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CRESCE L’UNIVERSITA’ DEGLI ABBANDONI

La proliferazione dell’offerta universitaria è stata una soluzione solo parziale all’annoso problema della bassa scolarizzazione degli italiani. La facoltà sotto casa ha favorito l’iscrizione di chi in passato avrebbero rinunciato per ragioni di costo, di motivazione o di preparazione. Però alla laurea arriva solo uno studente ogni due iscritti. Come affrontare la questione? Una soluzione è innalzare la selettività all’ingresso, ma richiede interventi per mantenere l’uguaglianza delle opportunità. Purché non si decida di abbassare gli standard per fare cassa.

 

Uno dei temi ricorrenti della polemica sullo stato dell’università italiana riguarda l’enorme espansione dell’offerta didattica negli ultimi due decenni, con il moltiplicarsi di corsi e sedi universitarie, spesso degenerata nell’istituzione di corsi di laurea dai nomi fantasiosi su cui spesso si è accanita la stampa nazionale. Tuttavia, la recente pubblicazione di due contributi di ricerca permette di valutare più pacatamente i cambiamenti avvenuti e le problematiche che a questo punto si aprono. (1)

PIÙ SEDI, PIÙ ISCRITTI

Un dato di fatto, spesso dimenticato, è che l’inizio del processo di espansione dell’offerta universitaria risale almeno a vent’anni fa. Ne è stata sicuramente complice l’introduzione dell’autonomia, con la legge n. 168 12/5/1989, che ha gradualmente permesso alle università di passare da un regime autorizzativo da parte del governo centrale a quello attuale, in cui la creazione di nuovi corsi o sedi viene regolata dall’autonomia statutaria e condizionata dall’autonomia finanziaria. Ma al risultato ha contribuito in modo determinante una domanda crescente di istruzione universitaria preveniente dai diplomati della scuola secondaria, così come la pressione degli enti locali, che consideravano motivo di prestigio avere l’università sotto casa (vedi figura).
I vari atenei, perseguendo strategie diverse di posizionamento sul mercato dell’istruzione universitaria, hanno compiuto scelte diverse: alcuni hanno puntato al mantenimento di un controllo della “casa madre” sulle sedi periferiche, altri hanno preferito un controllo indiretto attraverso la creazione di “succursali”; alcuni atenei hanno replicato in più sedi la propria offerta, altri hanno diversificato a seconda delle esigenze locali.
Qualunque siano state le ragioni e le modalità, l’ampliamento dell’offerta universitaria si è associato a una crescita notevole delle iscrizioni, nonostante il contestuale calo demografico, con un conseguente aumento dei tassi di iscrizione, saliti di dieci punti percentuali nell’arco di un decennio. A questo si è poi sommata la riforma del 3+2 in attuazione del processo di Bologna, che ha portato il numero degli iscritti universitari oltre un milione e ottocentomila, con una quota di immatricolati per ogni coorte di età che ha ormai raggiunto la soglia del 60 per cento.
Quello che interessa domandarsi in questa sede è se l’enorme crescita di studenti, sedi, docenti abbia avuto senso, in particolare dal punto di vista dell’operatore pubblico, che dovrebbe preoccuparsi dell’equità nella distribuzione delle risorse, interessandosi quindi dell’uguaglianza nelle opportunità di accesso. In altri termini, ci interessa capire se l’espansione delle iscrizioni universitarie abbia beneficiato in egual misura i diversi ceti sociali, oppure se diffondendosi maggiormente tra gli studenti di origini sociali più disagiate non abbia favorito un aumento dell’uguaglianza delle opportunità.
Entrambe le ricerche citate cercano una risposta mettendo a confronto i dati di studenti (o gruppi di studenti) tra loro simili, osservandoli prima e dopo l’introduzione delle riforme universitarie, quella dell’autonomia a cavallo degli anni Novanta, e quella del 3+2 agli inizi del decennio attuale. Entrambi gli studi sono concordi nell’indicare una crescente “democratizzazione” degli accessi universitari: gli studenti con origini familiari più svantaggiate avrebbero tratto maggior beneficio in termini di probabilità di iscriversi all’università di quanto non sia accaduto per gli studenti con background più favorevoli. Tuttavia, questo non sembra essersi tradotto in un equivalente miglioramento delle opportunità in uscita, in quanto le probabilità di laurearsi risentono delle condizioni familiari in modo equivalente sia prima che dopo le riforme considerate.

