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La crisi nata dai Subprime

Pubblichiamo una raccolta di interventi pubblicati in seguito alla crisi dei mercati finanziari innsescata dai subprime. Interventi di Luigi Spaventa, Francesco Vella, Tommaso Monacelli, Tito Boeri e Luigi Guiso, Stephen Cecchetti, Marco Onado.

Introduzione, a cura di Marco Onado

La crisi finanziaria innescata dai problemi dei mutui subprime statunitensi è uno dei fatti più importanti e clamorosi del 2007. Anche se non è ancora chiaro quale sarà l’impatto finale sul sistema finanziario e sulla stessa crescita dell’economia mondiale, sono già emerse molte crititicità strutturali che l’euforia generale aveva portato a sottovalutare: la politica monetaria, in particolare americana, che ha portato i tassi di interesse a livelli storicamente molto bassi, l’eccesso di fiducia nella capacità del sistema finanziario nel suo complesso (dalle banche che generano il rischio e poi lo distribuiscono, alle agenzie di rating) di misurare il rischio, la capacità delle autorità di monitorare il livello e la distribuzione di rischi. I danni che ne sono già derivati a famiglie debitrici e investitori finali sono enormi e il conto non è ancora definitivo. Anche se alcuni credono e tutti si augurano che il peggio sia passato, molto dovrà essere rivisto in futuro per quanto riguarda la regolamentazione e le modalità di funzionamento delle grandi banche internazionali.

Il rischio di credito: uscito dalla porta, rientrato per la finestra, di Luigi Spaventa (29-08-2007)

Oggi anche la proverbiale massaia di Voghera sa tutto sui prestiti subprime: pur se mai ha potuto averne uno, e meno che mai avere un Ninja loan, un prestito concesso con “no verification of income, job status or assets“. Non è invece del tutto ovvio come e perché la favilla relativamente piccola di un’impennata di insolvenze su quei prestiti abbia potuto innescare la grande fiammata di una crisi finanziaria dalle possibili conseguenze sistemiche. Dopo tutto, le insolvenze sui subprime, nel peggiore dei casi, potrebbero provocare perdite dirette dell’ordine di 100 miliardi di dollari (Bernanke): poco più di una goccia nel grande mare delle attività finanziarie in circolazione; poca cosa rispetto ai 5miila miliardi andati in fumo alla fine della bolla delle dot.com. a inizio secolo.

Il tassello mancante

Sappiamo che il tendenziale aumento delle insolvenze ha a un certo punto provocato una drastica riduzione di liquidità: non di quella monetaria, abbondante oggi come un anno fa, ma di quella di mercato, intesa come possibilità di vendere e acquistare strumenti finanziari senza provocare forti escursioni dei prezzi. Dall’oggi al domani attività ritenute liquide, rappresentative non solo di prestiti subprime, ma anche di mutui ragionevolmente sicuri, sono rimaste immobilizzate nei bilanci degli operatori e non hanno potuto essere rifinanziate con il credito a breve, che si è all’improvviso inaridito. Un rischio limitato di insolvenza – quello che valutano le agenzie di rating – è stato moltiplicato da un rischio di liquidità, che nessuno aveva scontato nei prezzi. Gli economisti avranno modo di riflettere sulle cause e le conseguenze delle fluttuazioni della liquidità di mercato (magari rileggendosi Shleifer e Vishny sul Journal of Finance del 1997)
Ma c’è ancora un tassello mancante. Da qualche anno si parla del trasferimento del rischio di credito e del nuovo business model delle maggiori banche, definito come “originare e distribuire”: originare prestiti e distribuirne all’esterno il rischio. Questo modello, alla base del grande castello dei derivati di credito, consente alle banche di spogliarsi di parte del rischio e a operatori terzi, che non sono intermediari finanziari, di partecipare al mercato del credito. La diffusione del rischio di credito fra soggetti non bancari dovrebbe frazionare le conseguenze delle insolvenze, ridurne gli effetti sistemici e aumentare la liquidità degli strumenti di credito. Sui costi – riduzione del monitoraggio del debitore, prima operato dalle banche, impossibilità di conoscere dove siano finiti i rischi – dovrebbe prevalere il beneficio di una maggiore immunizzazione del sistema dagli shock.
Ma allora, come mai in questo mondo nuovo qualche decina di miliardi di insolvenze riesce a provocare un contagio così diffuso? La risposta è: perché quel rischio di credito, trasferito dalle banche in varie guise (risparmio gli acronimi della nuova ingegneria) è a esse tornato in altri modi. Solo uno di questi modi aveva preoccupato i regolatori: il rischio di controparte nei rapporti finanziari (di prestito e di brokeraggio) fra banche e hedge funds. Non altri, che oggi divengono palesi.

Dietro gli acronimi fantasiosi

Il più rilevante si è manifestato nell’esistenza di entità connesse alle banche, ma collocate fuori bilancio. Con nomi esotici, quali conduits e Siv (structured investment vehicles) queste entità investivano nelle obbligazioni strutturate di credito, finanziandosi a breve con carta commerciale (Abcp: asset backed commercial paper), ma godendo di una linea di credito da parte delle banche: queste, incassando commissioni, vendevano così un’opzione di provvista di liquidità di ultima istanza non evidenziata in bilancio. Quando il prezzo delle obbligazioni è crollato, si è chiuso anche il mercato degli Abcp e le banche sono state costrette a intervenire, evidenziando in bilancio i crediti erogati. VÈ così che due banche tedesche, la Ikb e la Sachsen Landesbank, hanno dovuto alzare bandiera bianca e chiedere un salvataggio.
In secondo luogo, sono andati in crisi, negli Stati Uniti, molti intermediari specializzati, che operano sul mercato dei mutui e verso cui le banche erano esposte. In terzo luogo, molte banche erano attive con trading proprietario sul mercato delle obbligazioni strutturate di vario tipo: dopo aver trasferito il rischio di credito, lo ricompravano e lo rivendevano per trarne profitti differenziali. Quando i prezzi sono caduti, esse hanno dovuto sopportare le perdite sulle obbligazioni ancora in portafoglio. Infine, nella grande scorpacciata di leveraged buy out degli ultimi anni le banche finanziavano a dovizia le operazioni di acquisto a debito dei fondi di private equity per poi, naturalmente, rivendere fuori il credito acquisito. Un bel po’ dei crediti concessi per le operazioni più recenti gli è tuttavia rimasto sul gozzo, perché non hanno fatto a tempo a dar via le obbligazioni corrispondenti, che oggi nessuno vuole: si tratta, secondo alcune stime, di almeno 200 miliardi di dollari.
Il sistema bancario dunque, diversamente da quanto ci si attendeva, è stato un portatore del contagio: un portatore ancora abbastanza sano, dopo anni di alti profitti e di consolidamento della situazione patrimoniale; ma con sintomi di fragilità che meritano attenzione. Se ne accorgono ora le banche centrali e le autorità di vigilanza: le quali distribuiscono freneticamente questionari per appurare quale sia, dietro le quinte dei bilanci e per il tramite di terzi, l’esposizione effettiva delle banche sistema a quei rischi del credito, che usciti dalla porta sono in parte tornati per la finestra.

Dalla parte del popolo dei subprime, di Francesco Vella (29-08-2007)

La crisi, i mutui e la casa

I principali protagonisti dell’ultima crisi sui mercati internazionali sono gli ormai tristemente noti subprime loan per l’acquisto di abitazioni a persone non in grado di offrire adeguate garanzie, e che ai primi segnali di difficoltà del mercato immobiliare non sono state in grado di restituire le rate. La maggior parte delle analisi di questi giorni è concentrata sulle conseguenze della “finanza facile” e cioè della concessione di mutui senza una reale verifica del merito di credito del prenditore, con la possibilità di spalmare i relativi rischi sul mercato attraverso le cartolarizzazioni, che possono rappresentare un incentivo ad abbassare la qualità del monitoraggio sul comportamento dei debitori. Le conclusioni sono che non tutti i mali vengono per nuocere: i dolorosi salassi estivi, per le tasche degli investitori, rappresentano un salutare scossone per riportare le banche d’oltreoceano all’antico mestiere, disperso nei meandri della sofisticazione finanziaria, di attente, prudenti e corrette politiche di selezione del credito.
In realtà, guardando da vicino il fenomeno, i termini del problema non sono affatto così semplici, e investono alcuni aspetti fondamentali del mestiere di banche e società finanziarie che di fronte ai radicali mutamenti del tessuto sociale (appunto l’emersione del popolo dei subprime) hanno in realtà continuato a muoversi secondo criteri consolidati senza avere la lungimiranza di modificare le proprie modalità operative.

