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Dossier: cronaca di un fallimento annunciato

L’asta per Alitalia è ufficialmente fallita. Almeno, a suo tempo sapevamo privatizzare, oggi sembra che neppure questo sia vero. Ma è un problema di regole dell’asta, o semplicemente si cercava di vendere un oggetto che non ha mercato? Quale che sia la risposta, a queste condizioni nessuno acquista.
Cronaca di una morte annunciata? Speriamo di no, ma da tempo scriviamo che la situazione è insostenibile, e oggi il mercato lo ha confermato: di seguito raccogliamo alcuni dei nostri contributi degli ultimi mesi.

Alitalia: un prezzo troppo elevato. Per il paesed di Carlo Scarpa 03-07-2007

In questo periodo, mantenere il silenzio sulla vicenda di Alitalia mi è sembrato doveroso, per il rispetto che si deve a un malato terminale.

In questi ultimi mesi sono poi usciti i conti di Alitalia del 2006, con una perdita doppia a quanto previsto (il cda ha ritenuto, forse inevitabilmente, anche di svalutare la flotta): in sostanza, nel 2006 Alitalia ha perso poco meno di 2 milioni di euro al giorno. E non deve andare tanto meglio ora, se i giornali ci informano che ormai pure la normale manutenzione della flotta è divenuta problematica. Poiché il malato sembra avere perso conoscenza, forse il riserbo è ormai superfluo…

Doppia delusione

Neppure i russi se la sentono di acquisire un’impresa in questo stato e l’asta volge lentamente al termine con un sostanziale fallimento. Peccato. Nei mesi scorsi, il governo ci ha detto (correttamente) che la situazione della finanza pubblica era grave, e ha quindi deciso tagli di spesa e aumenti di imposte. Anche in una situazione definita in modo così drammatico, l’unico tentativo di vendere qualcosa era quello legato ad Alitalia. E la conclusione che si profila aggiunge delusione a delusione.

L’unica offerta che resta sul tavolo è quella dell’unica concorrente di Alitalia sulla sua tratta più redditizia (Linate – Fiumicino), che oltre tutto ha già annunciato alcune migliaia di licenziamenti. Possibile? In Italia, sì, ma solo se il governo (come ha prontamente annunciato) si farà carico di questi “esuberi”.

… non pagherebbe solo AirOne

In altri termini, per salvare Alitalia non bastano i quattrini di AirOne. Servono anche più quattrini dai clienti e dai contribuenti.

I primi, sulla tratta Milano-Roma vedranno terminare la concorrenza e certo non avranno condizioni più vantaggiose. Il tutto, ammesso che l’Autorità antitrust consenta la cosa, il che come è noto è tutto da dimostrare.

Ma servono altri quattrini anche dai contribuenti, perché i sussidi non finiscono mai, come gli esami di Eduardo. Per anni i contribuenti hanno pagato per le politiche scellerate di chi gestiva questa compagnia più volte salvata dallo Stato, e hanno dovuto tollerare che si pagassero stipendi fuori mercato a un numero di dipendenti inutile (se non per i politici di turno, che su queste politiche di assunzione hanno costruito le loro fortune). Ma questo non basta: i contribuenti dovranno pagare ancora, per far sì che lavoratori impiegati per un lavoro non utile e/o sovrapagato non debbano patire troppo la fine dei loro privilegi.

Ammesso, naturalmente, che i sindacati accettino i licenziamenti, cosa che in Italia, soprattutto con questo governo (ma non solo) e con questo ministro dei Trasporti, pare essere condicio sine qua non. Ma ricordiamo che il precedente governo di centrodestra non aveva neppure osato mettere mano al problema.

E non dimentichiamo un particolare: quando sarà noto nei dettagli il piano industriale, scopriremo cosa succederà a Fiumicino e a Malpensa: aspettiamoci pure nuove sorprese.

Non basta l’asta…

Quando è stata annunciata la vendita di Alitalia con una procedura d’asta, qualcuno aveva forse sperato che questo bastasse a ottenere un prezzo elevato per la compagnia. Era ovviamente un’illusione.

In primo luogo, procedure di asta di tipo beauty contest sono penalizzanti. Si ricordi che il governo ha infatti scelto di non vendere necessariamente al miglior offerente, ma all’offerta “complessivamente migliore” secondo il giudizio insindacabile di chi vende. Vi erano vincoli (copertura del territorio nazionale, mantenimento della riconoscibilità nazionale del marchio), si è dichiarato che i riflessi occupazionali avrebbero avuto un ruolo importante nel valutare le offerte, ma nulla di più preciso, almeno ufficialmente. Tanto che grandi investitori internazionali, anche molto esperti nel settore, si sono ritirati.

Ma in ogni caso, attenzione: un’asta, anche quella disegnata nel migliore dei modi, non serve a estorcere prezzi irragionevoli a chi compra. Serve a rivelare quanto vale un oggetto. E quale si pensava che fosse il valore di un’impresa che perde due milioni di euro al giorno?

Evidentemente, il prezzo chiesto dal governo non consente di vendere Alitalia “così come è”. Per spingere un investitore ad acquistare, bisogna in qualche modo consentirgli di liberarsi delle inefficienze, e ciò sembra richiedere l’intervento a favore dei lavoratori in eccesso. Ma anche questo non è bastato a investitori “diversi da AirOne”. Solo chi possa aggiungere al resto il vantaggio (presunto) legato alle extra-rendite sulla Milano-Roma può fare l’operazione. E infatti tutti gli altri si sono ritirati.

Rispettiamo l’Antitrust

Ma non è finita. Se, come si spera, l’Antitrust non consentirà che si spremano i consumatori, probabilmente anche AirOne si ritirerà, salvo ulteriori sconti (pesanti) sul prezzo di acquisto. E se invece l’Antitrust si piegasse alle ragioni del venditore (non raccontiamoci che ci sono ragioni “sociali” che richiedono l’operazione, per favore), una delle ultime istituzioni serie si esporrebbe a una figuraccia epocale.

