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Aritmetica della finanza pubblica

Se è vero che l’Italia non riesce a sostenere la sua spesa pubblica in virtù della diffusa presenza di evasione, è anche vero che contrastare efficacemente il fenomeno porta la pressione fiscale “apparente” a un livello sensibilmente superiore alla media europea. E se lì si arrivasse, difficilmente il sistema economico potrebbe rimanere competitivo. La strada da intraprendere allora è una sola: ridurre sia l’evasione sia il carico fiscale. Di conseguenza, anche la spesa andrebbe tenuta sotto controllo con una strategia di medio periodo, chiara ed esplicita.

Alcune operazioni aritmetiche possono contribuire a fornire elementi utili per affrontare due dei nodi principali della finanza pubblica italiana: l’entità della spesa e la pressione fiscale.
Gli analisti abitualmente rapportano entrambe queste poste al prodotto interno lordo. La ragione risiede nel fatto che il Pil misura l’ammontare di ricchezza prodotta e, quindi, il rapporto consente di avere una misura relativa della sostenibilità sia delle entrate che delle uscite del bilancio pubblico. Inoltre è l’aggregato statistico più standardizzato a livello internazionale (schemi Nazione Unite ed Eurostat) e permette di effettuare comparazioni corrette tra paesi.
Entrambe queste affermazioni necessitano di ulteriori qualificazioni.

Il sommerso nel Pil

Il Pil include l’economia sommersa, gran parte della quale è rappresentata dall’evasione fiscale e, pertanto, fornisce una misura della sostenibilità “potenziale” sia delle entrate che della spesa e non già una misura effettiva. Il rapporto che rappresenta la pressione fiscale, infatti, prende in considerazione il carico di tributi che grava sia sui redditi dichiarati (in misura piena) che su quelli occultati al fisco (sostanzialmente totalmente esenti).

Parimenti rapportare la spesa al Pil vuol dire considerare congiuntamente sia i redditi di coloro che concorrono a sostenerla (i dichiaranti) sia quelli di coloro che ne beneficiano senza sopportarne l’onere (i non dichiaranti).
Inoltre, il tasso di evasione non è omogeneo tra le differenti nazioni e in Italia risulta essere segnatamente maggiore. (1) Pertanto, pur se la misura della pressione fiscale italiana, rapportata al Pil, appare di poco superiore alla media europea, la differenza apparirebbe molto più marcata se dividessimo le entrate per i dati dichiarati. Analogamente, se operassimo un confronto tra i dati di spesa pubblica e i redditi di chi effettivamente la finanzia (i dichiaranti), alcuni giudizi sul fatto che noi abbiamo delle percentuali differenti da altri paesi, ad esempio nel campo della sanità o della protezione sociale, andrebbero sensibilmente rivisti.
Negli anni più recenti si sono rese disponibili differenti stime dell’evasione (2) ed è possibile depurare il Pil della componente di reddito non dichiarato.
La figura 1 illustra il rapporto tra il totale delle uscite delle amministrazioni pubbliche con il Pil ufficiale dell’Istat e con quello “dichiarato”. Si osserva una distanza che oscilla intorno ai 10 punti percentuali tra i due indicatori. Ciò ci fornisce la misura dei redditi, e, quindi, dei relativi percettori, che, pur godendo dei servizi pubblici non concorrono a sostenerne le spese. Tale distanza non rimane costante nel tempo, ma si amplifica, o si restringe, al crescere o al decrescere dell’evasione. In particolare si assiste a una crescita dal 1999 al 2001 (da 9,1 a 10,9 punti percentuali), un flessione nel 2002 (9,7) e una ripresa nell’ultimo biennio (rispettivamente 11,1 e 11,6).
Nella figura 2 si replica lo stesso esercizio con riferimento alle entrate fiscali. In particolare, si qualifica come pressione fiscale “apparente” il rapporto che ha il Pil Istat come denominatore (nell’uso comune definito pressione fiscale tout court) e come “effettiva” il rapporto con il Pil “dichiarato”. È importante sottolineare che il primo indice si definisce “apparente” poiché risente sia delle variazioni normative che della dinamica dell’evasione, mentre la pressione “effettiva” è sensibile prevalentemente alla legislazione vigente. Pertanto, valutare le misure governative sulla base dell’indicatore “apparente”, operazione entrata nell’uso comune di tutti gli analisti, può portare a conclusioni fuorvianti, poiché si corre il rischio di commentare sostanzialmente la crescita o la diminuzione dell’evasione, ovvero formulare l’ipotesi (irrealistica, fondandosi sui dati disponibili) che l’incidenza dell’evasione sul Pil rimanga costante nel tempo.

