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La finanza tra Islam e Occidente

Proibizione del tasso di interesse, equiparato a usura, e di tutto ciò che è incertezza. Sono i concetti fondamentali dell’agire economico islamico. Quale ruolo può rivestire in Europa la finanza islamica? La situazione di gran parte degli immigrati non li rende un target appetibile per le grandi banche. Il loro interesse sembra diretto ad attrarre il risparmio e gli investimenti dei capitali orientali in fuga dagli Stati Uniti. Ma non è una buona strategia perché, su questo, i paesi del Gulf Cooperation Council si stanno attrezzando per fare da soli.

La religione islamica si basa sul Tawhid, l’adesione totale al volere di Dio, espresso attraverso il Qu’ran, e la Sunnah, i detti e le azioni del profeta. Il Corano rappresenta un corpus legis che regola tutti gli aspetti della vita, ivi inclusi contratti ed economia.
L’’Islam è un modus vivendi, compenetrazione tra religione e vita sociale ed economica: l’’homo oeconomicus (islamicus), per essere sintetici, agisce sempre secondo la Shari’ah. Per questa ragione, nei paesi islamici esiste una economia religiosa che non ha precedenti nella storia europea e suona esotica alle orecchie degli economisti occidentali.

NO ALL’USURA E CONDIVISIONE DEL RISCHIO

Due sono i concetti fondamentali che plasmano l’’agire economico islamico: la proibizione del tasso di interesse, equiparato a usura (entrambi i termini si traducono con riba) e la proibizione di tutto ciò che è incertezza (gharar), proibizione che influisce direttamente sul mercato assicurativo. Il Profeta, commerciante di successo, aveva affermato che “Dio ha permesso la compravendita e ha proibito l’’usura”, contrapponendo i due termini ed esprimendo la predilezione per le transazioni reali.
La condivisione del rischio è invece alla base del profit and loss sharing: per raggiungere equità distributiva, si condividono sia le perdite che i guadagni di un investimento (e in base a questa regola, un finanziatore non può imporre al debitore un tasso di interesse, poiché questo non tiene in conto l’’effettivo risultato dell’’investimento).
Queste idee religiose, diventate economiche, plasmano tutta la giurisprudenza commerciale islamica e determinano la liceità dei contratti. I contratti conformi al Corano diventano di particolare interesse per il sistema bancario, in particolar modo per il credito (data la riba) e per l’’investimento del risparmio.

Ma c’’è posto per forme e contratti di derivazione islamica in ambito occidentale? Gli Stati Uniti guardano alla finanza islamica con malcelato sospetto: lo scorso febbraio una società di venture capital con quartier generale a Ginevra (ove gestisce miliardi di dollari per conto di investitori musulmani) è stata messa sotto indagine dal fisco statunitense e accusata di legami, tramite un esponente della famiglia reale saudita, con l’’estremismo musulmano di Hamas e Al-Qaeda. Citicorp, gigante americano, ha aggirato l’’ostacolo, andando a operare in situ, tramite una filiale islamica in Bahrain, la Citi Islamic Investment Bank.
In Europa, l’’ambiente finanziario inglese si è mosso concretamente, con la nascita della Islamic Bank of Britain e la West Bromwich Building Society, che già offrono prodotti Shari’ah compliant, in particolare mutui, attuati tramite lo schema del murabahah. La banca acquista l’’immobile per conto del cliente e lo rivende, a rate, al cliente stesso a un prezzo maggiorato di un mark-up, che rappresenta la remunerazione associata al rischio della transazione immobiliare.
Le banche islamiche inglesi si rivolgono a un target di circa due milioni di musulmani residenti in Inghilterra, ma sembrano strizzare l’occhio ai rampolli delle ricche famiglie mediorientali che da sempre studiano nelle università inglesi e che spesso si sono dimostrati generosi donatori, permettendo la nascita, per esempio, di interi dipartimenti di studi islamici e biblioteche.
La forza economica dei petrolieri e dei ricchi uomini d’’affari orientali spiegano anche la nascita del braccio “islamico” di Hsbc (chiamato Hsbc Amanah).
I sukuk, invece, bond islamici basati sulla cartolarizzazione di immobili, hanno fatto la loro comparsa in Europa nel 2004 con una emissione per 100 milioni di euro da parte del land della Sassonia-Anhalt, interamente sottoscritta. Un grande successo europeo di pubblico, si direbbe: a ben guardare, però, il nocciolo è stato rappresentato da investitori istituzionali del Bahrain e degli Emirati Arabi Uniti. Il dato non stupisca: le istituzioni finanziarie islamiche hanno drammatici problemi di liquidità; non hanno un mercato interbancario, né un prestatore di ultima istanza e sono avide di strumenti del mercato monetario e obbligazionario Shari’ah compliant che permettano la gestione di tesoreria. Si è trattato di un public issue, ma i dati sembrano più simili a quelli di un private placement.

