima veniva fatto da un buon diplomato ora viene fatto da un laureato. Solo col tempo (forse) le capacità dei meritevoli verranno premiate. Ad esempio, io ora sto facendo il lavoro che, fino a qualche anno fa, veniva fatto da un quadro. Io, se va tutto bene, lo sarò tra non meno di 4-5 anni!

  22. Caos

    Le aziende italiane competono in base a conoscenze autoprodotte che sono difficili da raccordare con quelle "accademiche" se non se ne conosce il linguaggio. Vi è una difficoltà ad organizzare il lavoro e quindi al crescere della dimensione si ha il rischio di perdere il controllo. Inoltre ciò influisce sulle performances dei "professional" che sono molto influenzate da contenuto e contesto del lavoro. Una cattiva organizzazione porta a lotte di potere ed a orientare il management verso il breve periodo e a un controllo più formale.

  23. Angelo Troi

    Mi permetto di aggiungere alle vostre competenti analisi, una grave carenza di informazioni "istituzionali" al momento delle scelte di famiglie e studenti. Questo si ripercuote in strategie sbagliate o percorsi inflazionati (es. comunicazione o medicina veterinaria) che non potranno sostenere il carico occupazionale. Qui l’Università (se fornisse dati credibili), o un ente esterno, potrebbero avere un ruolo importante, indirizzando delle scelte che sono fondamentali per l’intera società ed il Paese. Avere dei laureati a tutti i costi, tanto da andare contro la logica delle previsioni occupazionali, crea disaffezione, perdita di fiducia, atteggiamento negativo verso l’impegno dello studio. Per non parlare della svendita al ribasso nelle professioni protette (in alcuni casi prive di sbocchi alternativi), che può portare a garvi ripercussioni sulle garanzie dell’intera collettività.

  24. Paolo Gabriele

    Abolire il valore legale del titolo di studio e riformare l’università dall’esterno ascoltando i docenti ed i laureati ma anche le imprese, i professionisti etc. Bisogna sapere cosa serve e quanto per il futuro lavorativo. Basta anche con i master scadenti finanziati dagli enti pubblici e che servono a piazzare impiegati presso imprese amiche. I docenti di tutte le categorie sono responsabili di non aver difeso l’università da pressioni interne ed esterne perchè faceva anche comodo. Ora non possono più richiedere autonomia quando questa autonomia e libertà non è stata utilizzata in modo corretto. La qualità dell’insegnamento segue il decadimento delle strutture e l’impalpabile ricerca, tranne che in rari eccezioni. In quale altro settore professionisti di altissimo livello producono così poco e male senza alcun controllo di qualità? Un’analisi seria delle ragioni di tale fallimento ed una forte autocritica ancora manca: cosa si aspetta che tutto vada a fuoco? L’autonomia non è servita a nulla, allora meglio il controllo di qualità e meritocrazia. Il resto non serve a trovare un lavoro adeguato ai giovani laureati.

  25. franco bortolotti

    La spiegazione è a metà strada fra le due motivazioni offerte (bassa intensità tecnologica delle imprese italiane; modello di specializzazione nelle produzioni tradizionali) e anche "vicina" a quello suggerito da alcune lettere (inadeguatezza delle strutture formative nazionali). Non c’è corrispondenza fra le competenze richieste dalle imprese e quelle offerte dalla scuola. Le imprese sono abituate a chiedere competenze tacite, contestuali, legate all’accumulazione di esperienza; il sistema formativo viaggia su un’altra lunghezza d’onda. Il sistema formativo dovrebbe chiedersi quali sono le competenze chieste effettivamente al suo output (diplomati/laureati) e come fare a fornirle. Questo sarebbe assolutamente necessario, ma sarebbe anche assolutamente insufficiente, se non ci fossero politiche industriali e del lavoro volte prioritariamente a innalzare la qualità (e non la quantità) del lavoro domandato dalle imprese; credo fra l’altro che solo questo potrebbe trainare verso livelli europei tutta la struttura salariale. I sindacati non c’entrano nulla: non determinano i livelli salariali delle alte professionalità, né dei laureati né dei lavoratori specializzati.