Le trappole

I destinatari dei subprime hanno rappresentato un preda ambita e ricercata sul mercato con insistenti e aggressive campagne pubblicitarie: si tratta di soggetti caratterizzati da una, eufemisticamente definita, “imperfect credit history” spesso accertata tramite questionari messi a disposizione su internet, e che non riescono ad accedere ai normali canali di finanziamento.
I prodotti per loro confezionati riflettono la tradizionale impostazione, con tassi di interesse elevati rispetto a quelli praticati agli altri clienti (più alto è il rischio, più alto è il prezzo) e contengono clausole, relative ad esempio ai rimborsi anticipati, decisamente penalizzanti.
Ci sono poi alcuni meccanismi come i 2/28 Arm (adjustable rate mortgage) che hanno avuto effetti micidiali per molte persone.
Si tratta di pagare una rata fissa per i primi due anni, successivamente la rata diventa variabile e agganciata al tasso di interesse rilevato in quel periodo più un determinato margine. La trappola sta tutta nel margine che, anche in presenza di bassi tassi di interesse, può generare comunque rate più elevate rispetto a quelle di partenza. A questo punto molti mutuatari programmano di rifinanziare il muto originario, ma dovendosi accollare, appunto, salatissime penalità, non ce la fanno e vanno incontro all’inevitabile default.

Il popolo dei subprime

Il popolo dei subprime è variamente composto: da chi si sbaglia a riempire i questionari sui siti internet e diventa un subprime anche se il suo scoring reale non lo è, a chi li utilizza per la seconda casa. Ma è innegabile che una fetta consistente è rappresentata da chi ha visto in questi strumenti l’unica possibilità di comprarsi, finalmente, una casa di proprietà o di rifinanziare un mutuo, sempre per l’acquisto della casa, acceso in precedenza. Purtroppo è la parte di popolazione più povera, meno istruita e più esposta ai rischi sociali dei foreclosures (i pignoramenti). Recenti studi mettono in evidenza come i mutui a più alto tasso di interesse investano le fasce a più basso reddito e come in questo insieme assumano grande rilevanza le minoranze etniche. E si calcola in 2,2 milioni le persone che negli Stati Uniti a causa dei subprime corrono il pericolo di perdere la propria abitazione. (1)
Le autorità di vigilanza stanno cercando di correre ai ripari richiedendo agli intermediari il rispetto di più rigorosi criteri di correttezza e trasparenza (ad esempio presentando ai clienti una semplice tabella dove a destra c’è scritto quanto si paga con le rata fissa e a sinistra quanto si corre il rischio di pagare con il sistema dell’Arm) e più attente analisi del rischio di solvibilità della clientela. (2)

Il credito anche a chi non lo merita: la vera sfida

Sono sicuramente interventi importanti, ma non bastano. I subprime rappresentano il sintomo di una fenomeno più generale: l’affacciarsi sul mercato del credito di sempre più estese fasce di popolazione che non presentano i normali requisiti di “bancabilità”, ma non possono rimanere escluse dai circuiti finanziari, sia per fin troppo ovvie ragioni sociali, sia per la loro rilevanza nel sostenere lo sviluppo economico anche nelle società avanzate. Senza tener conto del pericolo che finiscano nelle mani di circuiti informali e illegali.
Ed è evidente che finanziare questa clientela seguendo solo e soltanto i criteri tradizionali (tasso di interesse e garanzie), oppure utilizzando gli automatismi di scoring tipici del credito al consumo, non contribuisce a spostarla dalla sua marginalità.
L’anno scorso è stato assegnato il premio Nobel per la pace a Muhammad Yunus fondatore della banca di microcredito GrameenBank. Il successo di questa iniziativa non risiede, come molti erroneamente hanno creduto e continuano a credere, nelle ridotte quantità di denaro prestato a persone povere, ma nel fatto che vengono utilizzate particolari tecniche di valutazione e successiva gestione del finanziamento che consentono, tramite la presenza di operatori specializzati, di rinunciare alle normali, e inesistenti, garanzie, di monitorare costantemente i flussi di rimborso e di ottenere bassissime percentuali di insolvenza. (3) Sono tecniche non certo esenti da dubbi sulla loro esportabilità in contesti diversi da quelli dei paesi in via di sviluppo (dubbi, in parte, smentiti da alcune significative esperienze nell’occidente avanzato), ma rappresentano un importante terreno di sperimentazione di nuove modalità di fare credito a chi al credito non potrebbe mai accedere. Per intermediari ormai abituati a offrire prodotti altamente standardizzati con procedure automatizzate, sarebbero necessarie profonde modifiche organizzative con elevati costi operativi, ma proprio nel settore dei mutui immobiliari negli Usa vi sono ricerche che rilevano la possibile incidenza sui tassi di default non solo di una più alta alfabetizzazione finanziaria, ma anche della attività di assistenza e consulenza nei confronti dei mutuatari. (4)
È questa, in altri termini, un prospettiva che coniuga inclusione sociale e profitto perché, non bisogna dimenticarlo, un soggetto “accompagnato” verso un equo, corretto e consapevole utilizzo dello strumento creditizio è destinato a diventare in futuro il miglior cliente.


(1)
R.B. Avery, K.P. Brevoort, G.B. Canner, Higher-Priced Home Lending and the 2005 HMDA Data, in Federal Reserve Bullettin, 2006; E. Schloemer, W.Li, K. Ernst, K. Keest, Losing Ground: Foreclosures in the Subprime Market and Their Cost to Homeowners, Dicembre 2006, sul sito
www.responsiblelending.org
(2)
Sul sito
www.federalreserve.org/newsevents/
(3) Otto modi di dire microcredito, a cura di D. Ciravegna, A. Limone, Il Mulino 2007
(4) A. Hirad, P. M. Zorn, A Little Knowledge is a Good Thing: Empirical of The Effectiveness of Pre-Purchase Homeownership Counseling, maggio 2001, sul sito www.chicagofed.org.

Una crisi estensiva, ma benigna di Tommaso Monacelli (28-08-2007)

Il pubblico e soprattutto la stampa sembrano aver reagito in modo esagerato all’attuale crisi dei mercati finanziari. Si dice che stiamo assistendo alla vendetta della liquidità globale su Ben Bernanke. Ma, se di “crisi” vogliamo parlare, è più probabile che sia associata a uno scenario extensive-benign (EB) piuttosto che a uno intensive-malign (IM).
Si ha uno scenario EB quando un tipo specifico e quantitativamente limitato di rischio (in questo caso, quello riferito ai debitori subprime negli Stati Uniti) si estende su vasta scala tra investitori e paesi, attraverso una serie di strumenti di mercato, con lo scopo di diversificarne gli effetti (il fenomeno benigno). Uno scenario IM, al contrario, è associato ad un alto rischio, concentrato (spesso geograficamente) su alcuni investitori, e il cui peggioramento porta a grandi perdite di default (il fenomeno maligno, tipico, per esempio, delle crisi bancarie).

Più mutui con la diversificazione del rischio

Negli ultimi vent’anni, i mercati finanziari sono cambiati in modo sorprendente ovunque nel mondo, e in particolare negli Stati Uniti, di pari passo con l’aumento della capacità di diversificazione del rischio. Detto in altre parole, il nuovo sistema finanziario è diventato sempre più atomistico. Il legame fisico tra il contraente primario di un mutuo (la famiglia in cerca di prestiti) e il creditore si è decisamente indebolito, attraverso una pletora di strumenti di diversificazione finanziaria (e di creditori che a loro volta diventano debitori successivi lungo la catena).(1) Allo stesso tempo, i miglioramenti tecnologici nel processo di valutazione del rischio hanno ridotto sostanzialmente i costi di monitoring per i creditori.
Ma il fatto che i creditori assumano un ammontare crescente di rischio (“i prestiti subprime”) è una conseguenza naturale dell’ampliarsi della diversificazione finanziaria. Nello specifico dei mercati dei mutui, i progetti di acquisto di proprietà immobiliari che fino a dieci anni fa venivano rifiutati, ora sono diventati finanziabili. Con l’abbattimento dei costi di monitoring e con l’aumento della capacità di diversificazione, finanziare le categorie di debitori più rischiosi può essere perfettamente compatibile con la massimizzazione del profitto da parte degli istituti di credito. Dall’altro lato, per le famiglie prima escluse, il processo di diversificazione finanziaria ha significato un allentamento dei loro vincoli di liquidità. Dal punto di vista della teoria economica, è difficile identificare questo come un fenomeno “maligno”.
Si dice anche che, lungo la catena della diversificazione finanziaria, può diventare sempre più difficile individuare dove il rischio vada esattamente a posizionarsi. Certamente vero, ma non è proprio questo ciò che diversificazione finanziaria significa? Ovvero, far sì che il rischio idiosincratico (specifico della famiglia) si trasformi in trascurabile rispetto all’aggregato dei progetti di investimento finanziati.

