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Si apre l’era Sarkozy*

Il neo-presidente ha ricevuto dai francesi un mandato esplicito per il cambiamento. La sua filosofia e le sue priorità sono molto chiare: un mercato del lavoro più flessibile, uno Stato più snello e meno tasse. Però, per avere successo le sue proposte dovrebbero essere accompagnate dalla liberalizzazione dei mercati dei prodotti e finanziari. Quanto all’Europa, giocherà una partita difficile: più andrà avanti con le riforme all’interno, più dovrà apparire lontano dall’ortodossia di Bruxelles fatta di disciplina di bilancio, riforme liberali e libero commercio.

Dopo la schiacciante vittoria di Nicholas Sarkozy, ecco tre domande essenziali: ha ricevuto un mandato per il cambiamento? A quali politiche darà priorità? E quali saranno le conseguenze per l’Europa?

Un voto per il cambiamento

La risposta alla prima domanda è un deciso “sì”. E non solo perché i francesi si sono recati in massa a votare. Nella sua lunga marcia verso il potere, Sarkozy ha messo in rilievo in modo coerente la necessità di un chiaro distacco dalle politiche degli ultimi decenni – una rottura, come l’ha definita lui stesso. Non c’è dubbio che gli elettori hanno compreso il messaggio. Secondo gli exit poll di Ipsos, il 77 per cento di chi lo ha votato, lo ha fatto perché voleva che lui fosse eletto presidente (contro il 18 per cento che voleva invece evitare l’elezione di Ségolène Royal). Solo il 55 per cento di coloro che hanno votato per Royal lo faceva per lo stesso motivo. Un recente sondaggio di Tns-Sofres rivela che più del 60 per cento degli elettori si aspetta che la sua elezione porti a un cambiamento e a una veloce approvazione delle riforme. In sintesi, Sarkozy ha indicato in modo chiaro la sua filosofia e le sue priorità: e, salvo improbabili sorprese alle elezioni del parlamento del mese prossimo, è stato eletto per realizzarle.
È difficile rendersi conto di quanto sia nuova questa situazione. Nel 2002, Chirac ha vinto perché il suo avversario era Le Pen. Nel 1997, Jospin ottenne la maggioranza in parlamento perché Chirac aveva indetto le elezioni anticipate senza essere capace di spiegare perché. Nel 1995 Chirac condusse una campagna elettorale orientata a sinistra (perché questo era il solo modo di eliminare Edouard Balladur, suo vecchio amico diventato nemico) per poi governare a destra. Nel 1988, Mitterand vinse con la promessa di unire il paese. In tutti questi casi, dopo le elezioni il presidente o il primo ministro si sono ritrovati privi della legittimità che deriva da una campagna elettorale fondata su un’agenda esplicita.
Per la prima volta in più di vent’anni, ora, un presidente francese ha accumulato alle elezioni il capitale politico necessario per realizzare le sue politiche.

