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NON SOLO LE PENSIONI DIVIDONO LE GENERAZIONI

Negli ultimi trent’anni una situazione socio-economica molto favorevole e i particolari assetti del welfare italiano hanno contribuito a migliorare notevolmente la posizione economica relativa della parte più anziana della popolazione. Nel frattempo i destini economici delle famiglie più giovani sono andati sempre più deteriorandosi. Senz’altro è il risultato di una condizione del mercato del lavoro oggi radicalmente diversa rispetto alla fine degli anni Settanta. Ma il sistema dovrebbe tenere conto anche delle alterne fortune delle generazioni.

Uno dei "filoni" della recente accesa discussione sul famigerato "scalone" ha riguardato l’esistenza o meno di un conflitto tra gli interessi delle diverse generazioni rispetto agli assetti pensionistici in Italia. Se da un lato, vi era chi sottolineava l’assenza di rappresentanza e di tutela degli interessi dei pensionati del futuro, oggi giovani lavoratori o studenti, a favore della tutela dei genitori prossimi alla pensione, dall’altro, c’era chi negava l’esistenza di interessi divergenti e di una questione di generational fairness. Schematicamente, nel primo gruppo si annoverano alcuni politici e molti accademici (soprattutto economisti), nel secondo molti sindacalisti.

La crescente disparità tra generazioni

È sicuramente vero, come sostenuto da molti, che il gioco redistribuivo tra generazioni non è a somma zero, tuttavia è anche vero che le casse dello Stato e degli enti previdenziali non assomigliano nemmeno lontanamente alla borsa di Mary Poppins. In altre parole, le risorse da investire e redistribuire sono pur sempre limitate e gli investimenti alternativi non sono certo neutrali rispetto all’equità redistribuiva tra generazioni. Negli articoli pubblicati su lavoce.info è stato ampiamente mostrato che il contratto pensionistico alla base del welfare italiano è fortemente squilibrato a sfavore delle generazioni più giovani. Tuttavia, è importante sottolineare che purtroppo lo squilibrio della parte pubblica del contratto generazionale non si limita solo alle recenti modifiche delle regole che stabiliscono l’accesso e l’ammontare della pensione di anzianità, ma emerge fortemente anche da un’analisi della allocazione del budget del welfare italiano e, soprattutto, dai suoi risultati in termini di posizioni reddituali relative.

Gli squilibri del contratto generazionale pubblico

Il primo indicatore dello squilibrio del welfare italiano è costituito dal valore del rapporto tra spesa "dedicata" alla parte anziana della popolazione rispetto a quella dedicata alla parte più giovane. Esping-Andersen e Sarasa, esaminando i dati sulla allocazione della spesa sociale nei diversi sistemi di welfare, esclusa la spesa sanitaria, stimano che il valore del rapporto tra spesa per le generazioni anziane e spesa per le generazioni giovani è pari a 3,5 in Italia, contro una media di 1,7 nei paesi dell’Europa continentale, di 1,2 nei paesi anglo-sassoni e di 0,8 in quelli scandinavi.
Forse già questo basterebbe a chiarire che, almeno in potenza, esiste in Italia un conflitto redistribuivo tra generazioni. Volendo approfondire, tuttavia, si può andare a vedere come è cambiata nel tempo la posizione economica relativa delle famiglie italiane secondo l’età di riferimento. L’andamento della posizione economica delle diverse generazioni, infatti, è un buon indicatore sia della loro "fortuna" in termini di destini familiari e di condizioni del mercato del lavoro durante la loro età lavorativa, sia di ciò che il sistema di welfare ha fatto per "compensare" le diverse "fortune" delle famiglie e degli individui.Consideriamo innanzitutto il livello del rischio di "basso reddito" che colpisce gli individui a seconda dell’età di riferimento della famiglia in cui vivono, ovvero la loro probabilità di essere collocati nel quintile più basso della distribuzione dei redditi disponibili equivalenti. Se tutti fossero equamente "colpiti" da tale rischio, il 20 per cento di ciascun gruppo d’età dovrebbe trovarsi nel primo quintile. Ma, come si può vedere in figura 1, il rischio non è mai stato distribuito equamente. Nel 1977 le persone che vivevano in famiglie di ultra sessantacinquenni correvano un elevatissimo rischio di basso reddito: circa il 38 per cento era collocato nel primo quintile della distribuzione. Quasi trenta anni dopo, però, lo scenario è drammaticamente diverso: sono le famiglie con una età di riferimento sotto i 40 anni le uniche a essere sovra rappresentate nella parte bassa della distribuzione. All’opposto, la piena implementazione del sistema pensionistico e anche la combinazione di una serie di fattori socio economici favorevoli (1), ha fatto in modo che solamente il 18 per cento degli ultra sessantacinquenni del 2004 siano situati nella parte bassa della distribuzione dei redditi.