  26. rokko

    Segnalo un altro fattore molto importante, che secondo me determina almeno in parte il fenomeno descritto nell’articolo: la mancanza generale di concorrenza. Tante aziende italiane, soprattutto grandi ma anche medio-piccole, operano in mercati "protetti", in regime di oligopolio se non addirittura di monopolio: comunicazioni, energia, ecc. In questo tipo di mercati, che senso avrebbe cercare l’eccellenza del personale ? Meglio fare un favore ad un amico, un parente, ecc. assumendo uno qualsiasi, tanto il mercato è sempre lì, pronto ad assorbire il proprio prodotto. Fossero costrette a competere sul serio per guadagnare, probabilmente molte cose cambierebbero. Inoltre, sottoscrivo quanto evidenziato da altri commentatori: essendo le nostre industrie prevalentemente operanti in settori poco tecnologici è difficile che abbiano reale necessità di personale altamente qualificato. Coltivare un campo di grano, vendere una polizza assicurativa o costruire un edificio in definitiva sono lavori per i quali la resa (entro certi limiti) può sostanzialmente aumentare solo in proporzione alla quantità di lavoro svolto, non di certo ai miglioramenti tecnologici.

  27. giuseppe

    Mi pare che i risultati di questa ricerca dicano quanto segue: il sistema produttivo italiano non è in grado di assorbire/impiegare personale in posseso di elevata qualificazione (di livello universitario) o, quantomeno, non è in grado di assorbirne/impiegrane la gran parte. E’ confermato, in sostanza, che al di là di tutte le discussioni circa la (presunta) bassa qualità dei laureati (che ogniuno imputa alle più disparate cause: bassa qualità della ricerca, professori non qualificati, didattica scadente, riforma del 3 + 2, ecc…), il sistema produttivo non investe in ricerca, innovazione, ecc….. e, quindi, non necessità di personale di elevata qualificazione. Pertanto, se le cose stanno così (ed è così se solo si vuole vedere la realtà delle imprese private e pubbliche che operano all’interno del sistema produttivo), vogliamo ancora dare la colpa della bassa produttività del sistema paese alle carenze delle istituzioni formative nazionali e, in particolare, dell’università ? I migliori giovani laureati, già ora, nelle condizioni attuali delle università italiane, sono costretti ad emigrare all’estero per trovare occupazione o per poter fare ricerca ben retribuita.

  28. Gabriele

    tra un mese esatto mi laureo a pieni voti(in 5 anni secchi): Laurea specialistica in Management( presa in1anno)+ master di primo livello…costo complessivo della mia istruzione superiore circa 150 mila €, considerando le spese le rette e le retribuzioni non percepite, il tutto debitamente ricalcolato considerando il tasso di inflazione. Stipendio medio previsto circa 21500€ lordi annui per un contratto di formazione lavoro, impiegato di 3° livello, ma c’è margine di peggioramento. Il mio omologo tedesco, con pari qualifiche, stessa spesa, stipendio atteso non meno di 40.000€ lordi annui con impossibilità di fare stage. io il rischio lo corro seriamente. Il mio omologo francese si aggira più o meno sulla stessa cifra del tedesco… conclusione: studiare conviene, lavorare (in italia) no. Cause: se io rifiuto un co.co.pro rinnovabile mensilmente a 500€ perché è ridicolo, c’è sempre qualcunbo che lo accetta…DOMANDA E OFFERTA Signori…se c’è chi compra, c’è chi vende!!

  29. giampaolo paoletti

    Premesso che in italia non esiste un mercato del lavoro, e la flessibilità del mercato italiano (cocopro, stagisti, ecc.) è la solita furbata del bel paese, vengo a spiegare come uscire dall circolo vizioso: si obbliga il datore di lavoro che ha un laureato alle sue dipendenze a retribuirlo adeguatamente anche e soprattutto se svolge mansioni dequalificate per il proprio titolodi studio; questo farà si che il datore di lavoro privato pensi più volte ad assumere un laureato per fargli svolgere un mestiere che un altro lavoratore con titolo di studio inferiore. questa penalizzazione porterà a creare un vero mercato del lavoratore con domanda e offerta che nel lungo periodo si stabilizzerà. infatti l’interesse del datore di lavoro portato ad assumere un nuovo laureato sarà quello di richiedere elevate prestazioni a fronte di elevati stipendi e al contrario porterà chi studia a impegnarsi maggiormente visto che oggi i laureati non sono adeguatamente preparati al mondo del lavoro (e che per questo motivo si son creati i finti stagisti); per quelli già impiegati sarà gioco forza necessario un adeguamento solamente se il datore di lavoro sarà intenzionato a pagarlo maggiormente.

