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Una “azione positiva” è per sempre *

Le politiche per le pari opportunità si basano su una solida base economica. E’ possibile spostare un’economia da un equilibrio basato sul genere a uno che non lo è. Succede lo stesso con gli interventi contro le discriminazioni razziali. Ma mentre questi ultimi possono essere temporanei, le politiche delle azioni positive devono essere permanenti. Altrimenti si tornerà presto al vecchio equilibrio perché ogni convinzione sul ruolo delle donne nella famiglia sarà necessariamente legata a convinzioni razionali sulla performance degli uomini nel mercato del lavoro.

La nomina di sette donne, su un totale di sedici membri, nel nuovo governo francese decisa dal presidente Sarkozy, prosegue nel cammino iniziato dal primo ministro spagnolo Rodriguez-Zapatero e dalla presidente del Cile Michelle Bachelet, che ha assegnato a donne metà dei ministeri.
La quota europea di ministri-donne è sotto il 25 per cento, solo Finlandia, Francia, Spagna e Svezia si avvicinano al 50 per cento.

La legge spagnola

Queste notizie hanno riproposto la questione se le politiche delle “azioni positive” siano adeguate. Nel mio paese, una nuova legge sull’uguaglianza tra i sessi approvata dal Parlamento nel marzo 2007 va oltre le direttive europee e impone che ciascun sesso sia rappresentato almeno per il 40 per cento nelle liste elettorali e nei consigli di amministrazione delle aziende, e prevede l’obbligo di introdurre programmi di parità nei contratti collettivi delle imprese con più di 250 addetti. Tutto ciò ha naturalmente suscitato il consueto coro di “esperti”, secondo i quali leggi di questo tipo provocano molti danni. Le imprese sono entità che hanno come scopo il profitto, si dice, e politiche che limitano la loro libertà di scelta nel massimizzare i profitti finiranno per danneggiare proprio quegli individui che dalle riforme dovrebbero trarre vantaggio. Quello che le imprese dovrebbero fare è trattare gli uomini e le donne con una stesso criterio: produrre più ricavi e questo è neutrale dal punto di vista del sesso.

Le ipotesi dell’economia

La teoria economica si è occupata ampiamente del tema e lo ha fatto scartando l’idea che ci siano grandi differenze nella distribuzione delle abilità tra i sessi. Una delle posizioni più influenti è l’osservazione di Gary Becker che un piccolo vantaggio comparato iniziale delle donne nella produzione non per il mercato (per esempio, nella gestazione e cura dei figli) può portare a una completa specializzazione se tale vantaggio comparato, dovuto al “learning by doing” e all’effetto del lavoro domestico sulla disutilità marginale del lavoro sul mercato, cresce nel tempo . (1) Tuttavia, come questi lavori sottolineano, grandi progressi tecnologici in medicina e nei lavori domestici (oltre alla minore necessità di forza fisica nella maggior parte dei lavori) hanno reso meno importante il vantaggio comparato, eppure le differenze di genere nella divisione del lavoro rimangono tuttora. Per spiegare questo rompicapo, una crescente letteratura si dedica allo studio della determinazione congiunta dei differenziali di reddito e di carriera e della divisione del lavoro all’interno della famiglia sotto una uguale distribuzione ex ante di capacità.
Le numerose spiegazioni date si basano su problemi di incentivi nel mercato del lavoro che portano a profezie che si auto-realizzano anche quando i vantaggi comparati sono totalmente assenti.
L’idea è che le consolidate aspettative delle imprese sul fatto che le donne dedicheranno più tempo degli uomini al lavoro familiare conduce a differenziali negli stipendi a favore degli uomini. Quindi, dal momento che salari percepiti più bassi implicano che il costo opportunità atteso è più basso per le donne, esse dedicano più tempo al lavoro in famiglia, convalidando così le convinzioni delle imprese e producendo un equilibrio basato sul genere. Per esempio, Stefania Albanesi e Claudia Olivetti propongono una spiegazione di questi fenomeni che origina dal modo in cui le aziende sono soggette a vincoli di compatibilità sugli incentivi che derivano dalla non osservabilità di due variabili: l’impegno sul lavoro (un problema di azzardo morale) e le ore dedicate al lavoro in famiglia (che influenza l’utilità marginale dell’impegno e pone così un problema di selezione avversa. (2)
Allo stesso modo, Patrick Francois, Kjell Erik Lommerud e Steinar Vagstad propongono una spiegazione basata sull’assunzione che esistono due tipi di lavoro: i lavori a binario veloce e quelli a binario lento. (3) I lavoratori vengono inseriti nei lavori a binario veloce se l’azienda paga un investimento fisso. Poiché l’impegno non è osservabile, le imprese inseriscono i lavoratori nei lavori a binario veloce se si aspettano che il loro prodotto sarà abbastanza ampio da ripagare il costo dell’investimento. Se tradizionalmente le donne si sono date come prima e più importante responsabilità la famiglia e se i salari non sono contrattabili, in equilibrio seguiranno per lo più un “binario da mamma”. Con Sara De la Rica e Cecilia García-Peñalosa ho proposto una logica alternativa dietro le profezie autorealizzantisi, che si fonda su un modello senza problemi di azzardo morale. (4) Le discriminazioni statistiche verso le donne nascono da diverse percezioni che le imprese hanno circa la distribuzione di shock come la disponibilità a lavorare oltre l’orario, imprevisti che richiedono un permesso dal lavoro per i genitori e così via, che influiscono nella stessa misura su uomini e donne, una volta che sono stati preparati per un lavoro. Se i salari futuri non rispondono pienamente a questi shock, allora il tasso atteso di abbandono del lavoro sarà diverso per sesso, facendo sì che le differenze nel mercato del lavoro dipendano da divari nei salari attesi.