Le priorità

La risposta alla seconda domanda è: riforma del mercato del lavoro, tagli alle tasse e ristrutturazione della spesa pubblica. In economia il tema principale indicato di Sarkozy è stato “ridare valore al lavoro“. Vuole introdurre incentivi fiscali per chi fa gli straordinari, eliminare la dualità di contratto a tempo indeterminato e determinato, introducendo un solo contratto e unificare varie agenzie che si occupano di disoccupazione, inserimento al lavoro e formazione in modo da favorire l’incontro di offerta e domanda di lavoro. Ha promesso il taglio (se non la cancellazione) della tassa patrimoniale e di quella di successione e di ridurre la pressione fiscale generale di 4 punti percentuali del Pil (benché abbia decisamente annacquato questa proposta dopo che gli è stato fatto notare che comporterebbe un notevole deficit di bilancio). Vuole ridurre il numero degli impiegati pubblici, sostituendo solo due ogni tre lavoratori del pubblico impiego che vanno in pensione. E ha annunciato la riforma del regime pensionistico dei dipendenti delle aziende statali di servizio pubblico.
Alcuni di questi interventi (in particolare la riunificazione delle agenzie per il lavoro e la riforma del contratto di lavoro) sono state a lungo chiesti dagli economisti. Alcuni sono discutibili sul piano dell’efficienza (perché il governo dovrebbe andare oltre una posizione di neutralità per ciò che riguarda l’orario di lavoro effettivo e dare alle imprese un incentivo importante ad assumere di meno e lasciar lavorare di più i propri dipendenti?), altri su quello dell’equità (perché si dovrebbe eliminare la tassa di successione?). Ma hanno una loro coerenza: Sarkozy vuole un mercato del lavoro più flessibile, uno Stato più snello e meno tasse – una combinazione non certo inusuale.
Queste politiche saranno realizzate e avranno successo? Sebbene non siano radicali secondo criteri europei o mondiali, sono riforme molto incisive secondo gli standard francesi e metterle in pratica non sarà probabilmente facile. Inoltre, perché le riforme del mercato del lavoro possano avere un rapido impatto sulla disoccupazione, dovrebbero essere accompagnate dalla liberalizzazione dei mercati dei prodotti, in particolare nei settori dove sono forti le rendite, come il commercio al dettaglio e particolari settori ai quali l’accesso è ristretto (i taxi sono un esempio notato da tutti i turisti stranieri).
Dovrebbero essere affiancate anche dalla liberalizzazione del mercato finanziario (a causa dei comportamenti oligopolistici e delle regole amministrative, sono tante le restrizioni al credito per le piccole imprese). Tuttavia, Sarkozy, che avrebbe potuto prendere a esempio le recenti decisioni in proposito di Romano Prodi, è rimasto in silenzio su queste riforme. Resta da vedere se lo ha fatto perché intende liberalizzare solo il mercato del lavoro o perché rivelare le sue intenzioni poteva costargli voti all’interno del suo stesso schieramento.
È assai poco probabile che l’aggiustamento fiscale sia tra le priorità di breve periodo. È vero che Sarkozy ha espresso la rituale volontà di ridurre il debito, ma nel prossimo futuro ha tutte le ragioni per considerarlo una priorità di secondo piano. In primo luogo, ha preso molti impegni specifici, il cui costo complessivo sarebbe superiore a 50 miliardi di euro entro la fine della sua presidenza, e solo in proposte di tagli a particolari imposte, senza considerare la promessa generale di abbassare le tasse di 4 punti percentuali. Ma, a meno di una crescita accelerata oltre il potenziale, il totale delle risorse disponibili per questi interventi è di circa 25 miliardi di euro. In secondo luogo, è improbabile che Sarkozy dia priorità al consolidamento fiscale perché sa che alcune riforme hanno maggiori possibilità di successo se hanno un sostegno dal bilancio, come sostengono in un recente libro il suo ex consigliere Jacques Delpla e Charles Wyplosz. In terzo luogo, può utilizzare il deficit in modo strategico per tagliare la spesa pubblica, la strategia “dell’affamare la bestia” adottata da molti governi conservatori dopo Ronald Reagan, il primo a metterla in pratica. È probabile che la scelta della Francia dopo le elezioni sia diversa, se non addirittura opposta a quella della grande coalizione di Angela Merkel in Germania: più riforme e meno consolidamento fiscale.

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La Francia e l’Europa

E questo ci porta alla terza questione: quali saranno le conseguenze per l’Europa? Sarkozy faciliterà senz’altro la soluzione della crisi costituzionale: al contrario di Ségolène Royal, ha espresso la sua preferenza per un trattato snello da ratificare in parlamento. Cercherà di metter fine all’eccezione del mercato del lavoro francese. Ma mentre i ministri dell’area euro si sono impegnati al pareggio di bilancio entro il 2010, è improbabile che la Francia faccia altrettanto. Al contrario, il governo potrebbe affrontare i partner e la Commissione con una domanda spiacevole: volete le riforme o l’aggiustamento di bilancio?
È probabile che Sarkozy insista per evitare un apprezzamento dell’euro, anche attraverso una politica monetaria più accomodante. E non sembra avere l’intenzione di attenuare i suoi attacchi alle politiche su concorrenza e commercio dell’Unione Europea. Il suo primo discorso da presidente è stato molto chiaro: ha richiamato i partner europei della Francia ad “ascoltare la voce delle persone che vogliono essere protette”.
La vera domanda per l’Europa è se si tratta di pura tattica o di indicazioni da prendere sul serio. I partner della Francia possono avere la tentazione di dire che è un film già visto – dopo tutto, anche Chirac e Jospin sono partiti con l’impegno a cambiare l’Europa – e che come molti altri leader europei Sarkozy imparerà che i margini di manovra sono più stretti di quello che crede.
È vero che probabilmente Sarkozy si renderà presto conto della forza dell’impegno di Angela Merkel sulla disciplina di bilancio e della profondità della fiducia nella politica dell’apertura commerciale della Germania, per non parlare degli altri partner più importanti. Tuttavia, sotto il profilo interno, Sarkozy difficilmente può permettersi di abbracciare una politica fatta di disciplina di bilancio, riforme liberali e libero commercio. In un paese in cui il 55 per cento dei votanti ha bocciato la costituzione europea sui temi economici e più del 70 per cento vede la globalizzazione come una minaccia, il modo sicuro di perdere consenso è indossare le vesti dell’ortodossia secondo Bruxelles-Francoforte. Più Sarkozy attuerà le sue riforme, più dovrà dissociarsi dall’ortodossia europea. Un ruolo difficile da giocare per lui, e per i suoi partner in Europa e nelle istituzioni europee.

