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Il mercato non va all’università

La proposta del ministro Mussi sul reclutamento dei ricercatori universitari ha alcuni elementi di indubbia novità che si richiamano al sistema anglosassone. Ma è un errore adottare solo alcune caratteristiche di altri modelli, senza coglierne lo spirito complessivo. Più in generale, la riforma tradisce una profonda diffidenza verso un meccanismo genuinamente di mercato, la sua capacità di autoregolarsi e correggersi, e il nesso inscindibile tra autonomia, potere e responsabilità.

Il 3 maggio, il ministro dell’Università e della ricerca, Fabio Mussi, ha presentato la sua proposta di regolamento per il reclutamento dei ricercatori.
Il nuovo processo consiste di due fasi. Nella prima, una commissione di sette revisori esterni (cinque italiani e due stranieri), effettua una scrematura dei candidati, sulla base delle “pubblicazioni scientifiche, o altre tipologie di prodotti scientifici”. (1) Nella seconda fase, una commissione interna all’ateneo che ha bandito il concorso valuta a) i curricula scientifici e didattici; b) le lettere di referenza sottoscritte da esperti esterni all’ateneo; c) i giudizi espressi dai revisori esterni; d) una prova seminariale pubblica; e) i “pareri valutativi” espressi da “strutture didattiche e scientifiche dell’università ” dove il concorso è stato bandito.
La proposta Mussi rivela alcuni elementi di indubbia novità, che si richiamano al sistema anglosassone: dalle lettere di presentazione alla prova seminariale. Tuttavia, non pare destinata a incidere efficacemente sulla realtà universitaria italiana.
Francesco Lissoni, su questo sito, ne ha recentemente criticato alcune parti. Ci soffermiamo qui su altri aspetti, espressione dell’errore di adottare solo alcune caratteristiche di altri sistemi, senza coglierne lo spirito complessivo. Più in generale, la riforma tradisce una profonda, ideologica diffidenza verso un meccanismo genuinamente di mercato, la sua capacità di autoregolarsi e correggersi, e il nesso inscindibile tra autonomia, potere e responsabilità.

Mercato, centralizzazione e affinità elettive

L’intervento di una commissione centrale, anche se consentisse una classifica “assoluta” dei ricercatori, non sarebbe comunque in grado di cogliere un aspetto cruciale: solo una valutazione decentralizzata da parte delle singole università consente di scoprire le affinità dei candidati con ogni particolare dipartimento. Nel mercato del lavoro, e in particolare in quello accademico, il “matching” di un ricercatore con un dato dipartimento è spesso tanto importante quanto la qualità assoluta del candidato secondo qualche parametro. Il costo di una cattiva allocazione dei professori nelle università può essere molto elevato in termini di minore motivazione e creatività nell’insegnamento e nella ricerca. Negli Stati Uniti, per esempio, vi sono università e dipartimenti che si specializzano nella ricerca, e altri che si specializzano nell’insegnamento, attribuendo quindi peso diverso alle diverse abilità di un candidato. Ogni università, o meglio ogni singolo dipartimento, dovrebbe avere il potere di scegliere il candidato più adatto alle sue caratteristiche e alla posizione che si apre.

Perché un limite al numero di domande?

La proposta Mussi impone un numero massimo di università a cui un candidato può fare domanda, per una data “tornata” di concorsi. I modelli accademici di maggior successo non hanno questi limiti. Anzi, potersi proporre in più dipartimenti svolge un importante ruolo nel buon funzionamento del mercato accademico. Visitandone un certo numero, un giovane ricercatore ha l’opportunità di farsi conoscere da più colleghi. E viceversa. Così, una volta stabilitosi in un ateneo, il ricercatore potrà promuovere, ad esempio, collaborazioni tra il “suo” dipartimento e le altre scuole da lui visitate.

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Raccomandazioni e spintarelle

I candidati dovranno accompagnare la loro domanda con almeno tre lettere di presentazione: la disposizione è stata criticata in quanto renderebbe in qualche modo ufficiale la pratica della “spintarella”. Il ministro Mussi ha difeso l’innovazione affermando che le lettere di referenza sono “la prassi” in altri paesi. Il ministro sembra però trascurare perché questa prassi è usata e ha grande peso in altri paesi. Se un professore raccomanda uno studioso di scarsa qualità, ne subirà lui stesso le conseguenze: ad esempio, successivi candidati sponsorizzati dal referente (suoi studenti o collaboratori più giovani) non verranno presi seriamente. Il referente perderà parte del suo prestigio – avrà più difficoltà a pubblicare i suoi scritti, a essere invitato a conferenze, e così via. Inoltre, le lettere di referenza non possono essere lette dal candidato e vengono inviate separatamente dal resto del materiale per la domanda. Questo conferisce al referente la libertà di essere del tutto onesto sulle qualità del candidato.
Responsabilità e segretezza sono necessarie affinché le lettere siano non solo credibili, ma anche uno dei criteri più importanti per valutare un candidato, come avviene in particolare negli Stati Uniti. Senza responsabilità del referente le lettere sono prive di qualsiasi valore informativo. Senza queste condizioni l’introduzione delle lettere è del tutto inutile.