Anche questo sarebbe un costo pesante. Se il cane da guardia della concorrenza si mostra timido e pronto a compromessi, le numerose lobby e i monopoli rialzeranno (giustamente) la testa. Vale la pena di pagare tutto questo per salvare Alitalia?

Dov’è il valore di Alitalia, di Marco Ponti

Quanto vale oggi la disastrata compagnia di bandiera, messa in vendita per la seconda volta dallo Stato italiano? Si badi che la maggioranza di Alitalia è già in mani private, conseguenza di una precedente vendita richiesta dalla Commissione europea per consentire un ennesimo salvataggio. Quella “vendita” era apparsa da subito irrilevante ai fini del controllo e del risanamento, e anzi rimangono ombre sulla razionalità economica con cui gli investitori di allora misero denari in quel contesto, già pesantemente “emorragico”. Certo, era un’operazione a prevalente contenuto politico, per far sopravvivere la compagnia fino alle elezioni del 2006.

Perché non ha valore

Tornando all’oggi, Alitalia non vale certo per i profitti che genera: quasi 2 milioni di perdite giornaliere l’anno scorso e all’inizio di quest’anno, in un contesto in cui tutte le compagnie aeree guadagnano. Non vale certo per l’immagine societaria presso il pubblico: la qualità dei servizi, a causa soprattutto degli scioperi, si è ulteriormente deteriorata. Non vale certo per la flotta, tragicamente obsoleta, quindi con consumi di carburante e costi di manutenzione elevati, e con una gamma tipologica così variegata da generare rilevanti diseconomie gestionali.
Come ovvio corollario della situazione, non vale certo per il “know how” del management, per di più in rotazione “politica” continua.

Perché ha valore

Vale però perché è ancora “compagnia di bandiera”, cioè nella misura in cui è politicamente protetta dalla concorrenza, e nella misura in cui ci si può attendere che tale protezione persista nel tempo.
Vediamo gli aspetti principali della questione.
Innanzitutto, Alitalia gode di slot aeroportuali molto pregiati a Roma e a Milano e nelle corrispondenti grandi città europee. Cioè può decollare e atterrare nelle ore più redditizie e “affollate”, servendo la domanda “business”, che deve poter partire dalle maggiori città e rientrare alla sera, ed è estremamente redditizia (particolarmente sulla rotta Milano-Roma, tra quelle interne). Gli slot sono a titolo gratuito e in uso perpetuo, a meno che non vengano ceduti spontaneamente da chi li possiede o che non vengano utilizzati. Tale diritto è noto come granfather’s right.
L’Europa ha colpe rilevanti nella mancata riforma del regime degli slot. Un tentativo fu fatto dalla Commissione alla fine del secolo scorso, ma essenzialmente chiedendo l’opinione degli Stati membri sulla questione, i quali, come c’era da attendersi, risposero a larga maggioranza di essere del tutto soddisfatti di un regime che tutelava le loro compagnie di bandiera dalla nascente concorrenza delle low-cost.
Un secondo aspetto concerne le relazioni extraeuropee, anche queste assai redditizie, e gestite in condizioni di sostanziale duopolio (le compagnie che possono servirle sono “indicate” dai rispettivi Stati).
Ora, alcune di queste posizioni monopolistiche si stanno erodendo, per il bene dei viaggiatori. L’Europa è stata “virtuosa” nel negoziare con gli Usa la sostanziale liberalizzazione del mercato nord-atlantico: anche se l’accordo è squilibrato in favore delle compagnie americane, ha ritenuto che i vantaggi per i passeggeri europei valevano il prezzo. Ma questo sviluppo metterà in difficoltà le compagnie di bandiera europee meno efficienti, e Alitalia è certo tra queste. In più, è possibile che “la malattia si diffonda”, portando a ulteriori liberalizzazioni su altre relazioni intercontinentali importanti.
Inoltre, la rotta nazionale più redditizia, e per questo “protetta”, la Milano-Roma, vedrà la concorrenza dei servizi ferroviari di alta velocità, che dovrebbero essere attivi tra un paio di anni.

L’interesse dell’investitore razionale

Quale potrebbe essere allora lo scenario per un investitore razionale? Con le premesse fatte, solo quello di garantirsi, a danno degli utenti, protezioni pubbliche durature, sia contro l’apertura alla concorrenza di ulteriori rotte intercontinentali (si pensi all’estremo oriente), sia contro la diffusione dei servizi low-cost, che, come sostiene l’Economist, “hanno cambiato la geografia dell’Europa”.
Qualche segnale in tal senso è già avvenuto: il ministro dei trasporti ha redatto un piano per gli aeroporti che li classifica in funzione dei servizi aerei che potranno erogare, e che sembra mirato a limitare fortemente la libertà di azione delle compagnie low-cost. C’è da sperare che le reazioni locali ne annullino l’effetto, visto che l’avvento di quei servizi in molti casi ha determinato clamorosi episodi di “esplosione” dei traffici, e addirittura di sviluppo immobiliare-turistico.
In caso poi vincesse la cordata in cui è presente AirOne, l’altro operatore sulla rotta Roma-Milano, potrebbero essere chieste deroghe temporanee all’azione dell’Antitrust per quella rotta (ma rimarrebbe imminente la pressione concorrenziale dei sevizi ferroviari velocizzati).
Da ultimo, c’è da segnalare la disponibilità del venditore, pur contestata all’interno del governo stesso, di cedere il 100 per cento della sua quota, se l’acquirente lo richiedesse. Ottima intenzione, dal punto di vista degli utenti: ma, date le premesse, l’acquirente dovrebbe pesare con molta cura gli svantaggi di possibili e perduranti interferenze politiche con i vantaggi di possibili e perduranti protezioni anticoncorrenziali.

