Nella campagna elettorale francese si parla molto poco di Unione Europea. Difficile credere che i francesi si disinteressino della questione e che i candidati non abbiano niente da dire. Probabilmente evitano un argomento scottante. Ma perché la Francia, un tempo al vertice della costruzione europea, ha perduto gran parte della sua influenza? Per due malintesi, dagli effetti disastrosi: l’idea di Europa-potenza e il rifiuto dell’economia di mercato.

Non si può dire che l’Europa sia l’argomento-principe della campagna elettorale francese. È un tema privo di interesse o è troppo delicato? Difficile credere che i francesi si disinteressino dell’Europa e che i candidati non abbiano niente da dire sulla questione. Probabilmente evitano un argomento scottante. Ma le cose non migliorano certo non parlandone. Non bisogna stupirsi, a questo punto, se la Francia, un tempo al vertice della costruzione europea, ha perduto gran parte della sua influenza. Per quale motivo? A causa di due profondi malintesi, dagli effetti disastrosi, che sarebbe opportuno chiarire.

Come nacque l’Europa

In nessuna altra parte del mondo accade che paesi indipendenti, nemici per secoli, abbiano accettato di rinunciare a intere porzioni di sovranità, in nome del bene comune. Quegli stati che, in Asia o in America Latina, avevano preso in considerazione l’idea di emulare l’Unione Europea si sono rapidamente scoraggiati, constatando come ciò significasse abbandonare in gran parte la sovranità nazionale. Come stupirsi allora se la costruzione europea è così controversa? Ciò che realmente sorprende non è tanto l’insorgere di resistenze all’integrazione, quanto la relativa facilità con cui, in questi cinquanta anni, è avvenuto un così ampio passaggio di sovranità. Ripetere oggi tale operazione sarebbe probabilmente impossibile. Solo in virtù del fatto che l’Europa era in ginocchio, esangue dopo una guerra di troppo e in gran ritardo sugli Stati Uniti quanto a livello di vita e capacità di innovazione, i suoi popoli hanno accettato di rimettere in causa, sia pur parzialmente, il primato assoluto dello Stato-nazione.

Il ruolo della Francia

La Francia è stata un motore della costruzione europea. Innanzitutto grazie ai suoi uomini: Monnet, Schumann e tanti altri fanno parte di quel ristretto gruppo di “padri fondatori” dell’Europa. Ma anche grazie al suo impegno nel fare avanzare la causa europea, nonostante avesse respinto, nel 1954, l’idea di una Comunità europea di difesa, il che affossò il processo di integrazione politica e limitò considerevolmente la costruzione di un’integrazione economica. Oggigiorno, bisogna ammetterlo, la voce della Francia in Europa è piuttosto flebile; talora addirittura derisa. È raro ormai che la Francia sia promotrice di progressi significativi. Anzi funge piuttosto da freno, sia quando sono in ballo questioni fondamentali come la riforma della Pac, sia quando si tratta di respingere il progetto di Costituzione, assai mal concepito a dire il vero. Le ragioni di questo declino sono purtroppo molteplici, ma la maggior parte ruota attorno a due malintesi fondamentali.

Una questione di potere

Il primo malinteso concerne l’obiettivo. Per molti francesi l’Europa è una questione di potere. Se ormai, da sola, la Francia non può più rivestire un ruolo di grande potenza, molti francesi considerano l’Europa unicamente come una sorta di leva, attraverso la quale avere influenza sugli affari del mondo, in tutti i campi. Questa visione è all’origine di molti disastri.
Si scontra innanzitutto con quella diametralmente opposta del partner tedesco. La storia del ventesimo secolo ha insegnato alla Germania a resistere alla tentazione di essere una potenza. Fondendosi con l’Europa, intende eliminare qualsiasi velleità nazionalistica. L’idea francese di Europa-potenza minaccia di risvegliare i suoi vecchi demoni. Per questo motivo i due paesi spesso non sono in sintonia e ciò finisce col minare l’influenza francese. Per esempio, la Germania non condivide l’ambizione francese di “usare” l’Europa come contrappeso all’influenza americana. Né condividevano tale impostazione gli altri quattro firmatari del Trattato di Roma. A quei tempi tuttavia il peso della Francia, nell’Europa dei sei, era decisivo. Oggi è sola, contro 26, a perseguire il suo sogno, ma è del tutto isolata.
In aggiunta a tutto ciò la Francia fa pesare il problema della difesa della sua lingua. Basta passare qualche ora in una qualsiasi delle tante commissioni comunitarie, per comprendere che la lingua di lavoro è oggigiorno l’inglese. Il rifiuto francese di accettare quest’evidenza produce effetti perversi. La voce dell’Esagono finisce con l’essere poco ascoltata, è talora mal compresa e spesso ignorata, dal momento che si esprime in una lingua sconosciuta alla maggioranza delle persone. Rifiutandosi di parlare inglese, i rappresentanti della Francia non possono partecipare ai dibattiti, limitandosi a lunghe dichiarazioni, accolte dai partecipanti con spirito di sopportazione.