Il mercato non è (necessariamente) la giungla

Il limite di fondo nell’impianto della riforma, confermato anche da numerosi interventi del ministro Mussi, è la diffidenza aprioristica verso il mercato, visto come una giungla senza regole dominata dal “più forte”. Ma è davvero così che opera il mercato accademico?
Negli Stati Uniti come in Canada e in diversi paesi europei, quando un dipartimento ha una posizione da offrire, la pubblicizza tramite annunci sulle riviste specializzate o su appositi siti internet. I ricercatori interessati inviano il loro curriculum, le loro pubblicazioni e chiedono ai loro professori di scrivere le lettere di referenza. Se il dipartimento è interessato, invita il candidato, lo intervista, e gli/le fa presentare un proprio lavoro di fronte a una platea di altri professori e studenti. Dopo aver ascoltato tutti i candidati, il dipartimento decide se avanzare un’offerta. L’offerta (posizione, salario, condizioni di lavoro) è individuale e può variare da persona a persona, a seconda, ad esempio, di quante altre offerte un certo candidato ha ricevuto – un indicatore, oltretutto, della buona qualità del ricercatore, grazie alla molteplicità di valutazioni.
La procedura è pressoché la stessa per qualsiasi disciplina, dall’economia alla biologia, dalle scienze politiche alla fisica. I criteri di valutazione sono accettati e standardizzati: rigore scientifico, riconoscimenti nella comunità scientifica internazionale, abilità di insegnamento. Ci sono poi altre regole a cui le università si attengono, in questo caso differenziate in genere per disciplina. Ad esempio, il mercato si apre solo in alcuni mesi: da gennaio a marzo-aprile per gli economisti, e da ottobre a gennaio per i politologi. Oppure, esistono conferenze come la American Economic Association all’inizio di gennaio, o la Academy of Management in agosto, in cui domanda e offerta si incontrano in un unico luogo fisico, dove si concentrano le interviste e poi le offerte. Ogni candidato viene valutato da più dipartimenti. E la presenza di criteri oggettivi e accettati rende le valutazioni, anche se in parte contrastanti, compatibili e confrontabili, offrendo così un quadro relativamente accurato della qualità di ogni candidato.
La comunità scientifica si è quindi dotata di istituzioni e regole, più o meno formalizzate, che dirigono il mercato dei ricercatori e professori, senza bisogno di interventi esterni. Un processo ben diverso dalla visione naif del mercato secondo Mussi.
Pur con le inevitabili imperfezioni, un sistema basato sul mercato ottempera a diverse funzioni senza interventi regolatori, se non quelli stabiliti internamente dalla comunità scientifica stessa: valutazione dei ricercatori, multipla ma su basi comuni; incentivi alla ricerca di qualità; premi e incentivi ai ricercatori più meritevoli; abbinamento di ricercatori e dipartimenti a seconda delle specifiche caratteristiche degli uni e degli altri. E, ovviamente, fondi per la ricerca che dipendono dalla produttività scientifica dei dipartimenti.
Perché in Italia si continua invece ad andare avanti a colpi di ulteriori leggi, comitati, commissioni centralizzate? Forse, come indica
Vito Tanzi in un recente intervento su lavoce.info, ciò si deve a ignoranza dei principi dell’economia e dei meccanismi di base che governano le organizzazioni umane. Oppure, più semplicemente, ci si arrende di fronte alle resistenze degli interessi costituiti e ci si accontenta di riforme di facciata, che fanno contenti gli elettori distratti, ma che di fatto poco incidono sullo status quo?

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(1)
I membri della commissione saranno estratti a sorte da due liste mantenute dalla Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca, che peraltro esiste ancora solo sulla carta.