IL NODO DEGLI ABBANDONI

Come si conciliano i due risultati apparentemente paradossali? Attraverso una diversa probabilità di abbandono degli studi universitari. La proliferazione dell’offerta universitaria ha quindi rappresentato solo una parziale soluzione all’annoso problema della bassa scolarizzazione della popolazione italiana. Portare l’università sotto casa ha sicuramente favorito l’iscrizione di studenti che in passato non avrebbero preso in considerazione tale possibilità, per ragioni di costo, di motivazione o di preparazione. Tuttavia, questi studenti, meno attrezzati sia sul piano scolastico sia su quello familiare, una volta alle prese con la formazione universitaria hanno minori possibilità di tenuta, e abbandonano significativamente nel primo o nel secondo anno di iscrizione.
È quindi evidente che il vero nodo sul piano della didattica per l’università italiana è in questo momento come affrontare l’inefficienza rappresentata dal fatto che si laurei solo uno studente ogni due iscritti.
Premesso che un ritorno a un sistema universitario chiuso e socialmente selettivo, dove per intenderci il tasso di iscrizione non superava il 10-15 per cento della popolazione, non appare plausibile, le università si trovano davanti almeno due alternative: innalzare la selettività all’ingresso, con il rischio di escludere progressivamente la tipologia di studenti che sono stati tra i maggiori beneficiari della riforma; oppure abbassare gli standard facilitando il percorso almeno a livello dei corsi triennali.
In un contesto di massicci tagli di bilancio, dell’entità di quelli prospettati dal ministero dell’Economia, non è chiaro come si presentino gli incentivi. Innalzare la selettività all’ingresso permette di innalzare le tasse di iscrizione, offrendo percorsi di studio meno affollati e con classi di studenti più motivati, ma l’effetto netto sui bilanci universitari può essere negativo. All’estremo opposto, abbassare la selettività può far crescere ulteriormente le entrate provenienti dalle tasse universitarie. In questo caso, l’effetto netto sui bilanci universitari diventa positivo. La scelta degli atenei italiani potrà andare nell’una o nell’altra direzione a seconda degli organici e degli spazi disponibili, della qualificazione e della motivazione del proprio personale docente e della possibilità di accesso a finanziamenti alternativi.
La prima appare preferibile solo se accompagnata da interventi sul diritto allo studio che assicurino il mantenimento di una uguaglianza delle opportunità almeno equivalente a quella attuale. La devoluzione della competenza del diritto allo studio alle Regioni tuttavia non aiuta ad assicurare il raggiungimento di questo obiettivo. Ci si augura che nel contesto delle ristrettezze di bilancio che si profilano, le università non siano indotte ad abbassare gli standard per fare cassa, attivando una concorrenza al ribasso.

(1) Massimiliano Bratti, Daniele Checchi e Guido de Blasio."Does the expansion of higher education increase the equality of educational opportunities? Evidence from Italy". Banca d’Italia, Temi di discussione n. 679/2008.
Cludio Lucifora e Lorenzo Cappellari. “The “Bologna process” and college enrolment decisions”. Iza Discussion paper n. 3444/2008.

Fonte: MIUR 2007, Ottavo rapporto sullo stato del sistema universitario.

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TRE PROPOSTE PER L’UNIVERSITA’

20 commenti

  1. Salvatore Filippone

    Non sono uno specialista della materia, ma su un punto penso che le istituzioni debbano riflettere: che tipo di società e di economia nel medio e lungo periodo l’Italia come sistema paese vuole diventare. Se si pensa ad un’Italia caratterizzata dalla bassa manifattura poco specializzata, ai servizzi al turismo e alla micro produzione, non vedo che bisogno ci sia di investire in maniera massiccia sulle università: molto meglio potenziare l’istruzione secondaria. Se invece il paese ha come obbiettivo nel medio lungo periodo di aprirsi a comparti economici di maggiore specializzazione come l’informatica, le biotecnologie, le energie rinnovabili e i servizzi finanziari, allora sarebbe bene davvero dirottare risorse all’università, ma indirizzandole in questi comparti per non disperdere risorse e illudendo i cittadini con lauree farlocche che oggetivamente non hanno un riscontro di offerta lavorativa. Poi possiamo ragionare su iscritti e percentuali di laureati, ma finchè i pochi laureati di oggi, si trovano a svolgere lavori di bassa specializzazione per campare, mi pare fallace la discussione sul basso numero di laureati, anche perchè i pochi che ci sono sono cassieri e camerieri.