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SE DUBAI FA CONCORRENZA A NEW YORK

Nonostante questi tentativi, non sembra tuttavia che la finanza islamica possa rivestire in Europa un ruolo comparabile a quella convenzionale: la situazione socio-economica di gran parte degli immigrati di religione musulmana, infatti, non permette loro di diventare un target appetibile. L’’interesse delle grandi banche per la finanza islamica sembra più un tentativo di attrarre verso l’’Europa il risparmio e gli investimenti dei capitali orientali, spesso in fuga dagli Stati Uniti in risposta all’’islamofobia scatenata dagli eventi dell’’11 settembre.
La stima dei capitali in gioco è difficile, perché non vi è una aggregazione omogenea dei dati e vi è una generale mancanza di trasparenza. Ma una cosa è certa: le borse islamiche macinano record e tassi di crescita delle contrattazioni impressionanti. Nel solo Golfo Persico, si stima che gli investitori abbiano a disposizione una liquidità pari a 1.500 miliardi di dollari. Dati aggiornati del Fmi parlano di circa 250 miliardi di dollari distribuiti presso circa trecento intermediari finanziari islamici. I numeri ufficiali, a guardare bene, sono fortemente sottostimati, dal momento che gran parte dei “risparmi” dei signori del petrolio sono gestiti tramite mandati segregati la cui consistenza viene tenuta confidenziale. Cifre da capogiro, che ingolosiscono banche e gestori.
Se l’’interesse verso i petroldollari (o euro) e la loro gestione in Europa rappresenta la ratio alla base degli sforzi delle banche paneuropee (potremmo citare, tra le altre, Commerzbank, Deutsche Bank, Pictet&Cie), sembra una strategia che muove i passi nella direzione sbagliata. I paesi afferenti al Gcc (Gulf Cooperation Council), dove esiste una robusta domanda di prodotti conformi alla legge coranica da parte dei high net worth individuals, si stanno, infatti, attrezzando da sé.
A Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, è stata emanata nel 2006 una nuova e completa legislazione sull’’investimento collettivo del risparmio per facilitare la nascita di un centro finanziario indipendente on-shore, il Dubai International Financial Centre, che punta a diventare un mercato di prima grandezza nel Medio Oriente, alla pari di New York, Londra o Singapore. Il fine è far convergere nel nuovo centro i risparmi derivanti dal petrolio, non ultimi i circa 15 miliardi di dollari (in crescita del 10-15 per cento all’anno) investiti in fondi di investimento islamici e tutti gli investimenti sparsi in Occidente. Good bye, America.

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Considerazioni iniziali

  1. Silvestro De Falco

    Gentilissima dottoressa,
    non credo sia del tutto esatto dire che non vi sono precedenti di economia religiosa nella storia europea.
    Infatti ai banchieri fiorentini nel medioevo era impedito addebitare interessi sui prestiti. Questi per tutta risposta inventarolo gli ordini di pagamento tratti sui loro corrispondenti esteri, applicando un tasso di cambio maggiorato per incorporare anche gli interessi.
    Alcune delle operazioni da lei descritte non sembrano discostarsi molto da questa pratica.
    Cordialmente,
    Silvestro De Falco

  2. Bernardo

    Carissima,

    Un afflusso consistente di liquidità nelle banche europee potrebbe minacciare la solidità dell’unione monetaria (UME) per le conseguenze nefaste all’eco. Questo perchè le autorità monetarie — e fiscali — europee sembrano incredibilmente poco preparate ad una forte pressione al rialzo sull’euro.

    Se i paesi esportatori di petrolio dovessero riversare in modo consistente i propri capitali in europa, la pressione al rialzo sull’euro nei confronti del Dollaro si farebbe insostenibile — anche date la pressioni al ribasso sul biglietto verde dovute alla possibile risoluzione del deficit estero USA. Inoltre le autorità monetarie europee difficilmente agirebbero per sfiatare la pressione sull’Euro — vedi, riduzione dei tassi — perchè, come ricorda il mandato della BCE, la funzione dell’UME è quella di garantire stabilità interna in termini di inflazione e non quella di proteggersi dalle minacce esterne (vedi Padoa-Schioppa, 2005). Quindi, una riduzione dei tassi da parte europea potrebbe verificarsi solo se al rialzo dell’Euro seguisse inflazione immediata, ma questo non sembra probabile data l’attuale relativa rigidità dei mercati internazionali — effetto J-curve.

    Una mancato intervento valutario della BCE potrebbe ridurre l’integrazione e l’appoggio alla UME: se con il rialzo dell’Euro la Germania potrà esportare meno macchine negli Stati Uniti e se l’Italia potrà esportare meno vino (oggi il 20% delle esportazioni di vino italiano vanno in USA, vedi Sole24Ore di ieri), la Germania e l’Italia avranno più motivo di altri paesi di lamentarsi dell’opreato BCE — o, detta in maniera più ‘accessibile,’ di lamentarsi dell’Euro. Tale malcontento sarà inoltre acuito se la disoccupazione nel settore esportato si ripercuoterà integralmente nella disoccupazione generale a causa di scarsa flessibilità e mobilità della forza lavoro Europea.

    Infine: esiste un adeguato margine di manovra fiscale per rilanciare? PSeC e deficit dicono di no.

    Cordialmente

    • La redazione

      Caro Bernardo,
      grazie per il commento.
      A prescindere dalle conseguenze economiche, le banche di investimento europee sarebbero più che felici di poter intercettare i capitali provenienti dal petrolio. E’ innegabile che dopo l’11 Settembre vi sia stato un malcelato sospetto nei confronti dei capitali “arabi” e che parte di questi siano fuoriesciti dagli Stati Uniti alla ricerca di un asilo. Se questo asilo non fosse l’Europa, potrebbe essere Dubai, centro che si propone di diventare un centro finanziario di prima grandezza nel Medio Oriente e la cui legislazione in termini di “collective investment scheme” ricalca i principi IOSCO.
      Nell’incertezza, gli asset manager mondiali si “attrezzano”, constituendo delle società partecipate conformi alla Shari’ah che possano operare sui mercati dei
      paesi islamici.

      Cordialmente

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