In Italia l’industria del venture capital è in ritardo rispetto ai principali paesi europei. I dati mostrano che è marginale il finanziamento alle prime fasi di vita e sviluppo dell’impresa e contenuta la destinazione dei fondi ai settori innovativi ad alta tecnologia. Ed è limitato l’apporto dei fondi pensione. Anche perché la scarsa propensione alla quotazione rende particolarmente delicata la fase del disinvestimento. Una soluzione delle criticità normative e regolamentari potrebbe facilitare il ricorso al capitale di rischio, soprattutto per le Pmi.

Nonostante la crescita sostenuta registrata negli ultimi anni, l’industria del venture capital in Italia rimane in ritardo rispetto ai principali paesi europei. I dati mostrano con chiarezza che il finanziamento alle prime fasi di vita e sviluppo dell’impresa (il cosiddetto "early stage") è marginale ed è parimenti contenuta la destinazione dei fondi ai settori innovativi ad alta tecnologia, mentre prevalgono gli investimenti nei comparti tradizionali: nel 2006 solo il 7 per cento dell’ammontare degli interventi ha interessato imprese high tech. La ripartizione per origine delle risorse raccolte ne evidenzia, inoltre, la matrice prevalentemente bancaria e il limitato apporto dei fondi pensione rispetto alla media europea e statunitense. Esistono, pertanto, ampi margini di miglioramento.

Venture capital, crescita e competitività

Per le sue caratteristiche il venture capital potrebbe avere, proprio nel nostro paese, una valenza specifica. Infatti, se da un lato costituisce capitale di rischio interessato a stimolare la crescita dell’impresa su un arco di tempo medio-lungo, dall’altro i portatori del capitale mirano esclusivamente alla performance finanziaria e non ad assumere la proprietà e il controllo. Potrebbe quindi rivelarsi utile a vincere la ritrosia dei titolari delle piccole e medie imprese ad aprirsi all’esterno senza timore di essere estromessi o emarginati dalla proprietà, e di avviare un processo di maturazione che potrà poi metterli in grado di valutare con maggior esperienza successive scelte finanziarie. Permangono, tuttavia, criticità normative e regolamentari da risolvere affinché lo strumento possa effettivamente dispiegare le sue potenzialità.

La rilevanza degli aspetti normativi

Il venture capitalist si propone come socio temporaneo dell’imprenditore, perché interessato a realizzare un guadagno attraverso la vendita della partecipazione (capital gain) nel medio-lungo periodo. Il suo coinvolgimento avviene secondo una sequenza di fasi ben cadenzate: dall’offerta di capitali "pazienti" (indispensabili per fronteggiare le esigenze di crescita dimensionale), all’assistenza specializzata nelle fasi più delicate della vita di un’impresa (come l’avvio), sino alla quotazione in borsa (mediante initial public offering) che rappresenta la modalità di disinvestimento normalmente più redditizia. Proprio su quest’ultimo aspetto, l’Italia si discosta significativamente dalle esperienze internazionali: la fuoriuscita dell’investitore avviene prevalentemente con modalità diverse dalla quotazione, generalmente la vendita contrattata ad personam, così penalizzando la crescita del mercato italiano del capitale di rischio proprio sotto il profilo della realizzazione del valore dei progetti imprenditoriali portati a termine. In questo snodo emerge la dipendenza del venture capital dall’evoluzione del diritto societario e del diritto dei mercati finanziari, nonché dal "raccordo" tra le due sfere. In particolare, i due diritti concorrono a definire:
le modalità del coinvolgimento dell’investitore nella vita societaria;
le modalità a disposizione del venture capitalist per il disinvestimento.
Le recenti riforme che hanno interessato il diritto d’impresa, dalla riforma del diritto societario alla legge sul risparmio, sono intervenute sui due aspetti in maniera non del tutto lineare.