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Il dilemma da affrontare

Una riduzione dell’evasione, coeteris paribus, comporta necessariamente che la pressione fiscale apparente si innalzi fino a raggiungere, nel caso estremo di assenza di evasione, quella effettiva. Quest’ultima, nel 2004, è risultata pari a 50,4 per cento, mentre, se si considera il carico fiscale sia sui redditi dichiarati che su quelli occultati si ottiene un valore pari al 40,6 per cento.
aritmetica solleva il seguente dilemma: se è vero che l’Italia non riesce a sostenere la sua spesa pubblica in virtù della diffusa presenza di evasione fiscale, che si configura come un’emergenza che la differenzia dagli altri paesi maggiormente industrializzati, è anche vero che contrastare efficacemente questo fenomeno conduce la pressione fiscale “apparente” a un livello sensibilmente maggiore della media europea.
Il dilemma è ben noto a tutte le persone di buon senso, l’esercizio aritmetico nulla aggiunge se non l’evidenza delle cifre. Esiste ormai un ampio consenso sul fatto che, sia per motivi di equità che di efficienza, un evasione di così grande entità non ce la possiamo più permettere. (3) Parimenti è molto dubbio che il sistema economico possa rimanere competitivo in presenza di un significativo aumento della pressione fiscale. (4) Pertanto, la strada da intraprendere non può essere altra da quella di ridurre sia l’evasione sia il carico fiscale. Conseguentemente la spesa dovrebbe essere tenuta sotto controllo con una strategia di medio periodo, chiara ed esplicita, per evitare di vanificare gli sforzi sul versante del contrasto all’evasione.

 

 

Figura 1. Uscite totali del conto consolidato dell’amministrazione pubblica rapportate al Pil ufficiale e a quello dichiarato

Figura 2. Entrate fiscali rapportate al Pil ufficiale e a quello dichiarato

(1) Si veda E. Christie, M Holzner (2006) “What explains Tax Evasion? An Empirical Assessment based on European Data”, in Wiiw Working papers, n. 40.
(2) L’Istat esplicita dal 2001 la componente del sommerso presente nel Pil ufficiale. In questo articolo si utilizza la stima della base Iva evasa elaborata secondo la metodologia riportata in Convenevole R., Pisani S. (2003) “Le basi imponibili Iva: un’analisi del periodo 1982 – 2001”. www1.agenziaentrate.it/ufficiostudi/. Il confronto si ferma al 2004 perché fino a quell’anno sono disponibili le stime dell’evasione.
(3) Si veda Chiarini B., Pisani S. (2007) “Evasione fiscale un male da estirpare”, in Formiche, marzo-aprile.
(4) In proposito è stato molto chiaro il governatore della Banca d’Italia nelle “Considerazioni finali” alla Relazione del 2007: “Livello eccessivo del prelievo, variabilità e complessità delle regole fiscali scoraggiano l’investimento in capitale fisico e umano”.

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  1. Alberto Lusiani

    Ritengo che trascurare il fatto che l’economia italiana (come l’evasione fiscale, come la pressione fiscale, come la spesa pubblica) sono profondamente diverse tra regioni, o meglio tra Nord e Sud, significhi omettere i dati piu’ significativi col rischio concreto di arrivare a conclusioni fuorvianti. Da http://www1.agenziaentrate.it/ufficiostudi/pdf/2006/Sintesi-evasione-Irap-06.pdf
    (e indagini simili) emerge che l’evasione stimata e’ il 13% del reddito in Lombardia, e poco oltre il 20% nelle regioni padane, mentre sale al 60% a partire dalla Campania, e supera il 90% in Calabria. E’ evidente che a Nord non possono essere spremuti di piu’ (l’evasione e’ meno che in EU in Lombardia e comparabile altrove) e che occorre curare il Sud, e lavorare al Centro.

    • La redazione

      E’ giustissimo non trascurare l’aspetto territoriale. Dallo studio da lei citato si evince anche che la Lombardia evade 21.489 milioni di euro di base imponibile a fronte di 8.701 della Calabria. La realtà è, quindi, più complessa di quella da lei stigmatizzata e porta a concludere che l’evasione va contrastata su tutto il territorio nazionale, calibrando gli interventi a seconda del territorio.