Se cadono i prezzi delle case

Nel turbinio di commenti di questi giorni, molti sembrano aver dimenticato che negli Stati Uniti la causa iniziale della “crisi” è stata una caduta dei prezzi delle case. Grazie ai guadagni di home-equity (2), e attraverso una serie di strumenti (prestiti secondari, rifinanziamento dei mutui, etc..), il forte aumento dei prezzi delle case ha in passato decisamente esteso la capacità di accesso al credito per la famiglia media. Il punto chiave è che la recente deflazione immobiliare rappresenta il materializzarsi di uno shock aggregato. Il quale, colpendo simultaneamente tutte le famiglie, non è per definizione diversificabile. Di questo, però, la moderna architettura finanziaria non porta alcuna responsabilità.
Il problema è indubbiamente materiale per la politica monetaria. Fortunatamente, nessuno meglio di Bernanke conosce i collegamenti tra il lato finanziario e reale dell’economia. Malgrado le accuse di “errore da principiante” per aver definito “contenuto” il problema dei subprime, è stato proprio Bernanke a parlare recentemente di un imminente “acceleratore finanziario negativo” per le famiglie americane: vale a dire, prezzi delle case in caduta che conducono a un peggioramento dei bilanci delle famiglie, a un aumento dei premi al rischio e a condizioni di prestito più rigide, con possibili effetti finali sul consumo.(3)
Tuttavia, anche qui occorre cautela. In mercati finanziari sempre più integrati, come sono quelli odierni, shock nazionali (di solito sinonimo di “aggregato”) assumono sempre più spesso la forma di shock idiosincratici: il rischio paese può essere infatti diversificato a livello internazionale (risk-sharing internazionale). Perciò consumi e produzione negli Stati Uniti potranno anche rallentare nel prossimo futuro, ma lo faranno probabilmente in misura contenuta, proprio perché consumi e produzione caleranno un po’ anche in Europa.

Il mercato azionario e i due Bernanke

Come interpretare, allora, la recente crisi dei mercati finanziari? Qui entriamo ovviamente in un territorio più rischioso. Un’interpretazione è che l’ “esuberanza irrazionale” del mercato possa essersi eccessivamente concentrata sulla componente “estensiva” piuttosto che su quella “benigna” della crisi: dopo tutto, una scintilla proveniente da una nicchia piuttosto limitata del mercato dei mutui americani si è diffusa geograficamente con una capillarità sorprendente. Sotto questo aspetto, la crisi è apparsa a molti come di “tipo nuovo”. Eppure siamo probabilmente di fronte a un rischio relativamente benigno, perché ampiamente diversificato (e quindi con poca probabilità di generare grandi perdite e massicci default), e non a un rischio intensivo concentrato geograficamente, come furono le crisi bancarie del passato (per esempio la stretta creditizia del Massachusetts del 1980), e come tale di tipo maligno.
Molti si chiedono, infine, se la Fed sia troppo esitante a tagliare i tassi d’interesse. L’interpretazione malevola è che Bernanke sia ostaggio della sua (presunta) schizofrenia, con il campione dell’inflation targeting da una parte e l’esperto della Grande Depressione dall’altra. Più che una debolezza, però, questo potrebbe essere visto come un punto di forza: la Fed potrebbe infatti aver condiviso l’interpretazione “extensive-benign“. Se così fosse, è ragionevole che la Fed attenda che la parte di rischio inefficiente (se esiste) venga riassorbita naturalmente dal mercato, evitando così una conferma a posteriori di qualsiasi comportamento di “azzardo morale” (per quanto rilevante possa essere stato in passato).(4)
Diversa e più importante, è la questione che riguarda le ricadute sul lato reale dell’economia. Qualora se ne presentasse un qualsiasi segnale, la Fed sicuramente non esiterebbe a tagliare i tassi di interesse. Nel frattempo, lo scenario di risk-sharing internazionale descritto sopra continua a offrire un rassicurante margine per la presunta inerzia sui tassi (sia da parte della Fed che della Bce).


(1)
Il Fondo monetario internazionale lo definisce un sistema finanziario “a distanza più lunga di un braccio”, con un ruolo accresciuto per segnali di prezzo e competizione tra prestatori. Vedi Imf WEO, settembre 2006.
(2) Tecnicamente è la differenza tra il valore del mutuo e il valore di mercato della casa.
(3) Vedi http://www.federalreserve.gov/boardDocs/speeches/2007/20070615/default.htm
(4) Un “azzardo morale” sorge quando gli istituti di prestito pensano di poter erogare prestiti a rischio guadagnando lautamente dall’investimento se il progetto ha successo, senza però subire pienamente le perdite se l’investimento si rivela un insuccesso (fonte Wikipedia).

L’eredità di Greenspan, di Tito Boeri e Luigi Guiso (21-08-2007)

Difficile prevedere quanto durerà la crisi in corso sui mercati finanziari di tutto il mondo. La dinamica ricorda quella di crisi precedenti, a partire da quella del 1998 (default russo e collasso del fondo LTCM) di cui molti hanno oggi perso memoria. Un eccesso di liquidità (inteso come abbondante disponibilità di prestiti a basso costo) si è di colpo trasformato in difetto di liquidità, nel senso che molti operatori faticano a vendere i titoli che hanno in portafoglio senza provocare forti riduzioni del loro prezzo. Niente di direttamente paragonabile, invece, alla crisi del 1929 evocata da alcuni politici e commentatori italiani. Per fortuna Ben Bernanke, il Presidente della Federal Reserve, ha studiato a fondo quella crisi: nella sua ricostruzione (1), la “Grande Depressione” fu scatenata da un crollo della produzione e dei consumi amplificato dai tagli drastici al credito alle imprese effettuati dalle banche in parte perchè la Fed non fece quello che avrebbe dovuto: agire da prestatore di ultima istanza. Esattamente l’opposto di quanto sta accadendo oggi, con una economia mondiale che continua a crescere a tassi molto sostenuti e con le banche centrali che hanno finora assolto al loro ruolo. Il vero fattore in comune con la Grande Depressione è l’epicentro della crisi: gli Stati Uniti.
Tornando al presente, è utile cercare di spiegare le cause scatenanti della crisi. Tre fattori contribuiscono alle difficoltà dei mercati finanziari indotte dai (temuti) default sui mutui subprime nel Stati Uniti: i). la bassa alfabetizzazione finanziaria delle famiglie, ii). l’innovazione finanziaria insita nella massiccia cartolarizzazione di attività illiquide e iii.) la politica dei bassi tassi di interesse seguita dalla Fed dal 2001 al 2003. La terza causa è di gran lunga la più importante. Senza il contributo di Greenspan la crisi probabilmente non ci sarebbe mai stata.

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La bassa alfabetizzazione finanziaria

In primo fattore è un insieme di cattiva informazione, inesperienza finanziaria e miopia dei consumatori/investitori che si sono lasciati attrarre dalla prospettiva di ottenere mutui a tassi mai visti prima, estrapolando ai trenta anni successivi i tassi prevalenti sulle prime rate. Questa miopia è stata nutrita e sfruttata dalle banche e dalle finanziarie specializzate in mutui per attrarre e catturare clienti. Non diversamente da quanto hanno fatto in altre circostanze suggerendo agli investitori impieghi finanziari inadatti alla loro tolleranza del rischio: in entrambi i casi, a farla da padrone è il conflitto di interesse che antepone il conseguimento di profitti immediati da parte dell’intermediario (commissioni e interessi nel caso dei mutui; commissioni nel caso della vendita di strumenti di investimento) alle necessità del cliente. L’alfabetizzazione finanziaria è molto bassa in Italia, ma lo è molto anche negli Stati Uniti. Solo due terzi degli americani conosce le leggi della capitalizzazione composta, dunque sa calcolare i costi dell’indebitamento. Meno di un cittadino statunitense su due sa misurare gli effetti dell’inflazione sui costi dell’indebitamento. L’analfabetismo finanziario è notevolmente più alto fra i sottoscrittori dei subprime. Gli intermediari hanno ampiamente approfittato di questa bassa cultura finanziaria.