* L’articolo è tratto dal sito www.eurointelligence.com

English version

In the aftermath of Nicolas Sarkozy’s resounding electoral victory, the three main questions are: Has he won a mandate for change? Which policies will he give priority to? And what will be the consequences for Europe?
The answer to the first question is a clear yes, and this is not only because French voters participated in the election en masse. Throughout his long march to power, Sarkozy consistently emphasised the need for a clear break with the policies of the last decades – a rupture, as he called it. And there is no doubt that the voters got the message. According to IPSOS exit polls, 77% of those who voted for him did it because they wanted him to be president (against 18% who wanted to prevent Ségolène Royal’s election) – while only 55% of those who voted for Ségolène Royal had the same motivation. According to a recent TNS-Sofres poll, more than 60% of the voters expect his election to lead to change and to the speedy enactment of reforms. In short, Sarkozy has clearly spelled out his philosophy and his priorities and – barring a highly unlikely surprise in the parliamentary elections next month – he was elected to implement them.

It is hard to realise how new this situation is. In 2002, Chirac won because his opponent was Le Pen. In 1997, Jospin won a majority in parliament because Chirac had called a snap election without being able to explain why. In 1995, Chirac ran a left-leaning campaign (because this was the only way to eliminate Edouard Balladur, his former friend turned rival) before governing on the right. In 1988 Mitterrand won on the promise to unite the country. In all those cases, after the election the president or the prime minister found himself deprived of legitimacy as a result of campaigning on an explicit agenda. For the first time in more than two decades, a French president has amassed in the election the political capital he needs to implement his policies.
The answer to the second question is: labour market reform, tax cuts and the restructuring of state spending. Sarkozy’s main economic theme has been the need to “rehabilitate the value of work”. He wants to introduce tax incentives to work longer hours, to get rid of the duality between permanent and temporary labour contracts by introducing a single contract, and to merge various agencies dealing with unemployment insurance, job placement and training in order to improve matching of labour supply and labour demand. He has promised to cut (if not scrap) taxes on wealth and inheritance and to reduce the overall tax rate by 4 percentage points of GDP (though he later watered down that proposal after it was pointed out that it would result in a massive budget deficit). He intends to reduce the number of public employees by replacing only each second civil servant who leaves for retirement. And he has announced a reform the pension regime of public utilities employees.

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Some of these measures (especially the merger of the various employment agencies and the reform of the labour contract) have long been advocated by economists. Some are disputable on efficiency grounds (why should the government go beyond a neutral stance as regards actual working time and give companies a massive incentive to hire less and let their employees work longer?) or on fairness grounds (why should the inheritance tax be eliminated?). But they do have consistency: Mr Sarkozy wants a more flexible labour market, a slimmer state and lower taxes – hardly an unusual combination.
Can they be implemented and succeed? While not radical by European or global standards, these reforms are very significant by French standards and implementing them is likely to be tough. Furthermore, for the labour market reforms to have a rapid effect on unemployment, they would have to be complemented by liberalisation of product markets, especially in rent-laden sectors such as retail trade and specific sectors where entry is restricted (taxis are an example all foreign visitors have noticed). They would also need to be complemented by financial market liberalisation (because of oligopoly behaviour and administrative regulations, credit constraints abound for small companies). However Mr Sarkozy, who could have taken as an example Romano Prodi’s recent decisions in this field, has remained rather silent on those reforms. Is it because he intends to liberalise the labour market only, or because spelling out his goals would have risked costing him votes in his own camp? This remains to be seen.