  2. Giacomo Dorigo

    Sinceramente guardando al rapporto tra costo Stato / PIL mi sembra che entrambi i dati siano troppo alti… al di là del 60% sul “dichiarato” ma anche quell’ oltre 45% è davvero troppo…
    forse sono ideologico e non empirico ma perché istintivamente mi verrebbe da dire che lo Stato non dovrebbe costare più del 30% ?

    • La redazione

      1. La sua impostazione ideologica si riflette nel fatto che vede solo il “costo” dello Stato. Quello che è costo è anche spesa, ciò somme che sono retrocesse ai cittadini in termini di: servizi ospedalieri, istruzione, sicurezza, pensioni, ecc. Rendere il tutto più efficiente, e quindi anche più economico, è altamente auspicabile, ma se si studia il bilancio pubblico potrà constatare che il 30% è un obiettivo che imporrebbe anche a lei forti sacrifici.

  3. claudio marcon

    Esistono studi che rilevino eventuali differenze nella propensione al consumo tra il Pil dichiarato (e quindi influenzato dalla pressione fiscale) e quello sommerso? Assumendo come ipotesi l’emersione totale del Pil e l’invarianza nella spesa pubblica, con conseguente riduzione della pressione fiscale, quale potrebbe essere l’effetto sui consumi privati?

    • La redazione

      Non penso che sia possibile distinguere la propensione al consumo del PIL dichiarato da quello sommerso, poiché non esiste una netta separazione tra i due mondi, anche perché la produzione sommersa il più delle volte si affianca a quella emersa. Per rispondere al secondo quesito sarebbe necessario stimare un modello di comportamento, tema che ancora non ho affrontato.

  4. Giacomo Dorigo

    Mi permetto di dissentire. Primo il fatto di percepire il finanziamento dell’attività statale come un costo non è mera emozione o irrazionalità ideologica, ma è basato sulla situazione oggettiva: non mi è dato come cittadino pagante di scegliere come le tasse da me pagate verranno spese. Il sistema di rappresentanza politica così com’è non mi da alcun reale potere decisionale, non ho facoltà di scelta e questo rende di certo una spesa molto più affine ad un costo ineludibile che non un investimento o addirittura una spesa al consumo. Se devo acquistare un prodotto, ancorché necessario, addirittura un bene primario come il cibo, posso comunque avere una certa libertà di scelta, posso confrontare vari prezzi, varie offerte, varie qualità. Tutto questo dovrebbe essermi garantito in maniera indiretta dalla democrazia rappresentativa, ma il modo in cui essa è implementata in questo paese di fatto mi esautora di tale capacità. rimango convinto che parlare di costo dello Stato sia invece salutare per un paese dove non si fa altro che lasciar andare la spesa corrente, e proporre nuove e sempre più onerose finanziarie con i conseguenti aumenti di pressione fiscale. Concludo dicendo che uno Stato davvero efficiente, in grado di mantenere il proprio costo invariato negli anni e di aumentare la produttività del proprio organico, darebbe luogo ad una diluizione automatica del rapporto costo/PIL in fase di espansione economica.

    • La redazione

      Il suo commento contiene in se già la risposta, la democrazia rappresentativa dovrebbe garantire che il costo dello Stato non sia solo un costo, ma anche una spesa per servizi.
      L’obiettivo di rendere più efficiente la gestione dello Stato da conseguire, prevalentemente, tenendo sotto controllo la spesa è esplicitato chiaramente nel mio articolo.
      Osservo che stigmatizzare l’onerosità dei costi dello Stato sia una pratica comune, che non ha condotto, fino ad ora, a risultati apprezzabili. La mia proposta è quella di cambiare “tattica”, per conseguire dei risultati che sono anche i suoi, cercando di avvicinare i cittadini alla Stato, motivandoli sul fatto che una Stato più efficiente (cioè che spende meno e meglio) può migliorare la loro qualità della vita.
      Tutto ciò può avvenire se si percepisce il Servizio offerto dallo Stato e non meramente il costo del cittadino vessato.
      Mi interessa, in pratica, invertire il luogo comune: “non pago le tasse perché lo Stato non mi da nulla”, in: “pago le tasse e pretendo che lo Stato non sprechi i miei soldi”.
      Con cordialità

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