  2. alberto aristo

    Due brevi osservazioni al bell’articolo: 1) l’espansione dell’offerta formativa risponde a logiche diverse se riferita a) all’aumento dei corsi e b) alla proliferazione delle sedi universitarie. La prima è in gran parte frutto naturale del Processo di Bologna che "sdoppiando" le vecchie lauree in due percorsi (triennale e biennale) ha comportato l’esplosione dei corsi anche prescindendo da opportunismi accademici (che pur ci sono stati). L’aumento delle sedi ha invece ovviato a uno dei peggiori deficit del nostro sistema universitario, vale a dire la carenza di alloggi per studenti (senza i quali è velleitario pensare che gli studenti possano "votare con i piedi"). 2) In un sistema in cui il 60% dei 19enni si iscrive all’università l’abbandono è in fenomeno purtroppo fisiologico, basterebbe vedere Education at a glance 2008 da cui risulta che dopo l’Italia il paese con il più alto tasso di abbandoni sono gli USA (generalmente osannati come esempio di università che funziona…). La selezione all’ingresso non sembra consigliabile se, come sembra, misura non solo le capacità/impegno del singolo ma anche il suo background famigliare, penalizzando così le classi sociali più basse.

  3. antonio p

    Sono perfettamente d’acordo col sig. Filipponi. Invece d’invogliare i giovani ad andare all’università promettendo,falsamente, che il titolo aprirà loro mercati interessanti e remunerativi,gli si insegni come si può lavorare la terra facendo meno fatica. Così potranno arrivare a sera stanchi fisicamente ma psicologicamente sani e non è escluso che potranno guadagnare molto di più.

  4. Vince

    Sebbene si cerchi apprezzabilmente di trovare delle inferenze con le recenti riforme universitarie, mi sembra che il problema dell’abbandono sia affrontato in maniera incorretta. Inoltre, le alternative proposte ("alcune", come si dice) sarebbero da non considerare neanche, poiché le tasse dovrebbero rappresentare il prezzo di equilibrio per mantenere l’intero sistema (il più possibile aperto a tutti). L’abbandono è un fenomeno legato a due fattori: sistemici (alcuni degli iscritti abbandonano perché l’università non fa per loro); idiosyncratici (alcuni abbandonano per condizioni personali, finanziarie, familiari ecc.). Su quest’ultimo aspetto, e solo su questo, si può intervenire. La soluzione si dovrebbe trovare nella riduzione del numero degli atenei (quindi spese risparmiate) e nella erogazione maggiore di aiuti per il diritto allo studio (borse, posti letto, mense, libri…), accompagnati da una cultura che premi i meritevoli (azzerandogli al limite i costi allo studio) e punisca gli altri (aumentandogli i costi). Avere l’università sotto casa non serve a niente, come si è visto. Aiutare i ragazzi ad emanciparsi, sì. Ciò implica, però, una vera riforma, da troppo tempo attesa.

  5. Paolo Manzini

    Mi sfugge perché l’Autore in ottobre 2008 riporti la figura 2 del settimo rapporto del CNVSU, riferito all’anno 2006, anziché il corrispondente grafico della figura 1.2 dell’ottavo rapporto del CNVSU, riferito all’anno 2007 e pubblicato già da diversi mesi.

  6. Marco Biagetti

    Leggo il pezzo di Giavazzi sul corriere online di martedì 28/10/2008:
    “I tagli [all’università ndr] rappresentano il 3% dei complessivi stanziamenti” nell’arco di 5 anni.
    Leggo secondo Checchi, che, al contrario, i tagli sarebbero consistenti.
    Delle due l’una. O i tagli sono consistenti, o non lo sono.