Le cartolarizzazioni

Il secondo ingrediente è l’innovazione finanziaria degli ultimi 10 anni e la scala raggiunta dalle cartolarizzazioni. Oggi è facile liquidare un pacchetto di crediti per loro natura illiquidi – quale un insieme di prestiti bancari o di mutui ipotecari – emettendo a fronte titoli rappresentativi del pool che vengono poi collocati nei portafogli degli investitori. Qualunque banca con sofferenze all’attivo ha colto questa opportunità e ha cartolarizzato i propri crediti . Come tutte le innovazioni finanziarie ha i suoi pro e i suoi contro. Il vantaggio è quello di rendere liquido un credito illiquido, consentendo importanti guadagni di efficienza perchè permette, ad esempio, di prendere posizioni a più lungo termine e a più elevato rendimento. Serve anche a spalmare il rischio di insolvenza su una platea più vasta, riducendo il grado di esposizione del singolo operatore. Ma le cartolarizzazioni finiscono anche per allentare gli incentivi degli intermediari a monitorare il comportamento del prenditore iniziale di fondi. Inoltre, dato che è possibile liquidare con maggior facilità un credito divenuto rischioso, si riduce l’incentivo delle banche a selezionare con cura i clienti, aprendo quindi le maglie anche a creditori di bassa qualità.

I bassi tassi di interesse

I due fattori precedenti non sono nuovi. Anche per questo motivo, senza il terzo fattore, il lascito del banchiere centrale del secolo, la crisi probabilmente non ci sarebbe mai stata. La politica monetaria dei bassi tassi che Alan Greenspan ha imposto come risposta alla recessione successiva all’11 settembre del 2001 e all’esplosione della bolla della new economy, ha immesso una quantità enorme di liquidità nel sistema, portando i tassi d’interesse a breve all’1 per cento, il livello più basso da 50 anni a quella parte. Di più, Greenspan ha tenuto per almeno due anni i tassi d’interesse significativamente al di sotto del loro livello di equilibrio. (2) Tassi di interesse per lungo tempo così bassi, spesso negativi in termini reali, sugli strumenti tradizionali di investimento e eccesso di liquidità invogliano i prestatori di fondi a prendere maggiori rischi per strappare rendimenti decenti. È quello che è puntualmente accaduto: intermediari in cerca di profitti hanno esteso il credito a famiglie e imprese con limitata solidità finanziaria. Investitori più o meno esperti hanno riallocato i loro portafogli verso attività più lucrative ma per questo più rischiose per cercare di accrescere il loro capitale o anche solo per preservarne il potere di acquisto. Bassi tassi sul debito, a breve e a lunga scadenza, hanno richiamato frotte di debitori, famiglie innanzitutto, che vedevano la possibilità di acquistare quello che in tanti anni nel passato era stato fuori dalla loro portata. Al contempo hanno spinto i prezzi delle abitazioni verso l’alto, ulteriormente incoraggiando l’estensione di credito, tanto, si pensava, vi è dietro il valore dell’immobile a garanzia.

Il canto delle sirene keynesiane

Grazie Alan! Si paga oggi il conto delle sovra-reazione alla recessione del 2001. La Bce è stata saggiamente più guardinga e si è lasciata solo parzialmente tentare dalle spinte keynesiane a ridurre i tassi (gia assurdamente bassi) per aggredire la stagnazione europea. Molti vorrebbero che lo facesse ora. Gli stessi che paventano oggi una nuova crisi del 1929 invocano politiche keynesiane del tipo di quelle seguite negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania dopo la Grande Depressione. Bene invece non ripetere l’errore di Greenspan, evitare politiche monetarie troppo accomodanti per troppo tempo. Oggi le banche centrali fanno bene a immettere liquidità nel sistema, anche perchè in queste crisi c’è da aver paura della paura: aspettative irrazionali possono scatenare spinte ribassiste che fanno avverare le profezie più pessimistiche. Inoltre la crisi dei mercati colpisce tutti in modo indiscriminato, anche chi non ha concesso mutui alla leggera. Il comunicato della Fed di venerdì scorso non chiarisce però se è questo l’intento del calo di mezzo punto del tasso di sconto o se è il preludio di una nuova sovrareazione alla crisi dei mercati. Sarà dunque importante dimostrare presto che si è imparata la lezione, evitando di ripetere l’errore di Greenspan. Non gettiamo oggi, come fatto tante volte in passato, i semi della crisi futura con una reazione eccessiva alla crisi corrente.

(1) Ben Bernanke (1983) Nonmonetary effects of the Financial Crisis in the Propagation of the Great Depression, American Economic Review, 73:257-276
(2) Lombardi, M. E S.Sgherri,
(Un)naturally low? Sequential Monte Carlo tracking of the US Natural Interest Rate, ECB Working Papers,n.794, august 2007

Come interviene la Fed. Domande e risposte* , di Stephen Cecchetti (21-08-2007)

Iniziamo dai fatti: Giovedì 9 agosto 2007 l’Open Market Trading Desk (il Desk) della Federal Reserve ha immesso 24 miliardi di dollari nel sistema bancario statunitense. Ciò è stato fatto nella stessa mattinata in due operazioni di uguale portata, una alle 8:25 e una 70 minuti dopo, alle 9:35. (1) Venerdì 10 agosto il Desk è intervenuto sul mercato altre tre volte (8:25, 10:55, e 13:50) iniettando in totale 38 miliardi di dollari. All’inizio della settimana successiva, le cose sembravano ritornate alla normalità con le iniezioni di 2 miliardi di dollari il lunedì e nessun intervanto il martedì. Le operazioni della Fed sono state immediatamente seguite da due più grandi iniezioni della Banca Centrale Europea di Francoforte. Giovedì mattina la BCE aveva immesso quasi 95 miliardi di euro (130 miliardi di dollari) nelle istituzioni finanziarie europee, poi, venerdì, ha dato seguito con un’operazione di poco inferiore, 61 miliardi di euro (83,6 miliardi di dollari). A fine settimana in Europa le cose non sembravano risolte, infatti lunedì (13 agosto) la BCE ha aggiunto 47,7 miliardi di euro (65,3 miliardi di dollari), e il giorno seguente in due operazioni separate ha immesso 25 miliardi di euro (34,2 miliardi di dollari) nel sistema bancario europeo. (2)

Come si immette liquidità? Che cosa sono e come funzionano le transazioni?

In tutti questi casi, i fondi sono immessi nel sistema bancario usando ciò che vengono chiamati “pronti contro termine” (accordi di riacquisto o “repos” a breve). Ecco una descrizione in stile dizionario: i contratti pronti contro termine consistono in una vendita di titoli a pronti e contestuale impegno di riacquisto a termine (per la controparte, un simmetrico impegno di acquisto a pronti e vendita a termine); il prezzo è espresso in termini di tasso di interesse annuo. (3)
Per esempio, una banca che ha Buoni del Tesoro degli Stati Uniti potrebbe aver bisogno di contanti, mentre un fondo pensione potrebbe avere contanti di cui non ha bisogno durante la notte. Attraverso un accordo di riacquisto, la banca darebbe il Buono del Tesoro al fondo pensioni in cambio dei contanti, convenendo di ricomprarlo il giorno seguente al prezzo originale maggiorato dell’interesse. In breve, la banca prende a prestito durante la notte ed il fondo pensioni riceve l’interesse sul prestito. I dettagli sono mostrati nella figura qui sotto.
In altre parole, un repo è come un’ ipoteca con la durata di una notte. Nello stesso modo in cui una persona impegna la sua casa verso la banca in cambio di un prestito, un’istituzione finanziaria dà in garanzia un titolo pubblico alla Fed in cambio di fondi. Il Desk della Federal Reserve di New York si impegna in accordi di riacquisto ogni mattina (il tempo esatto varia). Normalmente l’ammontare varia da 2 a 20 miliardi di dollari. (4) La maggior parte di questi accordi avviene durante la notte, ma i repo standard possono durare fino a 14 giorni. I 35 miliardi di venerdì 10 agosto erano la somma più ingente dopo quelle immesse nei giorni successi agli attacchi terroristici dell’11 settembre. Il record fu di 81,25 miliardi di dollari del 14 settembre 2001.

Come paga il repo la Fed? Dove prende il denaro?

C’è una differenza importante tra ciò che succede quando due istituzioni finanziarie private si vogliono impegnare l’un l’altra in un repo e cosa succede quando è conivolta la Fed.
Quando il fondo pensioni si impegna in un repo con una banca, il fondo pensioni trasferisce dei contanti alla banca. Guardando ai libri contabili delle due istituzioni, vediamo che il saldo di cassa di uno è sceso (il fondo pensioni) e dell’altro (la banca) salito, per un totale di zero. Quando la Fed si impegna in un repo, accredita semplicemente nel fondo di riserva della banca denaro che crea (comunque per una durata molto breve). In altre parole, quando la Fed vuole impegnarsi in un repo, o in un qualsiasi acquisto per questa ragione, può semplicemente creare una passività per farlo. È come se avesse una carta di credito senza limiti dove il conto non viene mai presentato.

Che succede se i bond usati nei repo durante la notte perdono valore?