  30. Gabriele

    Le spiegazioni date nell’articolo e nei commenti sono tutte vere: la causa non è una ma molte. Vorrei porre l’accento sull’offerta sproporzionata e di basso livello di università, senza un "rating" che le differenzi. Ma la causa che più ci fa disonore è la "povertà morale" verso cui il nostro Paese sta andando, per cui è meglio essere calciatori o veline che laureati! PS. Studiare deve essere anche un investimento per la nostra cultura e la nostra persona, non solo per il nostro portafoglio: questo dovrebbe essere il primo problema da risolvere, il basso livello di istruzione e il basso livello culturale di molti laureati.

  31. Parapappa

    Il diminuire della resa della laurea sembra dipendere anche dalla sempre peggiore preparazione dei neolaureati.

  32. Anaeli

    Sono madre di una ragazza che proprio in questi giorni farà la scelta di abbandonare l’università (in verità ha cambiato ben 3 facoltà al punto di avere quasi 3 lauree brevi!1) perchè ha trovato un lavoro, per ora precario ma poi si vedrà. Lei è disillusa sul valore della sua laurea ed i colloqui lavorativi hanno dimostrato che non servirebbe comunque a nulla. Ben ha detto chi tra voi ha sostenuto che quello che conta è quello che sai fare. Abbiamo inculcato ai nostri figli, forse perchè noi non ce l’abbiamo fatta a laurearci, quando la laurea ti conferiva uno status, che più studiavano e più avrebbero avuto garanzie per il futuro. Non è così! Senza guardare alle veline o ai calciatori, parliamo di ragazzi con la testa sulle spalle, che hanno perso i riferimenti di una volta. Il mondo è cambiato, le università servono solo a garantire stipendi a chi le gestisce, senza una seria programmazione in cui si sappia quanti diplomati e laureati e in quali discipline servono, i nostri ragazzi verranno sempre illusi, fino al giorno in cui si rendono conto che le loro fatiche non stanno servendo a nulla.

  33. Patrizio

    L’italia è una nazione che si erge sulle piccole e medie imprese. Queste aziende non producono tecnologia ma solo opere artigianali, in fin dei conti per cosa siamo famosi? Per gli insaccati, i formaggi, la pasta, i vestiti, le piastrelle eccetera; tutta roba che si produce in via artigianale e si tramanda da padre in figlio senza bisogno di studia ma solo di esercitarsi. Siamo di fatti una nazione a basso livello tecnologico. Siccome la nazione è questa e di certo non cambierà nei prossimi 100 anni almeno, è inutile dire che servono più laureati e menate simili in quanto è facilmente dimostrabile che i laureati non possono trovare lavoro. Una PMI si basa su manodopera generica (basta ed avanza la terza media) più dei capi turnisti o dei tecnici diplomati. Un ragioniere fa i conti che sono molto semplici (considerando il fatto che piccole aziende hanno flussi di cassa semplici da calcolare), geometri che progettano piccole cose (tipo mobili, utensili eccetera) e periti che coordinano… Non servono laureati. Il nostro paese si è sviluppato nel suo più grande boom economico degli anni 60 fino a tutti gli 80 grazie ai soli geometri, ragionieri e periti industriali…

  34. Francesco Pastore

    Cari autori, trovo il vostro articolo stimolante, chiaro e ben scritto. Suggerirei a tutti di leggerlo: studenti, famiglie, imprese … Andrea Ricci, che ho conosciuto qualche giorno fa a Roma, in occasione della presentazione presso l’ISFOL del mio libro su: “Fuori dal tunnel. Le difficili transizioni dalla scuola al lavoro in Italia e nel mondo”, Giappichelli, nel suo intervento ha sottolineato giustamente il lato della domanda. Un’economia che non cresce da oltre un quindicennio e continua a produrre, come dico io, “pezze e suole per le scarpe, ancorché con i buchi (tecnologici)” non ha bisogno di laureati. La laurea è il lato forte dei giovani che non possono contare sulle altre componenti del capitale umano, vale a dire l’esperienza lavorativa generica e specifica. Non sorprende, allora, se i giovani sono in Italia più in difficoltà rispetto agli adulti in confronto con paesi più dinamici. Il lato dell’offerta non va trascurato però. La disorganizzazione, la scarsa valutazione dell’attività causano maggiori costi diretti (maggiore sforzo) e indiretti (più tempo per laurearsi significa posticipare l’entrata nel mondo del lavoro e, quindi, maggior reddito alternativo perduto) dell’istruzione che scoraggiano soprattutto chi proviene dalle classi sociali più deboli. Porre l’accento sul lato dell’offerta significa evidenziare anche che il nostro sistema d’istruzione richiede riforme profonde, oltre che un sostegno finanziario molto superiore a quello attuale.

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