  7. Piero Nasuelli

    Le Università penseranno solo a fare "cassa" per sopravvivere. Molte hanno “l’acqua alla gola” e preferiranno abbassare la qualità dell’accesso pur di riempire le aule. Voglio evidenziare che le modalità di questa sciagurata espansione (autonomia e riforma dei cicli 3+2) sono state elaborate da Berlinguer e quanto sta accadendo era prevedibile. Le sedi decentrare delle Università (in alcuni casi sono poi diventate Università autonome) non sono state finanziate dalle Università, quindi nel rispetto di una sana gestione economica, ma dagli enti locali. È stata l’occasione per distribuire finanziamenti locali a questa o quella impresa per ristrutturare o costruire questa o quella sede. Lo stesso è avvenuto con i docenti che sono stati assunti sulla base di finanziamenti di enti e fondazioni. Ora il “giochino” si è rotto e gli enti pubblici non hanno soldi. Sarebbe scandaloso ripianare con soldi pubblici. L’unica soluzione in questo stato di cose è “chiudere” sedi e bloccare il reclutamento dei docenti. Questi provvedimenti non possono però essere fatti a pioggia, basterebbe usare il “buon senso”, ma questo è un bene prezioso molto raro nel nostro Paese.

  8. Piero Vereni

    Non mi pare che le università abbiano solo due alternative (filtrare gli ingressi o abbassare gli standard per favore le uscite). Ce ne sarebbe una terza, vale a dire lavorare di più con gli studenti che partono da una situazione di svantaggio. I "corsi di recupero" erano pensati per quello, ma so (non per sentito dire, sono ricercatore ora a tempo inderteminato dopo 10 anni tra borse, assegni e contratti) che ci sono atenei dove i docenti si sono spartiti i soldi assegnati per quei corsi senza mai tenerli. Si potrebbe facilmente alzare la percentuale dei laureati se ogni docente si prendesse la responsabilità (magari pagata) di seguire personalmente due o tre tra i casi più impegnativi. Insomma, basterebbe migliorare la qualità della didattica, che molto spesso è vergognosamente bassa rispetto agli standard europei.

  9. Luciano Scalzo

    Mi pare di capire che secondo gli autori dell’articolo consentire alla più ampia platea possibile di studenti di laurerasi significhi di per sè "uguaglianza nelle opportunità". Questo non è vero. L’uguaglianza nelle opportunità dovrebbe consistere nel consentire a tutti i più meritevoli di frequentare le migliori università indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali della famiglia di origine. La vita non termina con il conseguimento della laurea. Un laureato alla Bocconi sul mercato del lavoro vale molto di più di un laureato all’Università di Catanzaro o di Campobasso. Il pur bravo laureato di Catanzaro o Campobasso deve sapere, sin dal giorno dell’iscrizione, che l’aver frequentato l’università sotto casa gli preclude la possibilità di lavorare con le migliori imprese che ricercano i laureati delle più balsonate università. L’università di provincia consente,invece, allo studente brocco di conseguire quella laurea che gli permetterà di poter continuare l’attività paterna di avvocato, farmacista , notaio,odontoiatra ecc… Del resto,mi consta, che oltre il 50% dei laureati continua nell’attività di famiglia.

  10. Massimiliano

    Concordo con l’affermazione che bisogna capire che cosa si vuole. Se si vuole: 1) che l’Italia continui ad essere specializzata in settori tradizionali, in cui la produttività cresce poco o non cresce (ed i salari aumentano poco in Italia in termini reali); 2) che la bassa crescita della produttività e dell’occupazione (dato che non ci sono abbastanza campi per far zappare tutti) a fronte di un numero crescente di pensionati faccia collassare il sistema pensionistico ("mi spiace, abbiamo scherzato, dovete ritornare a lavorare" oppure "andrete in pensione a 80 anni!"); 3) che i nativi vadano a studiare e a lavorare all’estero e che il nostro paese offra (sacrosante) opportunità di ascesa intergenerazionale solo agli immigrati dai paesi in via di sviluppo, che fanno i camerieri, i braccianti, ecc..; beh, se si vuole questo, allora in Italia si possono tranquillamente fare tagli ad istruzione, università e ricerca ed usare i fondi risparmiati per incentivare la rottamazione dei frullatori o per altrettanto ottime destinazioni.

  11. stefano monni

    Ho letto con interesse l’articolo sull’università degli abbandoni. Al riguardo non credo sia utile tornare alla selettività in ingresso perchè questo si rifletterebbe negativamente sulle classi sociali più svantaggiate. Ritengo al riguardo sia opportuno arrivare ad un sistema universitario pubblico in cui veramente gli studenti più svantaggiati ricevano un finanziamento consistente per poter frequentare i corsi universitari, e prevedere inoltre incentivi anche finazniari, ma soprattutto lavorativi al fine di ridurre i tempi di parmanenza nei corsi universitari. Si potrebbe pensare inoltre che trascorso il periodo limite tali incentivi vengano eliminati. Ciò io credo incentiverebbe gli appartenenti alle classi meno abbienti ad iscriversi ed a mantenersi all’università e nello stesso tempo a cercare di laurerasi in tempi brevi.