Quando la Fed si impegna in un repo la banca (o chi commercializza i titoli) – ciò che è chiamato la “controparte” – concorda di riacquistare il titolo a un prezzo fisso senza così badare a ciò che succede nei mercati. (5) Sono queste le banche che intascano i guadagni o soffrono le perdite che derivano dall’oscillazione dei prezzi. Il solo rischio a cui va incontro la Fed è che la controparte fallisca e non possa onorare l’impegno. Poichè si tratta di banche di grandi dimensioni e poichè i repo sono a brevissimo termine, si tratta di un avvenimento alquanto improbabile.

Questo può avere effeti sul deficit del bilancio pubblico?

No. Le operazioni della banca centrale non hanno niente a che fare con la politica fiscale – tasse, decisioni sulla spesa e sul debito delle amministrazioni – e riguardano solo il tasso d’interesse e la quantità di riserve nel sistema bancario. La Federal Reserve è il banchiere del Governo Federale–accettando ed effettuando pagamenti, emettendo il debito quando vuole, ecc. – ma le due istituzioni non sono materialmente collegate. (Sto semplificando un po’, poiché esiste un collegamento esoterico che crea un impatto quantitativamente trascurabile).

Che cos’è la liquidità e perché è cosí importante?

La ragione ufficiale per questi interventi massicci è che la liquidità si era prosciugata. Sfortunatamente, la liquidità è uno di quei termini che assume significati diversi a seconda delle persone. Nel glossario nel mio libro di testo Denaro e Banche, definisco la liquidità come “la facilità con cui un bene può essere trasformato in un mezzo di pagamento come il denaro”. Cioè, quando un bene è liquido è facile da vendere in grandi quantità senza modificare i prezzi del mercato. Quando qualcosa è illiquido è difficile da vendere. Le persone non desiderano comprare qualcosa che non possono vendere facilmente. Se sono preoccupate che possa essere difficile o costoso vendere un bond che desiderano comprare, abbasseranno il prezzo che sono disposti a pagare, presumendo che qualcuno sia comunque disposto a comprarlo. Perchè i mercati finanziari funzionino bene, deve essere economico e facile sia comprare che vendere titoli. Quando la liquidità di mercato viene meno, i mercati finanziari si fermano.
Questa forma di liquidità potrebbe essere meglio etichettata come “liquidità di mercato” per distinguerla da ciò che chiamerei “prestito di liquidità”. Prestare liquidità è il termine che lego al concetto che si poteva trovare nelle notizie recenti. Ricordate probabilmente di aver letto o ascoltato di “ammontare enormi di liquidità rovesciati/immessi nel sistema”. Si voleva dire, penso, che l’offerta di prestiti era abbondante, cosí che era facile prendere a prestito a tassi favorevoli. Detto diversamente (e usando un certo gergo tecnico) significa che le variazioni sul rischio erano basse ed insensibili alla situazione patrimoniale di coloro che ricevevano il prestito. Cioè, il premio per il rischio pagato da chi riceve il prestito è basso e non aumenta prestandogli altre somme aggiuntive, che dovrebbero essere più rischiose.
La crisi del 1998 fu l’ultimo caso in cui la liquidità del mercato venne meno su una scala più grande di quella che osserviamo oggi. Allora fu difficile persino scambiare i titoli del Tesoro degli Stati Uniti, il mercato finanziario più liquido che esiste. (6) Finora, le cose non sono ancora arrivate a tal punto. Infatti, salvo alcune eccezioni, i mercati sembrano operare normalmente.

35 miliardi di dollari sono molti soldi. O no?

Per vedere questa cifra sotto un’altra prospettiva dobbiamo capire a che cosa sono serviti questi fondi. Quando la Fed inietta “soldi” nel sistema finanziario ciò che fa è generare fondi chiamati “fondi di riserva”. E’ lì che vanno a finire i soldi. Le banche commerciali hanno depositi presso la Fed (voi ed io non possiamo averne uno). Quelli sono i conti correnti delle banche, con l’eccezione che non pagano interessi. Poiché non riceve interessi sui fondi di riserva, ogni banca tende a ridurre al minimo questi saldi.
Le banche tengono le riserve presso la Fed per tre motivi principali: (1) Vieneloro richiesto di tenerli. (2) Ne hanno bisogno per svolgere le loro attività, in questo modo possono soddisfare le richieste dei clienti che vogliono ritirare i soldi oppure possono effettuare pagamenti ad altre banche. E (3), è prudente fare così; le riserve fungono da fondo d’emergenza della banca, sono sempre lì pronte nell’eventualità che accada qualche evento sfavorevole .
E allora: 35 miliardi è un numero grande, oppure no?
Ecco alcuni numeri che ci possono aiutare a capire:
(1) Le riserve totali nel sistema bancario degli Stati Uniti per le due settimane che si concludono il 1° agosto 2007 sono state in media 45 miliardi di dollari, di cui approssimativamente 12 miliardi sono stati tenuti come depositi di riserva presso la Fed. Il resto è tenuto in contanti in cassaforte, il che conta comunque.
(2) Le riserve eccedenti, quelle al di sopra dell’ammontare obbligatorio richiesto dalla Fed, si aggirano normalmente al di sotto di 2 miliardi.
(3) Di solito in un giorno la quantità lorda di trasferimenti interbancari è 4 trilioni di dollari (4000 miliardi di dollari). Questi comprendono i 1600 miliardi in fondi che vengono utilizzati per acquistare e vendere vari tipi di bonds (soprattutto bond del Tesoro degli Stati Uniti) .(7)
Guardando questi numeri, in primo luogo vediamo che l’azione della Fed di venerdì ha aumentato le riserve del sistema bancario per più del 75 per cento. Di maggior rilevanza, l’aggiunta di 35 miliardi ha aumentato il volume delle riserve di 4 volte. In secondo luogo, l’aumento era 10 volte superiore al livello normale delle riserve eccedenti (anche se per motivi complessi è difficile sapere oggi esattamente quanto aggiungerà alle riserve eccedenti medie).
In conclusione, va notato il fatto piuttosto sorprendente che durante i periodi normali il sistema bancario usa 12 miliardi per generare 4000 miliardi in transazioni quotidiane. Cioè in media un dollaro in un conto di riserva è usato più di 300 volte AL GIORNO. Poiché le riserve non pagano l’interesse, le banche hanno un grande incentivo per economizzare sul loro uso – questo è abbastanza efficiente. (Questa è inoltre la ragione per cui le riserve in eccesso sono così basse).
Se le banche fanno queste operazioni ogni giorno ciò ci suggerisce che sanno come farlo; ma conderando il fatto che usano i fondi cosí tante volte, se qualcuno inizia ad accumulare le riserve potenzialmente potrebbe inceppare il meccanismo. La conclusione è che 35 miliardi di dollari sono una cifra molto grande: tre volte il livello normale delle riserve che le banche detengono.

Perché le banche hanno avuto bisogno di questi soldi?