What is unlikely to be a short-term priority is fiscal adjustment. True enough, Mr Sarkozy paid lip service to debt reduction but in the coming times, he has every reason to treat it as a second-order priority. First, he has entered into many specific commitments whose aggregate cost should exceed €50bn by the end of his term (this does not include the overall promise to lower taxes by 4 percentage points, only specific tax cut proposals). Yet unless growth accelerates beyond potential, total available resources for discretionary measures amount to about €25bn. Second, Sarkozy is unlikely to give priority to fiscal consolidation because he knows that some reforms are more likely to succeed with budgetary support, as argued in a recent book by his former adviser Jacques Delpla and Charles Wyplosz. Third, he may use the deficit strategically to justify cutting spending – the “starve the beast” strategy adopted by many conservative governments since first implemented by Ronald Reagan. France’s choice after this election is thus likely to be different, and possibly opposite to that of the German grand coalition under Angela Merkel: more reforms, and less fiscal consolidation.
This leads to the third question: What will be the consequences for Europe? Sarkozy will certainly make the resolution of the constitutional crisis easier: unlike Ségolène Royal, he has expressed preference for a mini-treaty ratified in parliament. He will, as explained above, aim at ending French labour market exception. But at the time ministers in the euro area have committed themselves to budget balance by 2010, France is unlikely to follow suit. On the contrary, its government may well confront partners and the Commission with an uncomfortable question: do you want reforms or fiscal adjustment? As already made clear during the campaign, Mr Sarkozy is likely to insist on preventing an appreciation of the euro, including by a more accommodative monetary policy. And he does not seem to have any intention to scale down his attacks on the EU competition and trade policies. His first speech as president-elect was very clear in this respect: he summoned France’s European partners ” to hear the voice of the peoples who want to be protected”.

The big question for Europe is whether this is mere tactics or an indication to be taken seriously. France’s partners may be tempted to say that they have seen the same before – after all, Chirac and Jospin also started of with pledges to change Europe – and that like so many other European leaders, Mr Sarkozy will learn that his margin of manoeuvre is narrower than he thinks.
It is true that Mr Sarkozy is likely to realise quickly the strength of Ms Merkel’s commitment to budget discipline and the depth of Germany’s trust in an open trade policy – not to speak of the other main partners. However from a domestic standpoint, Mr Sarkozy can hardly afford to endorse a budget discipline / liberal reforms / free trade agenda. In a country in which 55% of voters rejected the EU constitution on economic grounds and more than 70% see globalisation as a threat, a sure recipe for losing support is to wear the clothes of Brussels-Frankfurt orthodoxy. The more Mr Sarkozy reforms, the more he will need to dissociate himself from the European orthodoxy. This will be a difficult game for him to play, as well as for his partners in Europe and the EU institutions.

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Il consiglio (la politica paga, ma costa)

  1. Giacomo Oddo

    La Francia ha un potenziale produttivo e imprenditoriale elevato, attualmente sottoutilizzato a causa dell’ingombrante presenza di uno Stato forte e interventista. Una politica di liberalizzazione, di rilancio degli investimenti, di contenimento della spesa pubblica e di riforma del welfare state (e magari una monetaria espansiva) può dare alla Francia risultati sicuramente positivi, che miglioreranno il benessere di tutti gli europei.
    Sarkozy ha parlato di opportunità per tutti, non di assistenza per tutti. In questo senso può essere considerato “americano”. Ma in una Europa che deve fronteggiare il mondo globalizzato, con migliaia di lavoratori stranieri poverissimi che entrano ogni anno nel suo mercato del lavoro, il welfare state degli anni ’70 va purtroppo abbandonato.