  12. Giuseppe Ghini

    Contesto l’affermazione: "L’ampliamento dell’offerta universitaria si è associato a una crescita notevole delle iscrizioni, nonostante il contestuale calo demografico" se riferita al dopo riforma Berlinguer. I seguenti dati si trovano nei diversi Rapporti CNVSU. 1992: Immatricolati 373.830 CdL circa: 2500 Docenti e Ricercatori: 48.000 2007: Immatricolati 322.000 CdL: circa: 6000 Docenti e ricercatori: 62.000 Abbandoni dopo il I anno: 1998/99 (ultimo pre-riforma): 18.3% Abbandoni dopo il I anno: 2005/06 : 20.3% (il dato solo Nuovo Ordinamento e’ 20.4%). Secondo me non ha senso ragionare sul numero degli iscritti totali (1992: 1.612.000; 2005: 1.824.000), né sul numero dei laureati perché i due dati risentono della sovrapposizione di Vecchio e Nuovo Ordinamento.

  13. Paolo Gabriele

    La maggioranza dei commenti convergono sul fatto che la nostra università rappresenta un grave limite alla crescita del Paese.Dati alla mano la qualità del servizio didattico, di ricerca, del personale e delle strutture lascia molto a desiderare. Ma poiché siamo nel paese dei balocchi bisognava far crescere il numero delle cattedre per far spazio ai figli di papà, a professori brocchi, ad amministrativi figli di quall’altro etc. Però mi sembra che pochi professori anche di elevato prestigio, e pertanto indipendenti,abbiano alzato le loro proteste per fermare la deriva. Ora visto che l’Università non ha saputo resistere alle facili tentazioni interne ed esterne che non avevano in considerazione il ruolo strategico dell’istituzione, ma quello individualistico del posto al portaborse ci ritroviamo con presidi, rettori e docenti poco credibili nelle proposte di autoriforma con grave danno! Credere di fermare un inevitabile fallimento grazie alle proposte di autoriforma dei docenti e degli studenti è come credere di fermare la crisi economica e finanziaria con l’aspirina gratis ai poveri. E’ l’ora di interventi urgenti:l’università non è un potere autonomo di concorsi(!?) e posti a vita.

  14. marco

    Con la riforma Gelmini il numero di immatricolazione andrà proprio a zero. se le università diventano fondazioni di diritto privato, potranno aumentare indefinitamente le tasse di iscrizione. il massimale per el scuole pubbliche, imposto per legge a livello nazionale, perderà efficacia. ecco il vero fine della riforma: realizzare una scuola classista, di censo, che impedisce ai figli degli operai di poter studiare all’università e farsi un futuro. secondo il Governatore draghi . Ora che le famiglie dovranno indebitarsi fino al collo con le banche, per apagre la retta dei figli, sicuramente le università italiane saranno sicuramente di rilevo internazionale. d’altra parte, è ciò che tutti possono leggere nel manifesto di rinascita democratica della loggia P2 (che ha diversi ex membri direttaemnte al governo e in Parlamento): la loggia male vedeva l’aperura delle università a tutti idiploma La "liceizzazione" degli italiani e il boom delle immatricolazioni ernao un fattore destabilizzante per il mercato del lavoro. Troppi laureati e nessun iscritto alle scuole professionali. Una situazione a cui porre rimedio.

  15. daniele

    Sono un ex universitario della facoltà di economia e commercio di Verona,non ho proseguito gli studi perchè essendo uno studente lavoratore ho scoperto i seguenti mali dell’università: 1) tasse troppo elevate 2) nessun tipo di ricerca di mercato 3) è un mondo solamente teorico che non prepara al lavoro 4) non si affrontano seriamente i problemi della vita reale che si vivono nella P.A. e nelle imprese 5) non prepara gli studenti al mondo del lavoro 6) la ricerca qualche volta viene fatta dai Baroni senza essere mai controllata nel merito, motivo per cui questi signori possono far finta di lavorare prendendo il loro bel stipendio lo stesso, quando amio avviso nella ricerca devono essere coinvolti gli studenti in modo da poter capire il mondo reale di cosa abbisogna un domani o oggi.Io mi reputo una persona fortunata perchè hio avuto modo di fare ricerca per 12 anni a zero lire/euro di paga,ma almeno ho capito ciò che il mondo reale vuole,mentre l’università vive in un mondo dorato tutto suo,fatto prettamente di nozioni teoriche. Ora ditemi voi come può un paese avere uno sviluppo se il governo italiano spende l’1% del PIL mentre in media l’Europa ne spende il 15/20%, anzi ultimamente taglia.