È facile spiegare perché la Fed abbia utilizzato operazioni di mercato aperto per immettere 81,25 miliardi di dollari il 14 settembre 2001 come conseguenza degli attacchi terroristici del 9/11. L’impossibilità per le persone di raggiungere i loro uffici nel centro di New York aveva fatto sì che alcune grandi banche rimanessero chiuse. Tuttavia quelle banche continuavano a ricevere dei pagamenti da altre banche, senza poterne fare a loro volta altri in uscita. I fondi fluivano in alcuni enormi conti di riserva, ma non uscivano. Alcune grandi banche succhiavano la linfa vitale del sistema finanziario. La settimana scorsa la miccia sembra essere stata la caduta continua del valore di certi titoli garantiti da ipoteca. I titoli garantiti da ipoteca sono emessi a fronte di un unico pacchetto di tantissime ipoteche e poi diviso in titoli che vengono collocati sul mercato. I proprietari di questi titoli ricevono una parte dei pagamenti effettuati dai proprietari delle abitazioni che hanno preso a prestito i fondi. Questi pacchetti creano una forma di assicurazione. Allo stesso modo le società di assicurazioni automobilistiche conoscono la frazione di assicurati che avrà incidenti (ma non esattamente quali individui); così per i pacchetti di ipotechegli investitori possono prevedere le insolvenze e quindi la probabilità di rimborso.
Ci sono numerosi tipi di titoli garantiti da ipoteca, ma quelli che sono entrati in crisi sono quelli chiamati del segmento “subprime” del mercato. I mutuatari subprime sono principalmente persone con basso reddito/credito i quali non hanno i requisiti per poter ottenere un’ipoteca standard. E’ chiaro che fare credito a questo tipo di persone è rischioso. E quando le cose sono rischiose, a volte non vanno per il meglio. Questo è ciò che è accaduto.
Ma finora, i problemi nel mercato delle ipoteche subprime sono relativamente piccoli. Attualmente, le perdite sono valutate intorno a non più di 35 miliardi di dollari, equivalente ad un ribasso del mercato azionario di circa 0,2 punti percentuali. (La settimana scorsa il valore delle azioni scambiate nei mercati statunitensi è diminuto di un 1,5 per cento, ovvero 7 volte il declino totale previsto del valore di queste ipoteche).
I problemi di questo piccolo segmento del sistema finanziario si sono trasmessi al resto del mercato. Quando gli investitori scoprono di aver sottovalutato i rischi in un luogo, cominciano a interrogarsi sulla loro capacità di valutare esattamente i rischi in qualsiasi altro luogo.
Allora accadono due cose. Primo, i prezzi delle attività finanziarie rischiose cadono. Il rischio richiede compensazione e maggiore è il rischio, maggiore dev’essere il compenso. Secondo, le persone fuggono dalle attività rischiose e di difficile valutazione e mettono i loro soldi in attività sicure, ciò che viene chiamato “una fuga verso la qualità” (“flight to quality“). La fuga verso la qualità si riflette in un aumento dei prezzi dei titoli del Tesoro degli Stati Uniti ed in un afflusso di fondi nel sistema bancario.
Così, il primo motivo per cui le banche hanno bisogno delle riserve è quello di servire i clienti che hanno messo i loro soldi nei conti correnti.
Ma gli investitori individuali non sono gli unici ad aver ridotto la loro tolleranza al rischio. Le banche fanno lo stesso. Che le banche abbiano ridotto la tolleranza al rischio è dimostrato da due importanti fatti, i quali hanno provocato, una maggior richiesta di fondi di riserva. Il primo è che le banche desiderano semplicemente un cuscino di liquidità più ampio contro la possibilità di perdite. Questo è abbastanza chiaro.
Il secondo motivo per cui le banche hanno bisogno di maggiori riserve è che sono diventate meno disposte a prestare le loro riserve alle altre banche.
Esiste un enorme mercato interbancario per i prestiti che avvengono durante la notte. E’ chiamato il “mercato dei fondi federali ” ed il tasso di interesse applicato su questi prestiti da un giorno all’altro (overnight) è il “tasso sui fondi federali “. Il tasso sui fondi federali è fissato dalla Federal Reserve. (8) In un giorno normale (non come giovedì e venerdì della settimana scorsa) le banche sono disposte a fare prestiti nelle prime ore della giornata anche se cià può significare rimanere temporaneamente allo scoperto sui propri conti. (Sì, posso farlo).
Le banche che hanno emesso allo scoperto alla mattina e che non ricevono i pagamenti per portare i loro conti di riserva nuovamente in positivo per la fine del giorno, possono sempre uscire e prenderli a prestito. Bene, sembra che le banche nell’ultima settimana non fossero più disposte a comportarsi allo stesso modo, con il risultato che è diventato molto difficile ottenere prestiti tardi nella giornata. La conclusione di questa spiegazione molto prolissa è che le banche hanno voluto tenere il livello delle riserve sostanzialmente più alto. In queste condizioni, mantenere il tasso sui fondi federali al livello previsto di 5,25 per cento – ciò che dovrebbe fare ogni giorno l’Open Market Desk della Federal Reverve di New York – significa impegnarsi in enormi operazioni.

Leggi anche:  Paradisi fiscali: quando i capitali fuggono da paesi emergenti

1) Si possono trovare tutti i dettagli guardando i dati storici sul sito della Federal Reserve http://www.newyorkfed.org/markets/omo/dmm/temp.cfm. Tutte le transazioni sono aggiunte non appena concluse.
2) Martedì, la BCE ha fornito 17,5 miliardi di euro attraverso le sue regolari aste settimanali, più 7,5 miliardi attraverso operazioni fine-tuning.
3) Esistono due tipi di contratti: general collateral e special repo. Il primo, per il quale non viene indicato il titolo sottostante, ha come fi nalità la concessione di un fi nanziamento garantito da titoli, che permette di ridurre i rischi di controparte; il secondo tipo, che presenta di norma tassi di interesse più bassi del primo, ha come obiettivo principale il prestito di un titolo specifico.
4) Il Desk pubblica un bando di gara, dichiarando solitamente il termine del repo ed il tipo di prestito che accetterà. Le banche e i broker sottoscrivono le loro offerte – quantità e prezzi – e il responsabile della Fed decide quanto accettarà. Ci sono tre tipi di prestiti: i titoli del Tesoro degli Stati Uniti, i titoli dell’agenzia degli Stati Uniti (emessi da soggetti come Fannie Mae e l’Amministrazione della piccola impresa) e sicurezze garantite con un’ipoteca. In media le offerte sono approssimativamente 5 volte superiori a quello che viene accettato per i titoli del Tesoro, 10 volte a quello per i titoli dell’agenzia e a 15 volte quello garantito con un’ipoteca.
5) La Fed intraprende le transazioni soltanto con 21 primary dealer. Questi accetttano di lanciare o fare offerte quando la Fed opera nel libero mercato, forniscono le informazioni allo open market trading desk e partecipano attivamente alle aste dei titoli del Tesoro degli Stati Uniti quando i bond, note, e bandi vengono inizialmente venduti.
6) Possiamo capire meglio il funzionamento del mercato guardando il comportamento dei dealer. Quando un mercato funziona normalmente, la differenza fra il prezzo che offrono per comprare e quel che chiedono per vendere – il margine di offerta/richiesta – sono molto piccole e sono disposte a quotare un singolo prezzo per una grande quantità. Nella crisi del 1998 ci fu un breve periodo in cui la differenza tra offerta/richiesta per i bond del Tesoro di Stati Uniti era 10 volte normale e la quantità per cui i commercianti erano disposti a tenere il prezzo era un decimo del normale.
7) se desiderate saperne di più, utilizzate questo link www.federalreserve.gov/paymentsystems/fedwire/default.htm.
8) quando il Gederal Open market Committee “fissa il tasso di interesse” realmente istruisce l’Open Market Desk a provare e mantenere il tasso su fondi federali, determinato dalle banche nel mercato per i prestiti notturni, vicino ad un obiettivo specifico. Il Desk assolve al suo compito fornendo la quantità di riserve che pensa serva al sistema bancario per mantenere quel prefissato tasso. Per motivi in qualche modo complessi, la Fed non determina realmente il tasso. Descrivo i particolari nel capitolo 18 del mio manuale, “Denaro Banche e Mercati Finanziari” (pagina 462 e seg. nella prima edizione, pagina 430 e seg. nella seconda edizione).

* Il testo in versione inglese e integrale dell’articolo è disponibile su www.voxeu.com.

Crisi dei subprime: cosa non funziona* di Marco Onado (20-08-2007)

Le oscillazioni, stile montagne russe, dei mercati finanziari che seminano in questi giorni il panico nei mercati sono molto di più di una inaspettata correzione dopo un periodo di crescita incontrastata che durava da 5 anni. L’Economist ha scritto che questo è un buon periodo per una stretta creditizia e ha lodato i vantaggi di condizioni più rigorose, seguendo la saggezza convenzionale secondo cui le crisi sono utili perché conducono a una più corretta valutazione delle merci e delle attività finanziarie.

L’Economist ha ragione?

C’è una caratteristica particolare nelle ultime crisi (e in particolare in questa) che rende questa posizione meno accettabile, almeno dal punto di vista di chi sopporta oggi le perdite e di chi ha intascato i guadagni durante la fase di boom.
Ci sono quattro caratteristiche dell’attuale sistema finanziario che vale la pena ricordare:

1) L’enorme crescita delle attività finanziarie e derivati in tutto il mondo.
Alla fine del 2005 le attività finanziarie totali si attestavano al livello sorprendente di 3,7 volte il PIL mondiale(1). L’ammontare nozionale di tutti i derivati era doppio del volume di tutte le attività finanziarie, il che significa 11 volte il PIL globale. Ricordiamo che i derivati finanziari non esistevano fino a trent’anni fa.

2) Lo storico basso livello dei tassi d’interesse negli ultimi anni, dalla metà degli anni ‘90 (come effetto della politica monetaria condotta da Greenspan ed il suo tentativo di alimentare la crescita del mercato finanziario).
Come conseguenza delle condizioni monetarie favorevoli, anche il prezzo per il rischio richiesto dal mercato è rimasto a livelli molto bassi. I due grafici seguenti (IMF, ibidem) mostrano chiaramente la situazione anormale degli ultimi anni.

3) Il peso crescente delle azioni e dei bond in percentuale del totale delle attività finanziarie (quindi la diminuzione dei prestiti dalle banche e dagli altri intermediari finanziari).
A livello mondiale (e nell’Unione Europea), i prestiti bancari costituiscono il 50 per cento del totale delle attività finanziari, ma negli Stati Uniti ed in Giappone il rapporto è molto più basso. Negli Stati Uniti soltanto 1 dollaro su cinque è preso a prestito da una banca.