Dove vola Alitalia, di Andrea Boitani e Carlo Scarpa 12-12-2006

La decisione del governo di cedere il 30,1 per cento del capitale di Alitalia (ne possiede il 49 per cento) ha almeno il pregio di mettere fine alle infinite chiacchiere sulla crisi della compagnia di bandiera e sulle mille ricette per uscirne. Ciascuna delle quali condizionata da interessi particolari, di categoria o territoriali, ma quasi nessuna veramente finalizzata ad avere una compagnia in grado di svolgere un servizio che incontri sul serio le preferenze dei suoi clienti. Almeno di quelli che pagano il biglietto.
Prima cosa da chiarire è però che questo elimina dal novero dei potenziali acquirenti i soggetti non comunitari. In base alle vigenti norme europee e internazionali, infatti, se oltre il 50 per cento della compagnia finisse nelle mani di un soggetto extra Unione, la compagnia non potrebbe più avere accesso al “cielo unico europeo” (quindi poter operare qualsiasi rotta tra due aeroporti comunitari) ed essere designata a esercitare le rotte intercontinentali. Insomma, l’Alitalia non potrà passare sotto il controllo di compagnie asiatiche o degli Emirati Arabi – come qualcuno aveva caldeggiato nei mesi scorsi – perché in questo modo, di fatto, perderebbe il diritto di esistere e operare come fa oggi. Dubbi ne restano molti. Perché, al di là della decisione di vendere, resta il problema di “cosa” vendere e con quali obiettivi strategici. La via peggiore sarebbe quella di costruire un bando generico, con criteri di selezione non specificati, con la conseguente completa discrezionalità della scelta del vincitore, magari sulla base di scambi non trasparenti su altri tavoli. Ma anche la via dei “paletti” – ovvero delle restrizioni poste all’acquirente, che molti esponenti politici si sono affrettati a elencare – non è priva di insidie.

I paletti

Una delle preoccupazioni che spesso emergono nel dibattito riguarda la copertura territoriale del servizio, anche in quelle tratte che oggi non sembrano remunerative. Premettiamo, per fare chiarezza, che ci pare evidente che un paese come l’Italia non possa permettersi di non avere collegamenti diffusi via aria (soprattutto data la situazione dei trasporti via terra…). Ma questo sembra in realtà un falso problema.
Da un lato, si è spesso visto come tratte apparentemente non remunerative possano divenire del tutto redditizie. Molto dipende da come vengono operate, dai costi di chi le opera e dalla capacità di attrarre clienti con un servizio ben studiato e prezzi bassi.
Dall’altro, il tema della copertura del territorio è stato affrontato remunerando Alitalia o altre compagnie per gli “oneri di servizio pubblico“. E anche questo è discutibile. Come ha notato recentemente l’Antitrust (1), con riferimento ai servizi da e per la Sardegna, l’imposizione del regime di servizio pubblico ha di fatto precluso l’isola alle compagnie low cost, che pure sarebbero in grado di garantire tariffe addirittura inferiori a quelle “agevolate”. Inoltre, il regime di servizio pubblico favorisce il coordinamento tra vettori concorrenti, per spartirsi le rotte “onerate” ed evitare riduzioni di prezzo concorrenziali.
La convenienza del regime di servizio pubblico come strumento anti-concorrenziale appare confermato dal fatto che Air One, Alitalia e Meridiana abbiano accettato (il 2 maggio 2006) di operare le rotte da e per la Sardegna che già avevano in precedenza, ma adesso rinunciando a qualsiasi compensazione da parte dello Stato.
Dunque, il problema della continuità territoriale si può risolvere in diversi modi, ma certo non chiedendo un favore a qualcuno. Anche in prospettiva, ci sembra che il tema chiave non sia avere un imprenditore “amico” che ci fa la cortesia di gestire voli in perdita, ma di avere un quadro di regole certe e di mercato il più possibile aperto, con oneri di servizio pubblico espliciti e posti solo quando strettamente indispensabile. Non è certo l’italianità che può fare differenza.
Anche il paletto relativo ai lavoratori suscita qualche perplessità. È noto, infatti, che Alitalia ha un costo per unità di prodotto elevato, non tanto perché abbia remunerazioni più elevate di altre compagnie comparabili, ma perché la produttività è scarsa e perché la gestione operativa del personale è onerosa. Anche dopo la separazione di “Alitalia servizi”, inoltre rimangono probabilmente degli esuberi. Vincolare il futuro acquirente gli attuali livelli occupazionali e agli attuali contratti di lavoro sarebbe un pessimo segnale, oltre che un modo per far scendere il prezzo di vendita, se non per far andare deserta l’asta.
Altro paletto poco raccomandabile è l’obbligo dei “due hub” (Malpensa e Fiumicino). Non ci stancheremo di ripetere che quello dell’hub (o degli hub) è un problema strategico della compagnia; non può essere una scelta obbligante compiuta dallo Stato che vuole vendere la sua quota (peraltro minoritaria), sotto dettatura bipartisan dei sindaci di Milano e Roma e dei governatori di Lazio e Lombardia. Anche perché non è chiaro quale sia l’impatto degli hub (uno o due) sul benessere della collettività nazionale. La letteratura economica in materia è assai più dubbiosa di quanto non siano sindaci e governatori che gli hub siano una benedizione per i cittadini consumatori.

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I consumatori

Uno dei paletti dei quali nessuno parla (ma che speriamo venga posto con serietà) è che la cessione di Alitalia non avvenga a spese dei consumatori. È infatti probabile che l’acquirente di Alitalia possa essere un’altra compagnia aerea, e in particolare una delle soluzioni che sono state ventilate è la fusione con AirOne, l’unico concorrente serio oggi sui principali voli interni. Alla faccia dei consumatori.
Quale reazione potrebbe avere l’Autorità antitrust di fronte a questa possibilità? Una risposta seria non potrebbe che dire: ok, ma dovete cedere una parte significativa dei diritti di decollo e atterraggio (gli slot) sulla Roma – Milano, ove il volume di affari è tale da consentire concorrenza, e dove la fusione potrebbe danneggiare gravemente i consumatori. (2) E ciò, in particolare, perché gli slot sull’aeroporto di Linate sono limitati per legge e quindi l’entrata di nuovi operatori è praticamente impossibile. Ma quanto attraente potrebbe essere Alitalia senza (il grosso de)i voli Roma-Milano? Forse non è inutile ricordare che, nel contesto di una generalizzata perdita di quote di mercato sia sui voli interni che internazionali, Alitalia abbia sostanzialmente mantenuto la propria quota di mercato (60 per cento) sulla tratta Milano Linate – Roma. Ora Air One ha il 34,2 per cento così che le due compagnie insieme arriverebbero al 94,2 per cento. Alitalia detiene inoltre una quota di quasi monopolio sulla tratta Malpensa – Roma (92,5 per cento).
Qualcuno a questo punto comincia a ventilare la “failing firm defense”, ovvero l’argomentazione secondo la quale la fusione dovrebbe comunque essere consentita per evitare il fallimento dell’impresa acquisita. Anche a costo di diminuire in modo significativo la concorrenza. Peccato che tale argomentazione non abbia alcun fondamento serio. Infatti, affinché sia una strada percorribile devono verificarsi altre due condizioni di contorno:

¨ che non vi siano altri modi di salvare l’impresa (e chiaramente questo non è vero: AirOne non è certo l’unico acquirente possibile, a meno che non si “trucchi” il processo di vendita);

¨ che in caso di fallimento dell’impresa i suoi asset escano dal mercato (e anche qui pare evidente come la capacità produttiva di Alitalia, comunque la si voglia definire, sarebbe ripresa da altri operatori…)

Quindi pare proprio che non esistano scuse per eliminare la (poca) concorrenza che già oggi esiste sul mercato.
E comunque, la maggior debolezza di Alitalia è sulle tratte europee, non su quelle nazionali. Nei voli interni la quota di Alitalia è scesa dal 65,9 per cento del 1998 fino al 43,8 del 2005, ma è costante sulla rotta più redditizia. Invece la sua quota nel segmento dei collegamenti infraeuropei da e per l’Italia è minima, pari a solo del 17,4 per cento (contro il 22,5 per cento del 2002). Per i voli extraeuropei la quota sale al 25,9 per cento, ma si tratta di voli soggetti al regime degli accordi bilaterali, e dove la concorrenza piena tra vettori è ancora lontana. La maggior necessità di Alitalia, sotto il profilo del network, è di realizzare sinergie con compagnie solide sulle rotte estere, non su quelle nazionali. (3) La difesa dell’italianità non va certo incontro a tale esigenza.

Il ruolo futuro dello Stato

Infine, desta perplessità il destino del 20 per cento dell’impresa, che il governo si riserva di tenere nelle proprie mani. Perché si vuole tenere tali azioni in mano pubblica? Tutto fa pensare che si intenda perpetuare la situazione degli scorsi decenni, con un intervento pubblico diretto nell’impresa (sulle sue politiche salariali, di occupazione, di acquisti, di scelte territoriali (Malpensa v. Fiumicino, eccetera), ovvero tutto quello che ha affossato Alitalia. Se così fosse, chi sarebbe però il pazzo che acquisterebbe il rimanente dell’impresa? E se così non fosse, perché lo Stato dovrebbe mantenere tale partecipazione?
Torna fortissimo il sospetto che possa acquistare l’impresa solo qualcuno “con la benedizione” del governo. E che questo qualcuno non si possa aspettare la remunerazione da Alitalia, ma su un altro tavolo (quale?). Abbiamo allora un passo nella direzione giusta, forse, ma non senza ombre.

(1) Si veda il documento dell’Agcm Regime di imposizione di obblighi di servizio pubblico sui servizi aerei di linea da e per la Sardegna, AS 354, Bollettino n. 29/06.
(2) Del resto, la cessione di slot su Linate è stata richiesta dall’Antitrust anche per autorizzare l’acquisizione di Volareweb da parte di Alitalia. Si veda Agcm, Alitalia/Volare, Provvedimento n. 15666, 5/7/2006.
(3) Sembra una necessità per molte compagnie europee che, formalmente ancora di bandiera, sono troppo deboli per aspirare al ruolo di global players nel contesto via via più competitivo dei prossimi anni, con la concorrenza agguerrita delle compagnie low cost e con il lento ma inevitabile progresso della liberalizzazione (il passaggio dagli attuali open skies ai cosiddetti clear skies).

La privatizzazione di Alitalia, di Alfredo Macchiati 04-12-2006

La decisione del governo di ricorrere a un “processo trasparente e non discriminatorio” per l’ingresso in Alitalia di “nuovi soggetti industriali e finanziari” rappresenta un primo passo, assolutamente positivo, sulla strada del risanamento. Passo positivo anche perché “rompe” la strategia di alcuni vettori esteri che aspettavano ulteriori peggioramenti della situazione di Alitalia per poi negoziare il “salvataggio” da posizioni di maggior forza.
Ma solo di primo passo si tratta. E il raggiungimento dell’obiettivo finale – che poi dovrebbe essere un aumento del benessere dei consumatori – mantiene tutta la sua difficoltà.

Perché è in crisi

Parto dalla diagnosi, peraltro non nuova, che la grave crisi di Alitalia sia da ricondurre da un lato alla proprietà pubblica, e quindi all’intrusione della politica, e dall’altro a un tendenziale indebolimento della posizione di mercato. (1)
Produttività e costo del lavoro – quest’ultimo nel 2004 in linea con la media europea dei vettori tradizionali, anche se superiore a quello di Lufthansa e Iberia e “naturalmente” di British – sono variabili rilevanti, ma non è lì la causa del dissesto.
I problemi fino a oggi causati dalla struttura dell’azionariato (nessuna grande compagnia europea mantiene una presenza pubblica così elevata), e a cui il governo vuole porre rimedio con la decisione di venerdì, sono noti: un elevato turn over di amministratori delegati che ha sottoposto l’azienda a troppe discontinuità strategiche; l’imposizione della scelta organizzativa, costosa e inefficiente, dei due “semi hub,” Fiumicino e Malpensa che ha aumentato, municipalizzandola, “la posta politica” sulle sorti dell’azienda; la gestione delle relazioni industriali e dei piani di ristrutturazione nelle “cabine di regia” governative; una efficienza operativa che secondo i vari confronti disponibili collocano Alitalia tra le peggiori della classe, secondo la tipica sindrome di soft budget constraint.