  16. Ambra

    Sicuramente molti abbandonano perche’ l’universita’ non fa per loro, e in questo senso una maggiore selettivita’ all’ingresso sarebbe una soluzione. Badate bene che per "selettivita’" non si intende discriminazione per classe sociale o reddito, ma selezione in base alle attitudini personali, alle capacita’ e alle motivazioni (questo non e’ funzione della ricchezza). Per quanto riguarda la riduzione del numero degli atenei, beh sicuramente sarebbe un bel risparmio, ma avendo avuto modo di conoscere sia una realta’ grande che locale devo dire che a livello locale si lavora meglio, perche’ essendo meno persone si possono avere una collaborazione e un coinvolgimento maggiore, e credo che siano cose positive. Molto probabilmente basterebbe istituire un sistema di finanziamenti che premia le universita’ che lavorano meglio. Nel senso: garantire un minimo a tutti, e una ulteriore parte in proporzione alle ricerche che si fanno, ai progetti proposti, agli eventuali lavori degli studenti e cosi’ via. Si dovrebbe, comunque, partire dall’eliminazione di tanti corsi inutili e tante facolta’ che potrebbero essere unite.

  17. antonio p

    L’università non ha mai creato ricchezza a chi si appiattisce agli editti qualunquisti e pseudo equalitari di chi fa del razzismo ideologico fra scuola pubblica e scuola paritaria-privata. Sicuramente alla fine degli anni di finto studio non puoi anche pretedendere che qualcuno assuma un specializzato in" nulla" incapace di fare qualcosa e inoltre non ha alcuna voglia di fare quello che il tuo vicino, fratello o compagno che ti può offrire per avere un pezzo di pane col gorgonzola (una volta era il formaggio dei muratori alle prime armi). Smettiamo di piangerti addosso e tiriamoci su le maniche oltre a inziare a usare quel cervello che sicuramente abbiamo.

  18. antonio p

    Io ho fatto solo due esami in chimica generale prendendo 25, ma ho capito, appunto, che il mio diploma di perito Chimico era un capitale enorme e così ho continuato a lavorare (università lavorativa). Dopo otto anni di apprendistato ero allo stesso livello retributivo degli ingegneri ed in più avevo l’esperienza lavorativa. L’università fosse frequentata solo da chi vuole e capisce di avere capacità non sfornerebbe decine e decine di migliaia di nevrotici laureati incapaci di utilizzare le proprie uniche ed importantissime doti personali, nessun professore può sopperire alle incapacità basilari, può, al massimo, aggiungere una virgola di completamento. Ricordati che gli uomini migliori sono essenzialmente nati manovali o autoditatti. L’università è la droga dei falliti pseudo acculturati o che pensano ai deboli facendo i propri porci comodi economici.

  19. rosario nicoletti

    Credo sia impossibile discutere razionalmente l’alto tasso di abbandoni senza prendere in esame i seguenti aspetti strettamente correlati. Le scuole diplomano un’alta percentuale di allievi semianalfabeti; le tasse universitarie sono poco più che simboliche ed incoraggiano il dilettantismo; la nostra società non premia la preparazione, come è scritto in un articolo di questo numero de LaVoce. Nel permanere di tutti questi elementi negativi, l’unica ricetta possibile consiste nell’innalzare la soglia di accesso all’università.

  20. Lorenzo Mele

    Condivido l’opinione di Rosario Nicoletti (commento del 2 novembre scorso), in particolare credo che la causa principale degli abbandoni sia la leggerezza con cui gli studenti si iscrivono e affrontano l’università. Ciò è dovuto, a mio parere, alla facilità con la quale le scuole medie superiori promuovono e, più in generale, allo scarso rigore con cui i professori valutano gli studenti, specialmente sulle materie scientifiche. L’effetto è che molti ragazzi si illudono che i docenti universitari abbiano lo stesso metro di valutazione e non si preparano in modo adeguato agli esami, perdendo così terreno.

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