4) La diminuzione dei bond governativi (cioè degli asset risk-free) rispetto al debito totale.
Mentre il rapporto medio a livello mondiale è del 50 per cento e in Europa del 35 per cento, in Nord America è del 26 per cento, con una tendenza al ribasso. Gli ultimi due punti stanno a significare che i portafogli delle famiglie sono sempre più composti da titoli soggetti sia a rischio di mercato che a rischio di credito.

Questi sono gli ingredienti della magia dell’innovazione finanziaria degli ultimi decenni: in breve, le banche hanno creato un volume sorprendente di debito, frazionandolo in vari tipi di strtumenti finanziari, con gradi diversi di garanzia.

Dove sta il rischio

Questi strumenti sono state comprati da una vasta gamma di banche più piccole, fondi pensioni, compagnie di assicurazione, hedge funds, altri fondi e anche investitori privati, tutti incoraggiati ad investire dal rating generalmente alto dato a questi strumenti. Secondo una importante scuola di pensiero, questo finanziamento “arm-length” è il più efficiente per collocare le risorse. Altri possono ricordare Dickens il quale molti anni fa definì il credito come un sistema “con cui una persona che non può pagare trova un’altra persona che non può pagare che garantisce che può pagare”.
In effetti, i sistemi finanziari globali si sono dimostrati molto elastici agli shock reali e finanziari negli ultimi venti anni ma ciò che preoccupa soprattutto le banche centrali è che – diversamente da quanto accadeva nei vecchi tempi bank-based – semplicemente non sanno dove sta il rischio. Lo testimonia questa dichiarazione nel giugno 2007 nella Relazione della Banca per i Regolamenti Internazionali (p. 167):
” Posto che le grandi banche siano riuscite a distribuire in modo più diffuso i rischi insiti nei prestiti da loro concessi, chi sono i soggetti che attualmente detengono tali rischi, e quali sono le loro capacità di gestirli? La verità è che non lo sappiamo.”.
Onesto, ma assai preoccupante.

Chi ci perde?

La sola cosa che sappiamo è che le perdite cadranno sulle spalle degli investitori finali, e non saranno condivise con le banche come è successo in forme di finanza in cui gli intermediari assumevano un peso superiore e dunque sopportavano direttamente un rischio maggiore. Il punto è che i profitti delle banche negli ultimi venti anni hanno raggiunto record storici. Il rendimento del capitale netto è stato normalmente a livelli con due cifre (la prima è preferibilmente due) e sarà probabilmente solo intaccato dalla correzione in atto sui mercati. In altre parole, la pazzia del credito è finita, una dieta era più che necessaria, ma quelli che dovranno tirare la cinghia non sono quelli che si sono ingrassati negli anni passati.

L’allocazione del finanziamento

L’efficienza allocativa del finanziamento “arm-length” merita almeno un secondo giudizio. Le implicazioni di policy di ciò che è sotto i nostri occhi sono almeno tre.
Primo, ancora una volta, è emerso un problema di rating. Le valutazioni del rischio del credito sono stato fatte su supposizioni troppo ottimistiche, usando dati non sempre statisticamente significativi ed ignorando sistematicamente la possibilità di distribuzioni statistiche irregolari in corrispondenza di eventi estremi. Quando le banche non si fanno carico dei rischi sui loro libri, ma li vendono soltanto, la fragmentazione delle responsabilità conduce a ciò che L’Economist ha definito come “troppo denaro prestato a condizioni troppo convenienti e troppo facilmente a troppe persone”. Le banche non dovrebbero disfarsi dei rischi cosí facilmente: una porzione del rischio (per esempio usando la regolamentazione sui requisiti di capitale) dovrebbe rimanere nei bilanci delle banche.
Secondo, i titoli emessi erano molto meno negoziabili di quanto le banche avevano fatto credere ai loro clienti. I bond più sofisticati venivano scambiati raramente; alcuni erano fatti su misura dalle banche d’investimento per clienti specifici e non erano mai commercializzati. Il mark-to-market (la valutazione ai prezzi di mercato) era quindi solo la conseguenza di una valutazione soggettiva frutto di complicati modelli costruiti al computer e di ipotesi altrettanto soggettive. La formazione del prezzo da parte del mercato, il vero cuore di un mercato finanziario basato sui titoli era semplicemente un’illusione. Gli investitori finali non sono adeguatamente protetti quando i loro titoli sono trattati in mercati sottili e non-regolamentati.
Terzo, c’è un problema di trasparenza nel mercato della vendita al dettaglio delle attività finanziarie. Poiché i prodotti finanziari stanno diventando sempre più sofisticati, la maggior parte degli investitori non è consapevole del rischio effettivamente sopportato. Ci sono due reazioni ipocrite che emergono: chiedere maggior trasparenza e una maggior educazione finanziaria. La prima strada dovrebbe condurre soltanto a un ulteriore appesantimento degli attuali prospetti informativi, già oggi leggibili solo da chi ha conseguito un PhD in finanza (meglio se di un’annata molto recente). La seconda strada è perfino più assurda (come ci si poteva aspettare subito sostenuta dal Presidente Bush) poiché è semplicemente impossibile colmare il divario tra il livello attuale di educazione finanziaria ed il livello di finanza da scienziato nucleare utilizzata negli attuali prodotti. La sola soluzione è usare regolamentazioni (e in particolare le regole di comportamento degli intermediari) in modo da rendere più conveniente per gli intermediari vendere prodotti finanziari semplici. Un vasto campo di ricerca (particolarmente nel Regno Unito, promosso dal Ministero del Tesoro e dalla FSA, l’organo di vigilanza) prova che la filosofia dell’attuale regolamentazione crea una forte propensione verso la complessità e l’opacità.

Non solo maggior educazione finanziaria

E’ arrivato il momento di cambiare rotta e creare adeguati incentivi affinché gli intermediari finanziari siano spinti a vendere prodotti più semplici agli investitori finali. Solo a questo punto un più alto livello di educazione finanziaria sarà efficace. E’ bene anche che gli economisti finanziari guardino più attentamente e in una maniera più dickensiana a ciò che succede all’ultimo anello della “magia” della creazione del credito.

(1) IMF, Global Financial Stability Report, Aprile 2007.

* Il testo inglese e integrale dell’articolo è disponibile su www.voxeu.com.

I due Bernanke di Tommaso Monacelli (18-07-2006)

Si dice che il nuovo governatore della Fed, Bernanke, abbia difetti di comunicazione e che sia poco sensibile all’ inflazione. Ma ad ogni cambio di regime di politica monetaria la reattività dei mercati aumenta fisiologicamente. Le reali “ambiguità” di Bernanke sono altre: la Fed transiterà ad un regime di inflation targeting? E come gestirà la Fed la fase critica di rallentamento del mercato immobiliare americano?

Questioni di “stile”?

Lo stile alla Fed è cambiato. Bernanke pranza alla mensa con i suoi economisti, mentre Greenspan si chiudeva nel suo ufficio con le guardie del corpo sulla porta. Più del predecessore, Bernanke è sicuramente pontiere ideale tra i mercati e l’accademia, tra le “visioni globali” che tanto piacciono agli operatori e i modelli matematici su cui si ingegnano i ricercatori del suo staff. Eppure Bernanke è stato (ed in parte ancora è) sotto un fuoco di fila. Si dice, per la sua presunta “morbidezza” sull’inflazione. Quanto leciti sono questi dubbi? Molto poco. Ad ogni cambio di regime di politica monetaria, a qualità invariata nella comunicazione del governatore, la reattività dei mercati aumenta fisiologicamente. Questo è un costo fisso che ogni nuovo banchiere centrale deve pagare. Se ambiguità esistono nel “regime Bernanke” sono di tipo più sostanziale. Primo, sull’introduzione o meno di un regime di inflation targeting (IT) negli USA. Secondo, sulla gestione del grande motore dell’economia mondiale, il mercato immobiliare americano.
Una premessa. La teoria economica ha da tempo messo in evidenza che nella condotta della politica monetaria non conta tanto la decisione corrente sui tassi di interesse, quanto la gestione ottimale dello strumento principe in mano alle banche centrali: le aspettative. Interessa poco se il tasso di riferimento è alzato di un quarto di punto, contano molto di più la conferenza stampa del governatore e i segnali sul sentiero futuro della policy.