Il ruolo dello Stato

Si vedrà se e come questo quadro si potrà modificare con una privatizzazione parziale, che appare come l’esito più probabile del processo avviato. Vari fattori spingono a rendere necessaria la permanenza dello Stato tra i soci “di riferimento”. Non è soltanto il modo per non dover sottostare all’obbligo di lanciare un’offerta pubblica di acquisto, anche perché la normativa in materia lascerebbe qualche pur minimo spazio per evitarla. C’è anche il fatto che entrare nel settore delle aerolinee con un investimento di capitale in una compagnia full cost carrier non è “normalmente” un grandissimo affare. (2) Vi sono poi altri vari fattori specifici che aumentano il rischio dell’investimento in Alitalia: un quadro regolatorio, soprattutto nei rapporti tra compagnie aeree e gestori aeroportuali, che una volta ridefinito (e qui sarà decisivo l’intervento che il governo ha annunciato) andrà anche implementato attraverso istituzioni adeguate (tutte da costruire) nonché il peso e la gestione dei “profili di interesse generale” indicato come criterio di selezione nel beauty contest che si aprirà nei prossimi mesi.
L’insieme di questi elementi spingono a richiedere che l’azionista pubblico resti in un ruolo importante. In tal modo si può sperare che si mantenga elevato il commitment dello Stato nella soluzione di problemi che in gran parte hanno una dimensione politica. Ma potrebbe non essere sufficiente e allora si dovrà offrire al nuovo socio in “garanzia” qualche forma di protezione.
E così si arriva all’ipotesi, a cui si guarda da più parti con una benevola propensione, dell’ingresso di Air One: questo avrebbe il vantaggio per l’acquirente di “blindare” il mercato nazionale, eliminando quella pur debole forma di concorrenza che la presenza di Air One come operatore indipendente ha fino ad oggi prodotto. Ma, senza voler scomodare il mito del mercato concorrenziale e il benessere dei consumatori, una simile soluzione lascerebbe del tutto irrisolto l’altro fattore strutturale di debolezza: il posizionamento sui mercati internazionali. Posizionamento che riflette il tentativo, perseguito da qualche anno, di aumentare la utilizzazione della capacità disponibile e di ridurre le perdite e che ha portato Alitalia a concentrarsi sulle tratte europee e nazionali, particolarmente esposte alla concorrenza, mentre la presenza sui voli intercontinentali è del tutto trascurabile. Fattore di debolezza che non appare facile invertire, senza un accordo di tipo equity con un grande vettore internazionale. Per operare, con livelli di profittabilità adeguata, in mercati abbandonati o mai aggrediti, non sarà infatti sufficiente stabilire nuovi collegamenti.
Infine, una parola sui profili concorrenziali: l’autorizzazione alla concentrazione sarebbe spina dolente per l’Autorità antitrust a meno di non ricorrere al temuto e mai utilizzato articolo 25 della legge 287 che prevede appunto la possibilità per il garante di eccezionalmente autorizzare operazioni altrimenti vietate, per rilevanti interessi generali dell’economia nazionale sulla base di criteri predeterminati preventivamente e in via generale dal governo. A quel punto però sarebbe più difficile resistere ad altre proposte di fusione tra gli operatori dominanti, in nome della creazione di nuovi “campioni nazionali”, la cui retorica è sempre incombente.

(1) Nessun grande paese europeo ha una compagnia aerea con il bilancio così mal ridotto: nel 2005 solo la Swiss e la Austrian Airlines sono andate peggio di Alitalia tra le compagnie europee.
(2) Chi avesse investito nel gennaio del 1990 in un indice mondiale dei vettori tradizionali avrebbe ottenuto, fino alla fine del 2004, in media il 7,2 per cento di rendimento nominale annuo – uno dei rendimenti settoriali peggiori – contro il 21,0 per cento del rendimento di un investimento in una low cost. Vedi R. Barontini, “La performance del settore aereo dai dati borsa”, in A. Macchiati e D. Piacentino, Mercato e politiche pubbliche nell’industria del trasporto aereo, Bologna 2006

Alitalia: il piano è attuato o no? di Andrea Boitani e Riccardo Gallo, 16-10-2006

Quando sono in crisi strategica e gestionale, le imprese cambiano i vertici con una frequenza molto alta. (1) Ogni nuovo arrivato fa un piano di ristrutturazione e risanamento; su questa base strappa in qualche modo il consenso del sindacato, ottiene fiducia dai soci e dai creditori, poi li delude, viene esonerato e il suo successore ricomincia daccapo, finché l’impresa (normalmente) fallisce. Mai nessuno controlla l’attuazione del piano, né approfondisce le ragioni che portano i risultati parziali a deviare da quelli programmati e non ne imputa le responsabilità a chi (management, Stato, banche, sindacato) non ha mantenuto gli impegni assunti. È questo, appunto, il caso dell’Alitalia.

Tra il dire e il fare…

Per questa ragione è utile raffrontare il consuntivo del primo semestre 2006 – l’ultimo disponibile – con il piano ufficialmente approvato, quello cioè che convinse gli investitori a ricapitalizzare la compagnia un anno fa. Si trattava di un piano molto rigido, senza margini di elasticità, quindi difficile da attuare fedelmente. Nella tabella 1 sono riportati i principali dati di costo e di attività di trasporto, per ciascun anno dal 2001 al 2008, consuntivi o programmati. (2) Si tratta di dati tutti pubblici, tratti direttamente (o elaborati a partire) dal sito Alitalia www.alitalia.it o dai bilanci pubblicati su quello Mediobanca www.mbres.it. Un’attenta lettura della tabella consente di svolgere le seguenti considerazioni:

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a. nel 2002 e nel 2003 il grado di riempimento dei voli, in corrispondenza al quale ci sarebbe stato l’equilibrio economico della gestione industriale (Belf, break-even load factor), ha superato anche di molto il 100 per cento. Ciò vuol dire che, neanche riempendo sempre al massimo tutti i voli, l’Alitalia avrebbe potuto raggiungere una condizione di equilibrio;

b. il grado di riempimento effettivamente conseguito (Clf, current load factor) non è mai sceso granché sotto il 70 per cento, che tutto sommato è una percentuale buona e non troppo diversa da quella delle altre compagnie europee, che pure stanno meglio dell’Alitalia; (3)

c. per eliminare le perdite bisognava azzerare la distanza tra Belf e Clf, ma abbassando il punto di break-even e non sperando in un grado di riempimento dei voli troppo alto e improbabile. Per abbassare il Belf, bisognava da un lato rendere variabili i costi fissi, per ridurne l’incidenza sui costi totali, dall’altro ampliare il margine di contribuzione, cioè la differenza tra ricavo netto unitario (Yeld) e costo variabile unitario;

d. infatti, per conseguire il primo dei due obiettivi, il piano del 2005 prevedeva una riorganizzazione societaria e aziendale e una forte riduzione dell’organico. Conseguire il secondo, invece, era molto più difficile sia perché la concorrenza crescente, anche per via delle compagnie low cost, rendeva arduo aumentare le tariffe in misura apprezzabile, sia perché il costo dei consumi (variabile) tendeva ad aumentare, sopratutto per l’avversa congiuntura del prezzo del greggio;

e. alla fine del primo semestre del 2006 il Belf (82,8 per cento) era sceso sì ben al di sotto del 100 per cento, ma non solo restando molto sopra all’obiettivo di piano (54,7 per cento a fine 2006) quanto addirittura in risalita rispetto al buon consuntivo di fine 2005 (77,6 per cento);

f. la struttura dei costi (24 per cento quelli fissi, 76 per cento quelli variabili) era a fine giugno 2006 identica all’obiettivo che il piano aveva fissato per il 2005. Dunque, da questo punto di vista c’era un ritardo di sei mesi;

g. il margine di contribuzione, pari a 19 punti percentuali (0,89 di yeld meno 0,70 di costo variabile unitario) era molto più vicino all’obiettivo di piano per il 2005 (0,18) che a quello per il 2006 (0,22), in conseguenza di un aumento dello yeld vanificato dall’aumento del costo variabile;

h. il ricavo netto unitario, dunque, era superiore al costo variabile. Ciò dimostra che l’amministratore delegato Cimoli si è proprio sbagliato quando ha detto che l’Alitalia si trova in una condizione che più vola, più perde; (4)

i. il grado di riempimento (Clf) nei primi sei mesi del 2006 (69,6 per cento) era superiore a quello di piano (67,2 per cento), ma per la semplice ragione che gli investimenti sono rallentati e la capacità di trasporto (3.613 milioni di TKT, identica a quella di fine 2005) è inferiore a quella programmata;

j. il taglio dell’organico di gruppo per la riorganizzazione societaria e aziendale è stato profondo, ma a causa sia del rallentamento complessivo nell’attuazione del piano, sia dell’aumento del prezzo del carburante, risulta non ancora sufficiente. Ciò vuol dire che non solo si sarebbe dovuto tagliare di più, ma soprattutto che si sono perse battute dal lato dello sviluppo. Vuol dire anche che, continuando così, diviene inevitabile ridurre ancora l’organico;

k. i problemi dell’Alitalia nascono non già dalle questioni patrimoniali e finanziarie, tant’è vero che non c’è ricapitalizzazione e rimborso di debiti che bastino, bensì dalla struttura dei costi, da una dimensione aziendale insufficiente e dallle mancate scelte di posizionamento strategico sul mercato.

L’analisi dimostra che l’attuazione del piano ha un ritardo stimabile tra sei e nove mesi. Il ritardo non sarebbe di per sé grave se non fosse solo di poco inferiore al tempo trascorso dal varo del piano stesso. In altri termini, dopo la sciagurata ricapitalizzazione si è combinato poco o nulla.
Il risultato operativo consolidato del primo semestre del 2006 è stato fortemente negativo (132 milioni di euro). L’errore è stato varare l’anno scorso una ricapitalizzazione piena, basata su un piano di risanamento inevitabilmente rigido, di attuazione improbabile, soprattutto nell’imminenza di elezioni politiche, quando la gestione della cosa pubblica è sottoposta a pressioni clientelari da ogni parte. È molto strano che banche e investitori privati, ma anche organismi istituzionali italiani, non l’abbiano capito. Eppure a noi risulta che qualcuno l’abbia dichiarato formalmente in sedi ufficiali. Un secondo errore è stato ritenere sufficienti per l’Alitalia alleanze puramente commerciali con partner europei e non invece alleanze strategiche di natura proprietaria con altri partner.

La colpa è sempre “degli altri”

Fin qui l’analisi. In un simile quadro è francamente molto deludente la documentazione fornita da Alitalia in vista dell’audizione parlamentare dell’amministratore delegato e inappropriatamente intitolata “Il trasporto aereo in Italia”. Dalla lettura del documento si ricava la sensazione di un atteggiamento vittimista del maggiore operatore aereo italiano: sembra che tutti abbiano preso Alitalia in “gran dispitto”. Gli aeroporti che praticano sconti ai concorrenti della compagnia di bandiera (5); l’Enav che anche lui “discrimina il network carrier (cioè la stessa Alitalia n.d.r.) nell’operativo e nell’incasso delle tariffe, a vantaggio degli operatori marginali; l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che si accanisce contro le “innocue” acquisizioni di Alitalia (leggi il caso Volare.web); l’Enac che è un ente regolatore inefficace; i sindacati che pretendono da Alitalia molto di più di quanto pretendano dagli altri operatori; le compagnie low cost che, udite udite, si permettono di fare concorrenza.
Ma ciò che più stupisce del documento è che alle “eredità specifiche dell’operatore principale” (cioè sempre Alitalia) vengono dedicate due snelle paginette in fondo al documento, che non fanno alcun riferimento a quanto ricavabile dai dati Alitalia e che abbiamo proposto qui sopra. Molti elementi dell’autodiagnosi sono condivisibili e, peraltro, da tempo indicati su questo sito. Ma dal peso relativo dato alle varie questioni nel documento sembra che Alitalia voglia enfatizzare molto di più le responsabilità altrui che le sue. E questo è grave. Altrettanto grave è che non si indichino con la necessaria chiarezza le responsabilità della politica, che continua a discutere sulla questione dei due hub, come se questa non fosse una decisione di stretta pertinenza aziendale.
Infine, lascia perplessi che la compagnia si limiti a constatare sconsolatamente che il mercato italiano è diverso e più debole di quello francese o tedesco (meno passeggeri business e meno traffico generato dall’interno del paese che dall’esterno, popolazione meno concentrata nei bacini di traffico principali) senza lasciar intendere che proprio questa differenza richiede un diverso posizionamento strategico degli operatori italiani rispetto a quelli francesi o tedeschi. È proprio impossibile per la compagnia di bandiera pensare che forse, oggigiorno, all’Italia non serve un network carrier che non ce la fa ad essere tale, ma una o più compagnie efficienti e che facciano il servizio che realmente serve ai passeggeri italiani ed esteri?