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Il rifiuto dell’economia di mercato

Il secondo malinteso concerne l’integrazione economica. Con l’adozione dell’euro il processo di integrazione è praticamente terminato. Abbiamo un mercato unico, un’unica politica commerciale verso l’estero, una moneta unica. Manca ancora la parte relativa ai servizi, la famosa direttiva Bolkenstein, ma il suo fallimento dipende appunto dal secondo malinteso. La Francia, sola in Europa, rifiuta l’economia di mercato, sia a livello di opinione pubblica che nelle alte sfere politiche.
Sono molti coloro che hanno tentato di spiegare questa specificità francese, ciò non toglie che essa provochi profonde ripercussioni. La Francia è un freno in tutte le grandi questioni economiche. Pensiamo alla Pac, che probabilmente sarebbe sparita senza la resistenza di Parigi. Pensiamo all’integrazione del mercato dei servizi, la direttiva Bolkenstein appunto, che doveva certo essere migliorata, ma che in Francia è stata vista come il male assoluto. E ancora: le negoziazioni commerciali internazionali e il ciclo di Doha. Le fusioni-acquisizioni permeate dalla anacronistica dottrina del patriottismo economico. Completano questo quadro deprimente gli attacchi contro la Bce, non condivisi da alcuno dei nostri partner e pertanto destinati al fallimento.
Tutto ciò dimostra come la Francia si trovi in grande difficoltà nell’accettare quest’evidenza: l’economia di mercato è quanto di meglio sia stato sinora scoperto per assicurare la prosperità. Invece di sforzarsi di attenuarne le numerose imperfezioni, come fanno tutti gli altri nostri partner, la Francia continua a predicare una nuova terza via, assolutamente mitica, dal momento che nessuno ha saputo renderla credibile, descrivendola con un minimo di precisione.
Uno degli aspetti più negativi, sia per l’influenza esercitata dalla Francia, sia per l’integrazione europea in genere, è la convinzione che il modulo economico debba essere completato con un modulo sociale e uno fiscale. Considerando l’economia di mercato alla stregua di un male difficilmente accettabile, la Francia continua a volerla neutralizzare, normandola. Per carità, è un suo diritto, ma cercando di farlo a livello europeo, commette un basilare errore di valutazione.
Il mercato è un fenomeno naturale, che fiorisce non appena si cessa di frapporgli ostacoli. Da Shangai a New York, da Rio a Varsavia, imprenditori e consumatori reagiscono in maniera identica, se si permette loro di fare ciò che vogliono. Anche il Mercato comune è pertanto naturale ed è in virtù di questo fatto che esso si è messo in moto. Certo, abusi e distorsioni vanno di pari passo col mercato e bisogna assolutamente imporre dei paletti. Ma nessuno – a parte una frangia, in via di estinzione, di adepti del libero mercato nella sua accezione più integrale – è favorevole a un mercato senza regole e senza servizi pubblici. Tali regole, concernenti tra l’altro la fiscalità e il mercato del lavoro, non sono tuttavia naturali. Differiscono profondamente da un paese all’altro, perché sono il risultato dei casi della storia e dei valori culturali in continua evoluzione. Ecco perché l’indispensabile inquadramento sociale delle leggi di mercato deve essere realizzato soprattutto a livello nazionale, lasciando invece funzionare spontaneamente il mercato, a livello internazionale.
Perché, allora, questa insistenza francese nel reclamare regole comuni? Innanzitutto perché gran parte delle norme sollecitate dalla Francia avrebbe come effetto di ridurre la competitività. Certo, sarebbe comodo se gli altri partner facessero come noi, ma la maggior parte di essi non lo auspica affatto. In secondo luogo, se queste norme differissero da un paese all’altro finirebbero con lo sfalsare la concorrenza, in seno al Mercato comune. Se tutti i paesi optassero per le stesse regole, tutto diverrebbe più facile; ma così non è. Bisognerebbe domandare ai paesi, che impongono meno regole, di introdurne di più o a coloro che ne impongono un maggior numero di ridurle? Domanda senza risposta.
In queste condizioni le richieste francesi di armonizzazione fiscale, di salari minimi e di ogni altro genere di misure sociali si trasformano in altrettanti conflitti tra le differenti visioni e tradizioni nazionali. La Francia non solo persegue, così facendo, un sogno impossibile, ma alimenta le divisioni, lastricando il cammino di risorti nazionalismi. Per giunta è screditata dalla misera performance economica dell’ultimo ventennio, collegato strettamente alla rigidità del suo mercato e all’impossibilità di compiere le necessarie riforme. Tradotto in linguaggio non diplomatico, i nostri partner dicono: con quale diritto questo paese, in grave crisi economica e sociale, viene a dirci cosa fare a casa nostra?
L’arretramento della Francia risale senza dubbio al ben noto episodio della “sedia vuota” (1), quando De Gaulle bloccò l’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune. In quella crisi c’era già tutto in nuce. La visione della Europa-potenza non poteva certo conciliarsi con la presenza “dominatrice” degli anglo-sassoni atlantisti. L’idea, attribuita agli inglesi, di un’Europa ridotta a mercato comune finiva con il santificare l’economia di mercato, in quanto obiettivo centrale della costruzione europea. Da allora, la Francia ha pur sempre continuato a svolgere un ruolo motore in tutti i campi – anche grazie a Jacques Delors, padre della moneta unica, che è stato il più importante presidente della Commissione. Ma è iniziato il declino, che tuttora continua.

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(1) Chiamato così perché per sette mesi, nel 1963, la Francia si rifiutò di partecipare alle sedute comunitarie.

* La versione originale dell’articolo appare sul sito www.telos-eu.com Traduzione dal francese di Daniela Crocco

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