La prima ambiguità di Bernanke

Bernanke è stato tra i primi accademici a sostenere le virtù di IT, cioè di un regime di politica monetaria che specifichi un preciso obiettivo numerico di inflazione (per esempio, 2 per cento). Ma pochi sottolineano che questa è in realtà solo la superficie di IT, e di importanza anche secondaria. Ben più rilevante è l’enfasi di IT sulla trasparenza, la comunicazione e l’uso di un ampio spettro di informazioni nel formulare le previsioni (forecasts) sull’evoluzione dell’inflazione. Le forecasts, solo queste, sono la stella polare di una politica monetaria “scientifica”, tanto che la terminologia forse più corretta per definire il regime di IT è quella di inflation forecast targeting.
Da cui la prima ambiguità di Bernanke: quando, se mai, la Federal Reserve deciderà di transitare ad un regime di IT? E se non dovesse farlo, non sarebbe questo di per sè motivo di perplessità, viste le ben note posizioni accademiche di Bernanke? La BCE, sostiene qualcuno, ha già di fatto compiuto la transizione a IT, avendo adottato un obiettivo numerico di inflazione del 2%. Visione ingannevole, perché confonde IT con la semplice adozione del target numerico. Su tutto il resto (trasparenza, comunicazione, gestione delle informazioni e delle aspettative) la Fed appare già oggi ben più vicina a IT della BCE, senza aver mai specificato alcun obiettivo numerico di inflazione. Per esempio, qualcuno si è mai chiesto quando è iniziata la politica del “sentiero rialzista” della Fed (ben 17 rialzi consecutivi dei tassi), unita ad un linguaggio sempre più specifico sul comportamento futuro della politica monetaria? Non è certo solo da Gennaio 2006 che Bernanke è diventato testa pensante della Fed. Perché, quindi, con Bernanke, la Fed non compie il passo decisivo e abbraccia definitivamente IT? Il semplice fatto che operatori e accademici si interroghino su questo non aiuta la trasparenza.

La seconda ambiguità di Bernanke

Un altro tema che ha reso famoso l’accademico Bernanke è quello del ruolo delle variabili finanziarie nel guidare le fluttuazioni economiche (indebitamento privato, vincoli nell’accesso al credito, valore degli asset finanziari). Sembrerà strano, ma costruire modelli economici seri in cui la “posizione finanziaria” di imprese e famiglie è rilevante per le decisioni di investimento e di consumo non è immediato. Sull’irrilevanza della posizione finanziaria tout court, Modigliani ha persino scritto materiale da Nobel.
E’ in questo contesto che si colloca il dibattito (tuttora apertissimo) sull’opportunità per la politica monetaria di rispondere o meno alle variazioni dei prezzi degli asset (case e/o azioni). Quale fautore di IT, Bernanke ha sempre sostenuto che le banche centrali non debbano rispondere alle variazioni dei prezzi degli asset, se non nella misura in cui influenzino le previsioni di inflazione. A quale Bernanke dobbiamo quindi ispirarci? A questo, oppure a quello che ritiene che le fluttuazioni economiche (vedi per esempio le sue teorie sulla Grande Depressione) siano essenzialmente spiegabili con imperfezioni sui mercati finanziari e del credito, per cui i prezzi degli immobili contano eccome per la capacità di spesa delle famiglie?
Domanda difficile, perché ancora il dibattito è lungi dall’essere risolto a livello di teoria economica. In realtà l’economia americana si trova ad uno snodo cruciale. Il regime Bernanke è iniziato proprio nel momento in cui il mercato immobiliare americano ha cominciato a rallentare, con prevedibili importanti effetti sui consumi delle famiglie. L’espansione del debito privato, infatti, si è poggiata in passato principalmente sull’effetto ricchezza indotto dalla crescita dei prezzi immobiliari, che ha espanso a dismisura la capacità delle famiglie di contrarre debiti secondari (per esempio, per comprarsi il televisore nuovo) rispetto al mutuo immobiliare principale. Bernanke, nonostante la sua anima pro IT, ha mostrato di credere che questi effetti ricchezza fossero di per sé fonte di preoccupazione, indipendentemente dalle previsioni di inflazione. Ma la teoria economica – a lui giustamente cara – non lo ha sostenuto fino in fondo, semplicemente perché ancora non ha ricette chiare da fornire. E’stata forse questa la principale causa di ambiguità all’inizio del suo mandato.

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Tagli non parole!

  1. Giuseppe Caffo

    Sono molto d’accordo che una più alta alfabetizzazione finanziaria e una migliore assistenza e consulenza nei confronti dei mutuatari sarebbe per tutti un grande vantaggio. Ma mi permetto di operare un distinguo a mio avviso importante. La Banca del Premio Nobel Muhammad Yunus concede prevalentemente prestiti a persone povere per avviare attività produttive,che aiutano molte persone ad emanciparsi dalla miseria, mentre spesso i rifinanziamenti dei mutui sono utilizzati per l’acquisto di beni di consumo non sempre indispensabili.Mi sembra una differenza sostanziale.Non credo che nessuno riceverà un Premio Nobel perchè ha concesso mutui subprime.

    • La redazione

      La ringrazio per le osservazioni, ma devo ribadire che nel mio articolo facevo riferimento, non tanto alle finalità dei finanziamenti praticati dalla GrameenBank, ma alle particolari tecniche per la valutazione dei destinatari e per la gestione del credito nei loro confronti, tecniche
      diverse da quelle tradizionali delle banche e che possono essere utilizzate non solo per l’avvio di attività imprenditoriali, ma anche per finanziarie l’acquisto di beni essenziali come la prima casa. Il problema “sociale” dei mutui subprime è proprio l’opposto di quello da Lei richiamato: molti mutui (come testimoniano i dati riportati nell’articolo) sono stati concessi non per beni di consumo, ma per
      consentire alle famiglie di andare ad abitare in una casa propria.
      Condivido la Sua idea che “che nessuno riceverà un Premio Nobel perchè ha concesso mutui subprime”, ma proprio per questo dobbiamo pensare a modalità diverse per dare soldi al popolo dei subprime.
      Francesco Vella

  2. ettore comori

    Concordo pienamente con l’analisi proposta, in relazione all’urgenza di estendere l’accesso al credito anche ai “non bancabili”.
    Yunus ha dimostrato con i fatti, che ciò può essere possibile e auspicabile sia dal punto di vista imprenditoriale che sociale: ormai non c’è più motivo per dubitare del fatto che l’accesso al credito possa essere considerato un diritto universale.

    approfondimenti
    “E’ un diritto l’accesso al credito”
    Tommaso Reggiani
    ETICA per le professioni – vol.1/2007 pp.85-92
    http://mpra.ub.uni-muenchen.de/4624/01/MPRA_paper_4624.pdf

  3. vanessa vaiani

    Gentile Professore,
    Le segnalo che nelle due settimane critiche del “credit crunch” abbiamo osservato i prezzi dei fondi monetari o quasi per capire quali fossero i “buoni e i cattivi” e nel contempo abbiamo chiesto ai commerciali delle rispettive società di gestione di fornirci la composizione di portafoglio.
    Coloro i quali ci hanno risposto nel giro di pochi minuti ovviamente non avevano niente da nascondere, ci hanno fornito lo schema come da prospetto, la composizione attuale e quella che avrebbero tendenzialmente avuto nei gg successivi… per coloro i quali non hanno risposto ci siamo mossi in modo insistente addirittura presentandoci nella sede della società di gestione. Per dovere di cronaca il responsabile Italia ci ha rinviato l’appuntamento al giorno seguente e poi non si è presentato all’appuntamento…uno dei sales più giovani impaurito dal ns atteggiamento determinato ci ha fornito una stampa del portafoglio…
    indovini un pò cosa c’era dentro? Il 90% è composto da ECP (european commercial paper) con una concentrazione per emittente che va dal 2,5% all’8%….i titoli dell’IKB ( Rhineland e Ormond Quay sonoall’8%) in barba al principio della diversificazione del rischio non c’era liquidità, non c’erano titoli governativi….il fondo ha perso l’8% in una settimana ed ha subito riscatti tali per cui da avere un nav di 8,7 miliardi di euro è oggi 4,7….il fondo aveva questi titoli a garanzia di un equity swap sulla borsa americana. Ad oggi nessuna risposta ufficiale ma delle note informative …(non si sa a cura di chi..ma con l’avviso rivolte agli investitori istituzionali) in cui si dice che il calo non è dovuto ai riscatti, non è dovuto alla componente liquida, non è dovuta all’esposizione azionaria….a cosa è dovuto?

    In questo scenario i fondi che non hanno ricevuto riscatti hanno inserito prezzi “di concerto con le banche depositarie secondo modelli interni di valutazione” (vedi es. art. il sole 24 ore di Ursino sul risparmio tradito es. Generali, Parvest BNP) quelli invece che ricevono i riscatti invece o hanno avuto il buon senso di congelare (BNP Parvest) o inviano circolari ai clienti e ai collocatori in cui il consiglio di amm decide di assegnare il nav meno il 5% a tutte le operazioni effettuate dal…(es. Julius Baer)….
    Ci si chiede in questo scenario di normative come vengono tutelati gli investitori?

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