Figura 1: Proporzione di individui nel primo quintile di redditi, secondo l’età di riferimento della famiglia

Risultati analoghi si ottengono analizzando l’andamento dei redditi medi relativi dei vari gruppi d’età. Dalla fine dei Settanta a oggi si assiste: (i) all’aumento del reddito relativo di un gruppo della popolazione già benestante, ovvero quello delle famiglie con età di riferimento tra i 51 e i 65 anni; (ii) al forte miglioramento delle condizioni degli ultra sessantacinquenni, un gruppo prima assai svantaggiato; (iii) un forte peggioramento della posizione delle famiglie sotto i 30 anni (figura 2).
Se poi consideriamo il livello delle differenze di reddito intragruppo, va notato che si è avuta una decisa riduzione nella diversità dei redditi dei gruppi di età più anziani, e una tendenza opposta per le famiglie con meno di 40 anni.

Figura 2: Reddito medio relativo per gruppo di età

Si aggiunga, inoltre, che le vecchie generazioni lasciano alle nuove una eredità negativa piuttosto pesante: un debito pubblico tra i più elevati in Europa.

Il ruolo del welfare

Negli ultimi trent’anni la combinazione di una situazione socio-economica molto favorevole e dei particolari assetti del welfare italiano ha di fatto contribuito a migliorare notevolmente la posizione economica relativa della parte più anziana della popolazione. Guardando ai dati della Banca d’Italia possiamo senz’altro dire che alcune coorti di nascita sono state indubbiamente fortunate: i trentenni della fine dei Settanta non se la cavavano poi male e oggi, nei loro 60 anni, si trovano in uno dei gruppi di popolazione più benestanti. Nel frattempo, i destini economici delle famiglie più giovani sono andati sempre più deteriorandosi, e con loro, chiaramente, anche quelli dei figli.
Non c’è dubbio che in larga parte questo quadro sia il risultato di una situazione del mercato del lavoro che è oggi radicalmente diversa rispetto a quella della fine degli anni Settanta. Ma non dovrebbe forse il sistema di welfare tenere conto anche di queste alterne fortune delle generazioni? Non è forse un sistema compensativo dei rischi e destini che dipendono solo marginalmente dalle abilità individuali? E tali rischi non sono forse inegualmente distribuiti non solo rispetto alle classi sociali, ma anche rispetto alle generazioni? È, credo, nella sordità rispetto a tali quesiti che nascono nel nostro paese le potenzialità per un conflitto forte tra generazioni circa la redistribuzione dei costi e benefici del sistema di welfare. 

(1) Negli anni della loro maturità queste coorti hanno sperimentato condizioni assai favorevoli quali: bassa instabilità familiare, forte crescita economica e un mercato del lavoro fluido, con uno "scivolamento" verso la parte alta della struttura occupazionale.

Per saperne di più: Tito Boeri e Vincenzo Galasso (2007);"Contro i giovani. Come l’Italia sta tradendo le nuove generazioni"

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  1. Claudio Resentini

    Dati interessanti quelli esposti, che non ho alcun motivo di ritenere non aderenti alla realtà. Ma mi chiedo quali siano le lenti indossate dall’autore per leggere la realtà.
    Termini come “equità redistributiva tra generazioni” o “conflitto redistributivo tra generazioni” ridefiniscono le tematiche della giustizia sociale e spostano i problemi ma non aiutano a risolverli. Il “contratto pensionistico”, poi è, sì, alla base del welfare italiano, ma perché il welfare italiano è un welfare sottosviluppato, come quello USA. Oltre alle pensioni c’è poco o niente! La previdenza (per ora) funziona, ma l’assistenza no.
    L’autore si domanda retoricamente se il sistema di welfare non debba compensare la distribuzione ineguale dei rischi sociali non solo rispetto alle classi sociali, ma anche rispetto alle generazioni, ma ignora o finge di ignorare che esiste un netto rapporto di causalità tra l’uno e l’altro squilibrio. I giovani d’oggi stanno peggio dei giovani di ieri perché si sono invertiti i rapporti di forza tra le classi sociali o come si diceva un tempo tra il lavoro e il capitale. Se il lavoro dei giovani è tornato ad essere considerato un mero fattore di produzione incapace di proteggere i lavoratori contro i rischi sociali (malattia, vecchiaia, inabilità, ecc.) non è per responsabilità e volontà di coloro che di quelle protezioni godono, ma di chi dalla diminuzione di quelle protezioni trae maggiori profitti, minore tassazione e una condizione di superiorità e di ricattabilità nei confronti dei lavoratori giovani, precari, sotto-occupati e sottopagati.
    Se si intende dotare di un sistema di assistenza decente il paese lo si faccia non a spese di chi usufruisce della previdenza (i pensionati), ma attraverso una fiscalità generale davvero redistrubutiva, salvaguardando il principio di progressività dell’imposizione fiscale e intensificando la lotta all’evasione e all’elusione fiscale. Se si tagliano le pensioni per consentire ai giovani di rimanere precari a vita non si fa che ingrassare chi sfrutta la precarietà: si roba ai poveri per dare ai ricchi, insomma. Altro che redistribuzione!
    Se poi i pensionati saranno davvero così ricchi come qualcuno vuol far credere pagheranno le tasse, no?
    Cordiali saluti.