  2. Alessandro Sciamarelli

    Concordo sul fatto che le “riforme” sbandierate da Sarkozy durante la campagna elettorale si riveleranno in realtà di assai difficile realizzazione. Sono assai più propenso a immaginare una certa continuità, sia in politica estera sia in politica economica domestica, con il moderatismo gollista. Proprio su questo punto, noto però l’incongruenza con l’orientamento che lo stesso elettorato francese mostrò in occasione del referendum sulla costituz. europea nel 2005: il “NO” – di per sè sconcertante – fu il risultato dell’ondata populistica di destra e di sinistra contro l’Ue vista come simbolo di globalizzazione, riforme “mercatiste” e perdita di protezione sociale (in primis tramite l’euro e la tanto vituperata direttiva Bolkestein). Ovvero, proprio tutte quelle cose che Sarkozy ha promesso di introdurre con riforme “all’americana”. Tutto ciò è piuttosto curioso. A meno di non pensare che una parte dell’elettorato no-global, sia lepenista sia tendente a sinistra, ne abbia colto il messaggio più autenticamente protezionista, dunque molto poco liberale e market-oriented. Ciò è rafforzato in me dal fatto che, come il Prof.Pisani-Ferry vaticina, è probabile che Sarkozy ritiri fuori dal classico repertorio populista la presunta dicotomia “riforme di mercato/equilibrio di bilancio”, che esiste soltanto nell’immaginario collettivo. Non sto a enumerare in numerosi paesi UE che hanno coniugato disavanzo pubblico nei limiti con riforme volte a guadagnare competitività. I due obiettivi sono contestuali e non alternativi: chi agita questo falso trade-off spesso sa di non avere il coraggio (conoscendo i costi in termini di consenso) o la capacità di attuare nè l’uno nè l’altro.

  3. riccardo boero

    Non trovo affatto sconcertante il NO francese al Trattato di Costituzione Europea.
    Un’altra grande nazione europea, l’Olanda ha infatti bocciato senza appello tale testo oscuro e poco rassicurante. Va osservato che Francia e Olanda sono stati tra i pochissimi paesi a votare il testo per referendum, ed e` mia opinione che i popoli italiano e tedesco (per non parlare dei britannici) ne avrebbero decretato ugualmente l’abbandono.
    Nelle oltre 400 pagine del trattato era possibile trovare tutto e il suo contrario, ogni argomento era trattato in modo poco chiaro e adatto a qualsiasi ulteriore interpretazione da parte dei politici.
    Una delle poche cose chiare era invece l’adesione piena (e espressa fin dalle prime pagine) al modello detto dell”economia sociale” o ordoliberalismo, da cui prese le mosse quel modello renano o tedesco che e` oggi forse il piu’ ingiusto del mondo avendo generato il piu’ grande numero di miliardari e anche di disoccupati di ogni stato europeo, anche relativamente alla popolazione. Diciamolo chiaramente: senza l’espansione a Est e lo sfruttamento dei bassi salari nei paesi slavi, l’economia tedesca sarebbe collassata da tempo.
    Perche’ allora dovremmo estendere a tutta l’Europa un modello cosi’ inefficiente?

  4. Alessandro Sciamarelli

    Rispondo alle considerazioni del Sig. Boero.
    Non è difficile concordare su un giudizio oggettivo nonchè sulla percezione generale della (abortita) costituz. europea proposta al vaglio degli elettori francesi e olandesi: un testo pletorico, piuttosto inutile e poco comprensibile. Qui c’è poco da fare: chi crede nell’Europa aveva il dovere di presentare un testo migliore. Il punto, però, è decisamente un altro. Il voto del referendum non aveva come oggetto la “costituzione europea” in senso stretto, bensì l’integrazione europea tout court e l’idea stessa di Europa come – nonostante tutte le difficoltà e le incertezze – fonte di ” progresso” (vogliamo mettere in discussione pure questo?..).
    Questo era il significato di cui i vari populismi anti-europei (protezionisti, protoxenofobi ecc.), sull’onda delle varie “paure” di questa epoca, hanno caricato il voto, distorcendolo. E additando la Ue come caprio espiatorio delle difficoltà economiche, occupazionali ecc., proprio come qualcuno in casa nostra (Lega ecc.) e gli impresentabili gemelli polacchi ora al potere.
    Sarkozy lo sa bene, tant’è vero che i numeri indicano che ha saputo catturare parte del voto “antieuropeo” (da destra quanto da sinistra).

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