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  1. Matteo

    Concordo in gran parte con l’analisi fatta. Tuttavia c’è una cosa che sicuramente mi lascia perplesso e “culturalmente” avvilito: il matching fra dipartimento e ricercatore.
    Come posso imparare se sono sempre immerso in discussioni con simili che la pensano più o meno come me? Dove si alimenta la curiosità scientifica (madre del cambiamento e dell’innovazione) se ai seminari di dipartimento ascolto sempre e solo le stesse campane?
    Beh mi sembra che le innovazioni vengano dal mescolarsi di obiettivi, interessi e,soprattutto, scuole di pensiero diverse……

  2. david

    Una semplice domanda:
    per quale motivo un sistema che attualmente, anche a vostro dire, si dimostra clientelare e familista nelle assunzioni, pur dovendo rispondere a procedure concorsuali aperte ed a graduatorie pubbliche, per quale motivo, tale sistema dovrebbe improvvisamente diventare “virtuoso” semplicemente rendendo più “anglosassone” il reclutamento della forza lavoro cerebrale?
    Per quale motivo un “Barone” che riesce a piazzare “i suoi” in barba alle commissioni, ai punteggi, agli esami concorsuali, dovrebbe improvvisamente perdere tutto il suo diabolico potere nel momento in cui gli si liberano le mani anche da quei pochi elementi che al momento lo vincolano?
    Non sarà che, come è avvenuto con la trasformazione in SpA di tutte le partecipazioni publiche, l’eliminazione dei concorsi porterà alla “misteriosa” sparizione anche degli annunci di lavoro? Qualcuno di voi sa per caso come assumono ENEL, ENI Terna? avete mai visto offerte di lavoro?
    A mio modesto avviso il modello anglosassone di per sé porta sempre alla prevalenza del più forte, basti pensare che i premi nobel sono quasi tutti ricercatori europei o asiatici, formati dalle nostre università ma improvvisamente “scoperti” solo dopo che sono passati in un’università americana Se tale modello viene applicato “tout-court” in un sistema sociale latino, esso porta automaticamente alla prevalenza del più “forte” che altri non è se non il “raccomandato”

  3. Alberto Michelini

    Concordo con quanto esposto nell’articolo e non nascondo una certa preoccupazione per le nuove modalita’ di selezione che comunque sembrerebbero essere un passo avanti rispetto alle esistenti.

    Il punto principale e’ appunto il mercato. Un dipartimento negli USA sceglie il nuovo faculty member in funzione di quanto il perspective e’ bravo (qualita’ e innovativita’ della ricerca, personalita’, …). In breve, il nuovo faculty member dovra’ dimostrare di essere completamente autosufficiente nella ricerca ed allo stesso tempo di collaborare con gli altri membri del dipartimento e di attrarre studenti e fondi per la ricerca.

    La procedura per una tenure track position in effetti e’ abbastanza semplice:

    1) scelta del campo in cui il dipartimento deve “crescere” e relativo advertisement della posizione,
    2) compilazione di una short-list tra le domande ricevute ed invito dei selezionati presso il dipartimento per dare dei seminari e parlare con gli altri faculty members.
    3) Decisione finale fatta proprio dagli stessi professori del dipartimento (faculty).

    Se la scelta fatta e’ sbagliata (il nuovo professore non attrae studenti, non porta fondi, non fa ricerca di rilievo e non e’ quindi riconosciuto) c’e’ la possibilita’ di non confermarlo (dopo “tot” anni a seconda degli accordi iniziali) e di mandarlo via. Se la scelta e’ giusta, aumenta il ranking del dipartimento e migliori studenti verranno attratti dallo stesso con ovvie ricadute nella qualita’ della ricerca ed il prestigio conseguente.

    Alla base di tutto cio’ ci sta una valutazione oggettiva (fatta essenzialmente dalla comunita’ scientifica) del lavoro svolto.

    Sembra cosi’ semplice ma sembra che in Italia non si riesce mai ad applicare un sistema “cosi’ com’e'” anche dove e’ stato dimostrato che funziona.

  4. Francesco Garofalo

    Qualche considerazione da parte di un professore ordinario di 50 anni con esperienza di insegnamento in Canada e negli Stati Uniti. La proposta Mussi è farraginosa e sospetta di essere l’ennesima una tantum. Dietro si intravedono faraonici piani di assunzione che continuano a impedire la fisiologia del reclutamento e del turnover. Però le reazioni del mondo accademico sono così retrive, che quasi quasi meglio la bozza. Il mercato nella accezione da voi proposta – che condivido – richiede in Italia un processo con cui introdurre la responsabilità nella governance, sennò hanno ragione quelli che vi obiettano “chi ci dice che non andrà peggio?”. Forse un processo di delegificazone e incentivi top-down, più britannico che americano. Sarebbe ora che voi economisti della Voce vi impegnaste a spiegare come si fa, piuttosto che raccontarci per l’ennesima volta il modello USA.