  2. Antonio De Belli

    L’articolo e’ in gran parte condivisibile. Sarebbe pero’ interessante analizzare cosa fanno gli anziani con le loro pensioni, perche’ ho il sospetto che una parte finisca in tasca al figlio o nipote trentenne e disoccupato, riducendo la sua necessita’ di pagare generi alimentari e bollette della luce. Insomma una sorta di ridistribuzione ex-post probabilmente avviene. Sarebbe comunque molto meglio pagare direttamente un sussidio al figlio, sia perche’ costerebbe di meno (a differenza della pensione, il sussidio si interrompe quando non serve piu’), sia per incentivare l’autonomia delle nuove generazioni.

  3. Giona

    Purtroppo c’è chi ancora legge l’ottimo articolo di Albertini con lenti del passato, non più in grado di restituire nè alcuna lettura della realtà, nè tanto meno- come forse preteso da chi l’ha postato- il minimo pungolo morale. Capitale e lavoro, la solita retorica dei ricchi e poveri…insomma, tutto l’armamentario concettuale di una generazione che dopo aver finto rivoluzioni ora sta gestendo in modo reazionario il destino altrui. Sul fatto che la famiglia sia diventato un meccanismo redistributivo e compensativo (dal genitore al figlio) non ci sono dubbi, ma compito di una democrazia è rendere non opzionale questa redistribuzione, come può anche avvenire se lasciata alla libera volontà degli individui-genitori saluti.

  4. Fabrizio Panebianco

    Senz’altro vero: un sussidio diretto al figlio elimina tutta una serie di costi. L’effetto sarebbe pero’ una minore mobilita’ sociale: i genitori sussidiano i figli in misura delle loro possibilita’ e dunque chi proviene da famiglie ricche rimane ricco (ma questo rimarrebbe anche con un sistema basato su un welfare meno familistico), ma chi è sui quintili piu’ bassi non puo’ avvalersi di questa possibilita’. Verrebbe meno uno dei principi base del sistema di welfare: aiutare la mobilita’ sociale e l’equita’. Sarebbe un welfare a meta’ in cui il buon cuore e il portafogli delle famiglie avrebbero la meglio su un sistema globalmente piu’ equo.

  5. curabba calogero

    Nell’estenuante dibattito sulle generazioni e le tematiche concernenti lavoro e pensioni, forse è più opportuno parlare di disagio di due generazioni. Non un conflitto, perchè in realtà i giovani nulla sottraggono a diritti acquisiti dai padri. E’ certo aumentata la vita media ma i servizi socio assistenziali costano più cari e parte sostanziale delle pensioni è veicolato a supporto dei giovani disoccupati o ad integrazione di redditi da povertà.Il sud è caso emblematico!! La flessibilità è una impostura se non si coniuga con nuove ed effettive opportunità di reinserimento nel mercato del lavoro, con strumenti normativi che limitino il gap lavorativo e supportino processi di riqualificazione professionale autentici, cioè di effettiva correlazione con il sistema dei servizi e della produzione. Su queste tematiche grava la questione salariale che non è più rinviabile!

  6. Ferdinando Forresu

    Buongiorno, credo che ormai sia assolutamente certo che l’attuale generazione sia la prima, dopo tante, a stare peggio della precedente. Ma , hai me, non sara’ la peggiore; la prossima stara’ ancora peggio perche’ non ci sara’ la precedente in grado, come accadde oggi, di sostenerla. Pero’ non sento commenti ed inteventi in tal senso. Si parla solamente del fatto che i nonni si tiano mangiando le risorse dei giovani. Per chiunque abbia un minino di concoscenza della previdenza , e’ pacigico che i figli paghino la pensione ai genitori i quali a loro volta hanno pagato per i loro genitori. Caso mai oggi siamo in presenza di un fatto nuovo: i giovani non sono in grado di pagare le pensione ai loro genitori. Questa situazione, sia ben chiaro, non e’ dovuta all’egoismo dei giovanni bensi’ ala semplicissimo fatto che ai giovanni si pagano contibuti in muiura super ridotta, Fino allo, scorso anno tale misura era del 19% per la stragrande parte dei ragazzi, Solo dallo scorso anno tale misura e’ iniziata a crescere, ma resta, tuttavia, ben lontana dalla quota 33% che e’ la misura di equilibrio del sistema. Ferdinando Forresu

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