(1) Cfr. Bellei R., Gallo R., Maviglia R. (2005) “Progetto per un monitoraggio delle crisi di impresa“, Banca Impresa Società, n° 2.
(2) Questi ultimi sono contrassegnati in colonna da “plan” dopo l’anno.
(3) Lufthansa 73,3 per cento, Air France 66,1 per cento.
(4) Ciò si verifica se lo yeld è inferiore al costo variabile unitario.
(5) Ma si tace la circostanza che, a parità di velivoli, i costi aeroportuali medi sono ben inferiori in Italia rispetto agli altri paesi europei e che, essendo l’Alitalia il maggiore utilizzatore degli aeroporti italiani, l’Alitalia è favorita rispetto ai concorrenti esteri che devono sostenere, in media, costi aeroportuali più elevati. Inoltre, il documento tace sulle disposizioni relative ai cosiddetti “requisiti di sistema” (L. 248/05), pensate proprio per favorire Alitalia.

Come Air France sorvolò la crisi, di Andrea Goldstein 23-07-2007

Il fallimento della procedura d’asta in vista della privatizzazione di Alitalia rilancia l’interesse per l’esperienza di Air France. Non solo perché il vettore transalpino ritorna in auge come il partner più probabile per rilevare la nostra disastrata compagnia di bandiera, ma anche e forse soprattutto perché più di dieci anni fa ai francesi riuscì il colpo d’ala per uscire dalle secche della crisi.

La crisi e la strategia per superarla

Nei primi anni Novanta, Air France perse oltre 14 miliardi di franchi, una somma tutt’altro che modesta (più di 2 miliardi di euro, da rivalorizzare ovviamente per l’inflazione accumulata nel frattempo). Lo stato francese, pur di fronte ai dubbi di Bruxelles, decise allora di ricapitalizzare per un importo di 20 miliardi di franchi. Le azioni strutturali messe in atto dal management negli anni successivi furono molteplici, al di là della fusione realizzata nel 1997 con Air Inter, la compagnia specializzata nelle linee interne.
In primo luogo, si procedette a un’analisi della redditività dei singoli scali e vennero chiusi quelli che a breve e medio periodo non garantivano prospettive interessanti. Alcune delle rotte soppresse, come quelle tra Orly, il secondo aeroporto parigino, e città di provincia come Perpignan, Tolone e Nantes, erano chiaramente importanti per politici e notabili locali, ma ogni resistenza venne superata perché il governo di Parigi non era disposto a perdere la faccia di fronte alla Commissione europea. Altre destinazioni, come Nagoya, Pisa e Ljubljana per il traffico passeggeri o Johannesburg per quello merci, furono allora soppresse, ma quando poi le condizioni di mercato sono cambiate, Air France ha deciso di tornare a servirle.
La seconda decisione strategica fu quella di intensificare la rete dei collegamenti, aumentando sia le frequenze sulle linee principali sia il numero di destinazioni servite a cadenza giornaliera, di sopprimere gli scali intermedi e di lanciare l’hub di “Charles de Grulle”. Questa strategia è stata fondamentale per aumentare la percentuale del traffico totale che corrisponde a passeggeri in connessione. Oltretutto, la qualità dell’hub, più moderno e compatto rispetto a concorrenti come Londra Heathrow, lo sviluppo di un’allenza con Delta Airlines e l’alto numero delle connessioni e pertanto delle alternative, hanno fatto sì che per Air France la carta tariffaria non fosse l’unica da utilizzare per competere con i rivali.
Il terzo elemento strategico fu la messa in atto di un sistema di tariffe del tipo yield management, capace cioè di modulare le proposte tariffarie a seconda delle condizioni di mercato. Non a caso, già nel 1997, uno dei più prestigiosi riconoscimenti americani dell’industria del trasporto aereo, l’Annual Aerospace Award, venne assegnato all’allora capo di Air France, Christian Blanc, per il successo conseguito con il nuovo sistema.
Infine, più di cinquecento misure puntuali di riduzione dei costi e di miglioramento della produttività vennero introdotte nei primi quattro anni della ristrutturazione, consentendo più di 3 miliardi di franchi di economie. Nell’ottobre 1998, un accordo globale pluriennale venne concluso con il Syndicat national des pilotes de ligne, in base al quale il 12 per cento del capitale della società venne ceduto a chi, tra il personale navigante tecnico, fosse disposto a ridurre il proprio salario. L’accordo, che fece seguito a un conflitto sindacale durato dieci giorni proprio a ridosso dell’inizio della coppa del mondo di calcio, prevedeva anche una doppia scala salariale per i nuovi assunti, ai quali in cambio Air France assicurava la formazione continua.