  5. Luigi Daniele

    In una recente conversazione estiva con un autorevole collega di altro ateneo e di raggruppamento scientifico molto lontano dal mio, mi sono sentito ripetere per l’ennesima volta che, in fin dei conti, in Italia l’accesso alle carriere universitarie avviene per cooptazione e che, in pratica, i concorsi sono pura forma: in ciascuna sede si sceglono gli allievi migliori, normalmente allievi locali o di sedi collegate accademicamente.
    Ho risposto che il problema allora consiste nella scelta di chi ammettere al gradino più basso della carriera: il dottorato di ricerca.
    Si può anche ammettere (per pura ipotesi) che i concorsi per dottorato banditi da una determinata sede siano sistematicamente vinti dai migliori laureati di quella stessa sede. Un sistema del genere tuttavia non garantisce affatto che i vincitori siano migliori di eventuali altri laureati interessati che abbiano compiuto gli studi nel resto d’Italia o, perchè no, in altri Paesi, soprattutto europei. Andando avanti così, il rischio è che le fila degli aspiranti alle successive tappe della carriera universitaria non siano costituite dalle migliori menti disponibili sul mercato nazionale od europeo nel suo insieme, ma da soggetti selezionati sulla base di un giudizio puramente locale e per ciò stesso ristretto.
    Mi è stato risposto che chi vuole farsi portare avanti da un certo docente o da una certa scuola non ha altro da fare che chiedere di preparare la tesi con il docente in questione o con uno dei componenti della scuola. Il che implica evidentemente che debba laurearsi in loco.
    Alla faccia della mobilità degli studenti e dei ricercatori!

  6. Francesco Paoletti

    Sono d’accordo con il commento di Michelini. La procedura USA è semplice e rodata, mentre l’ibrido proposto in Italia è l’ennesimo ircocerbero che mescola elementi spacciati come “di mercato” con altri (il centralismo dei concorsi) che col mercato non hanno niente a che fare, e rischiano di causare gli effetti perversi che ben conosciamo di altri pateracchi all’Italiana (es. il sistema elettorale).
    Attenzione però: come rileva lo stesso Michelini quello che fa funzionare il sistema USA è che il “controllo di mercato” avviene non sul singolo docente ma sul dipartimento o la facoltà. Una persona viene reclutata perchè si pensa che sia funzionale alla crescita di un progetto (scientifico e didattico). Se poi il contributo non corrisponde alle attese, dopo 6 anni sono i suoi stessi colleghi di dipartimento a negare la tanto agognata tenure. Questo perchè in un sistema dove il dipartimento si trova a competere per le proprie risorse, un collega di scarsa qualità rende più difficile la vita a tutti gli altri. Il sistema coniuga in questo modo l’autonomia di scelta dei dipartimenti con il principio di accountability tipico dei sistemi anglosassioni. Per migliorare la qualità del reclutamento in Italia si potrebbe allora pensare a come aumentare la percentuale delle risorse totali di funzionamento di un dipartimento che derivi da forme di competizione.

  7. Andrea Capocci

    Le assunzioni fatte finora sancivano le tacite graduatorie instauratesi nei percorsi precari di ciascuno. Nella precarietà c’e’ chi ha potuto lavorare in gruppi di buon livello, chi lo ha fatto espatriando, chi attraverso le amicizie e chi in gruppi o settori deboli ha dovuto accettare condizioni peggiori per mantenere uno strapuntino nell’università o nel suo ente. Solo in pochi fortunati settori, infatti, il percorso Laurea-PhD-Postdoc-Position è parzialmente lineare. Al momento dell’assunzione, chi ha avuto maggiori possibilità durante il “percorso precario” le ha messe a frutto.
    Molti precari, dunque, speravano che i prossimi concorsi “sparigliassero le carte”: cioè, dessero a tutti una chance di dimostrare il proprio valore (NON necessariamente di essere assunti) riaprendo i giochi anche a chi, come molti docenti a contratto, hanno un CV più debole non per demeriti loro ma perché, tra le varie condizioni elencate sopra, si sono trovati in quelle peggiori.
    Onestamente, il sistema di Princeton applicato all’università italiana chiude la porta a molti di loro e dà mano libera ai soliti gruppi di potere. Ora, invece, non vale nemmeno la pena provarci.
    Non è un caso che il nuovo sistema, a Princeton, funzioni. Per il livello dei finanziamenti generali, ma anche perché pochissimi americani intraprendono una carriera accademica: i ricercatori lì vengono da India, Cina, Italia, ex-URSS. Il sistema universitario, dunque, non ha il problema di garantire la continuità di un percorso di ricerca. Dobbiamo augurarci che anche in Italia la carriera accademica perda prestigio e le persone qualificate abbandonino le università e si buttino in un “mercato della conoscenza” che possa accoglierle, e aspettare l’arrivo dei cinesi?
    Forse sì (io NON sono un autarchico), ma se non si facilita l’accesso a chi vuole lavorare nei settori dell’istruzione, della cultura e della rcerca, quel “mercato della conoscenza” non nascerà mai, e nemmeno i cinesi verranno a fare ricerca qui.

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