Le opportunità

La riforma societaria ha posto le basi per l’apertura al capitale di rischio delle piccole e medie imprese assegnando principalmente all’autonomia statutaria, e quindi all’imprenditore, la scelta delle regole del governo societario e delle caratteristiche degli strumenti finanziari cui ricorrere. In particolare, l’ampliamento degli strumenti di raccolta per le società di capitali e la possibilità di definirne alcuni aspetti funzionali, per meglio adeguarli alle esigenze dell’imprenditore e del finanziatore esterno, sono novità che favoriscono il coinvolgimento del venture capitalist. Si pensi, ad esempio, alla deroga al principio di proporzionalità tra l’importo del conferimento e la quota della partecipazione societaria: consente di riconoscere al venture capitalist diritti specifici in relazione sia al governo dell’impresa sia alla ripartizione degli utili. Oppure si pensi alla possibilità di costituire, in sede statutaria, particolari diritti per alcune categorie di azioni/azionisti: permette di attribuire al venture capitalist un diritto di conversione automatica delle sue quote in azioni ordinarie, oppure opzioni di vendita delle stesse quote (come le convertible preferred stock ampiamente utilizzare nella pratica anglosassone), oppure altre facoltà a tutela del guadagno in conto capitale.

Le criticità

La circostanza che l’impresa finanziata non sia quotata e che la partecipazione del venture capitalist sia di minoranza rende particolarmente delicata la fase del disinvestimento. La modesta propensione alla quotazione, specie per le imprese di più piccole dimensioni, è riconducibile, tra gli altri fattori, al contesto normativo-regolatorio che rende sconveniente la trasformazione da società chiusa a società aperta. Le recenti riforme non hanno risolto questo limite:
– la riforma delle società di capitali ha ampliato fortemente il ruolo dell’autonomia privata nelle società per azioni non quotate, cerando una "discontinuità" normativa che disincentiva la quotazione;
– la riforma del risparmio (legge n. 262/2005) ha ulteriormente accentuato tale "discontinuità", approfondendo in maniera pressoché esclusiva gli aspetti regolamentari delle società quotate.
Ne deriva che la quotazione comporta un "salto" negli standard da rispettare che risulta scoraggiante soprattutto per le imprese piccole, neocostituite e con progetti innovativi, ossia proprio le realtà target dei venture capitalist.(1) È forte il rischio che le difficoltà dell’approdo in borsa, come fase ultima del coinvolgimento del venture capitalist, siano scontate ex-ante dagli investitori o inserite nei costi del capitale, oppure considerate di per sé sufficienti per non avviare il progetto.

Alla ricerca di un giusto equilibrio

Appare necessaria la ricerca di un equilibrio tra i gradi di flessibilità che il diritto societario va accordando all’autonomia statutaria e i vincoli crescenti che l’evoluzione della disciplina dei mercati finanziari correttamente propone a garanzia degli investitori.
Nei contesti anglosassoni, il bilanciamento è affidato alla definizione di best practice condivise dalle imprese, il cui rispetto crea reputazione mentre la violazione è motivo di fisiologica estromissione dal mercato. Nei contesti, come quello italiano, in cui l’affidabilità delle società quotate è assegnata a una regolamentazione significativamente più stringente di quella valida per le non quotate, si afferma una "discontinuità" che disincentiva la quotazione e indebolisce l’ultima fase di evoluzione della vita imprenditoriale così importante per i progetti venture capital. Una preoccupazione che emerge chiaramente anche nella relazione annuale della Consob del luglio scorso in cui si sollecita il legislatore ad ampliare i margini di libertà statutaria, nel solco di quanto già tracciato dalla riforma societaria, e ad attribuire una maggiore elasticità alle società quotate, nell’articolazione dei diritti di proprietà e di controllo. Alcune delle soluzioni suggerite nella relazione hanno acceso il dibattito, come la proposta di introdurre azioni con voto plurimo. Ma vi è consenso nel ritenere l’innalzamento della propensione alla quotazione un obiettivo strategico da perseguire per ridare dinamicità al tessuto industriale del nostro paese.

(1) Cfr. Corrado e Dossi su lavoce.info del 27/11/2006 "Un testo unico per la corporate governance".

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