Poche prospettive per Alitalia

Non più di una settimana fa, il presidente e direttore generale di Air France-Klm, Jean-Cyril Spinetta, aveva nuovamente ribadito che la compagnia non intendeva partecipare alla gara per Alitalia. La posizione è forse cambiata perché le condizioni della privatizzazione sono mutate, ma ovviamente chi scrive non ha tutti gli elementi per giudicare.
Ciò su cui invece si può riflettere è la disponibilità dei vari stakeholder a realizzare in tempi brevi misure come quelle appena descritte che, pur ovviamente necessarie, potrebbero dimostrarsi ancora insufficienti. Nel nostro Parlamento si discute di Alitalia soprattutto quando un politico soffre un ritardo di un paio d’ore – meglio non pensare cosa potrebbe succedere quando si decidesse di tagliare qualche linea poco redditizia. I sindacati si caratterizzano per la capacità di alimentare con la propria conflittualità turbative sulla regolarità e sulla affidabilità commerciale, forse non consci che le casse dell’Alitalia saranno presto vuote. Imprenditori abili nel gestire un settore complesso come quello del trasporto aereo languono – per carità di patria, meglio non fare l’elenco delle low-cost nostrane capaci di competere con EasyJet, Ryanair o Air Berlin. Se almeno il governo avesse il coraggio di avviare l’Alitalia verso il destino cui sembra destinata…

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Sommario 18 luglio 2007

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Conglomerati alla riscossa

  1. marco

    L’Alitalia, (cifre all’ingrosso prese di fretta dal bilancio) fattura 4600 mil di €. e ne perde 650. Il personale incide per 730. Io non sono in grado di sapere se per far volare 177 aerei servano 4000 impiegati ma mi sa che i problemi di Alitalia non sono solo quelli. Sarebbe interessante avere comparazioni più analitiche con gli altri principali operatori.

  2. renato

    Quando è stata avanzta la proposta di vendere alitalia, in parecchi hanno tirato un sospiro di sollievo, per non esserre tirati inballo nel fare una valutazione onesta dell’azienda. Tutti manager, sindacalisti e politici, erano consapevoli della impossibilità di procedere alla vendita, visto oggetto contenuti ma sopratutto i vincoli , ma nessuno voleva assumersi la paternità di un annuncio funebre e l’hanno fatto fare al mercato, limitandosi a strapparsi i capelli in pubblico ed a sospirare di sollievo in privato.

  3. marcello

    come faccia Alitalia a perdere soldi. Non perché non ci credo, ma perché nessuno degli interventi lo dice chiaramente. Come viaggiatore, vedo: aerei più o meno simili agli altri; orari, servizio più o meno simili ad altre compagnie, che a quanto sembra riescono a stare sul mercato, tariffe (nient’affatto elevate) più o meno in linea con il mercato. Come viaggiatore, non si vede affatto questa compagnia sull’orlo del fallimento. Gli scioperi: fanno perdere soldi e passeggeri, certo, ma quantifichiamoli un attimo e vediamo di capire quanto incidono sulle perdite. Non sarebbe male se qualcuno pubblicasse chiaramente un confronto tra i costi di Alitalia rispetto ad altre compagnie di maggiore successo (ceteris paribus: ex bandiera, grandfather’s rights, tratte in quasi monopolio etc.). L’Alitalia ha troppi dipendenti? In volo o a terra? Spende troppo di manutenzione? E quanto di più? Fa tariffe troppo basse (da viaggiatore, non direi). E di quanto? Non sa fare le tariffe? E’ concentrata solo su tratte poco remunerative? Paga troppo i suoi managers? Insomma, perdere due milioni di euro al giorno in esercizio è un risultato ragguardevole: sarebbe interessante capire come sia possibile.

  4. luigi zoppoli

    Preno spunto dalla vicenda Alitalia che si trascina da interi lustri, per osservare che non si può smettere di meravigliarsi dell’incapacità di concretezza di una intera classe politica. E’ normale l’esito dell’asta: nessuno sano di mente prenderebbe Alitalia a prescindere da una ristrutturazione che non può non riguardare i dipendenti e non solo. Altrettanto folle è stata la ricapitalizzazione ” i fatto incondizionata” realizzata dai “liberali” del precedente governo. Infatti i soldi sono stati regolarmente sprecati senza che cambiasse una virgola e senza che nessuno controllasse. Regolare!
    Sarà il caso di consultare il mago Otelma palla di vetro al seguito per risolvere la questione Alitalia?

  5. luigi zoppoli

    Rilevo che il piano Alitalia viene commentato prima che sia stato presentato. In attesa della istituzionale contrarietà dei sindacati, apprezzo i commenti del Presidente Formigoni: “l’Alitalia non può dare il bello e cattivo tempo….”
    Che sciocco, credevo che l’Alitalia operasse in un paese dove per fare il piano indiustriale non servisse oltre che combattere con i sindacati, avere il permesso di Formigoni.
    Megliol libri in tribunale.
    Luigi Zopoli

  6. renato

    Per la S.p.A. Alitalia, il capolinea è in vista, è ora di fare la scelta più conveniente e più razionale, o Fiumicino o Malpensa. Il presidente della Regione Lombardia ed il Sindaco di Milano, dimenticano di essere ai verstici di due istituzioni locali fra le più importanti del paese, si strappano i capelli perchè qualcuno ha paventato di portar via da Malpensa l’Alitalia, ora da tanti amministratori mi sarei aspettato una tale presa di posizione ma non certo da Formigoni e dalla Moratti. Sembra ma forse mi sbaglio, che anche per loro il trasporto aereo sia Alitalia. Niente di più sbagliato, Alitalia è solo una compagnia aerea. Quando AZ in parte fu “aereotrasportata” a Malpensa, parecchi piansero per la triste sorte di Fiumicino, senza comprendere un dato fondamentale: non è certo una compagnia aerea nè un presidente di regione, tantomeno un sindaco a determinare l’importanza di uno scalo civile, è solo il mercato, stabiliti alcuni punti fermi come l’unicità della gestione a terra, il resto lo fa solo il mercato, al vettore va data la possibilità di caricare passeggeri e merci nei tempi più brevi possibili e con la migliore sicurezza possibile, il resto è solo assistenzialismo e dalla Regione Lombardia e dal Comune di Milano che dovrebbero essere i più titolati a tutelare il liberalismo, non mi sarei mai aspettato un atteggiamento così elettoralistico.

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