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L’evidenza empirica

La logica economica sottostante a tutte queste spiegazioni dà conto dei fatti principali su partecipazione al mercato del lavoro e su divari salariali fra i sessi. Una prima occhiata all’evidenza empirica dei diversi paesi sembra confermare le ipotesi. La figura 1 mostra la relazione tra il divario di partecipazione fra sessi e il divario salariale residuale per lavoratori tra i 25 e i 54 anni nel 2001. (5) Dove per divario salariale residuale tra sessi si intende quella parte del divario che non può essere spiegata da differenze osservabili tra lavoratori (come età e scolarità), e che quindi cattura qualche forma di discriminazione. Come mostra la figura, più alti divari di partecipazione sono associati a più alti divari nei salari.

Figura 1: Relazione tra divari salariali (residuali) e di partecipazione

La figura 2 guarda a questi problemi da un diverso punto di vista, mostrando la relazione tra i divari di partecipazione e la quota di Pil destinata alla spesa in aiuti alle famiglie, maternità inclusa. La correlazione è chiaramente negativa, implicando che politiche più generose verso le famiglie danno luogo a differenze meno marcate nella partecipazione e quindi, per quanto mostrato dalla figura 1, a più bassi divari salariali. Come si sa, i paesi del Nord Europa hanno divari più bassi e un’ampia quota di spesa per le famiglie. I paesi mediterranei hanno divari più alti e minore spesa.

Figura 2: Relazione tra spesa per aiuti alle famiglie e divari nella partecipazione

Politiche permanenti

Gli argomenti teorici fin qui discussi confermano che esiste una solida logica economica dietro la convinzione che le politiche per le pari opportunità possono spostare l’economia da un equilibrio basato sul genere a uno che non lo è.
Ciò è in linea con la nota affermazione di Steve Coate e Glenn Loury secondo la quale questo tipo di politiche può essere efficace nel combattere la discriminazione razziale. Una volta che i lavoratori di colore sanno di avere una maggiore probabilità di carriera (condizionata al fatto di ottenere gli appropriati livelli di formazione ), investono di più in capitale umano e quando i datori di lavoro scoprono che i lavoratori di colore sono più produttivi di quanto essi pensavano originariamente, e rivedono di conseguenza le proprie convinzioni, si ha la fine della necessità di “azioni positive”. Se però queste politiche hanno una natura temporanea e si può rinunciarvi una volta che le opinioni si siano modificate, nel caso dell’uguaglianza di genere le politiche devono essere permanenti.
Poiché qualcuno deve pur occuparsi dei figli, una volta abbandonate le politiche per le pari opportunità, ogni convinzione che si può avere sul ruolo delle donne nella famiglia sarà necessariamente legata a convinzioni razionali sulla performance degli uomini nel mercato del lavoro. Per esempio, se gli uomini sono più produttivi nel mercato del lavoro quando le loro mogli dedicano più impegno alla famiglia, allora è probabile che l’economia ritorni all’equilibrio basato sul genere. Insomma, Bachelet, Rodriguez-Zapatero e Sarkozy possono aver ragione dopo tutto, almeno se le loro politiche in questa materie sopravvivranno anche dopo di loro.

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(1)
Becker, G. (1991): A Treatise on the Family. Harvard University Press.
(2) Albanesi, S. and C. Olivetti (2006) “Home production, market production and the gender wage gap: Incentives and expectations”, mimeo.
(3) Francois, P. (1998) “Gender discrimination without gender difference: Theory and policy responses”. Journal of Public Economics, 68, 1-32; Lommerud, K. and S. Vagstad (2007), “Mommy tracks and public policy: On self-fulfilling prophecies and gender gaps in promotion”, Cepr DP 2387.
(4) De la Rica, S., Dolado, J. and C. García-Peñalosa (2007) “Gender participation and wage gaps: On the role of family aid and affirmative action policies”, mimeo. http://dolado-research.blogspot.com/
(
5) Dati ripresi da Oecd Employment Outlook.

* Il testo inglese è pubblicato sul sito www.voxeu.org

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  1. bob

    Numeri a caso ottenuti mescolando categorie lavorative eterogenee. E’ stato dimostrato che mettere donne al vertice di una azienda “solo perchè sono donne” ha prodotto danni ingenti alle aziende. Parlare di competenze indipendentemente dal sesso no, eh?

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