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La via burocratica alla produttività

Affinché il tavolo sulla riforma del pubblico impiego non sia un ennesimo esercizio di retorica, bisogna che il baricentro si sposti dai contratti e dalle regole del rapporto di lavoro individuale agli incentivi forniti alle amministrazioni, i cui dirigenti vanno dotati di poteri manageriali effettivi. L’esatto contrario del memorandum sottoscritto fra governo e sindacati. Nei prossimi cinque anni andranno in pensione circa 400mila persone. Da come e in quale percentuale verranno rimpiazzate dipende il futuro della nostra pubblica amministrazione.

La via burocratica alla produttività, di Tito Boeri e Giuseppe Pisauro

Affinché il tavolo sulla riforma del pubblico impiego non sia un ennesimo esercizio di retorica, bisogna che il baricentro si sposti dai contratti e dalle regole del rapporto di lavoro individuale agli incentivi forniti alle amministrazioni, i cui dirigenti vanno dotati di poteri manageriali effettivi. L’esatto contrario del memorandum sottoscritto fra governo e sindacati. Nei prossimi cinque anni andranno in pensione circa 400mila persone. Da come e in quale percentuale verranno rimpiazzate dipende il futuro della nostra pubblica amministrazione.
Fra una settimana si dovrebbe aprire il tavolo sulla riforma del pubblico impiego. Dovrebbe tradurre in termini operativi le belle parole (“ottimizzazione dei servizi”, “profonda riorganizzazione nell’ambito di azioni coerenti ed omogenee”) contenute nel memorandum siglato dal ministro della Funzione pubblica Nicolais e dai sindacati il 18 gennaio scorso.
Di buoni intenti sono lastricate le trattative sul pubblico impiego. Nella pratica le cose sono andate nella direzione opposta: le retribuzioni pubbliche sono cresciute negli ultimi cinque anni quasi il doppio che nel settore privato, mentre non ci sono indicazioni di miglioramenti nella qualità dei servizi. Ad esempio, continuiamo a spendere in istruzione obbligatoria quanto i paesi nordici, in rapporto al Pil, ma i nostri diplomati hanno performance del 20-30 per cento inferiori nei test internazionali.

I fallimenti di questi anni

Qualche tentativo è stato fatto in questi anni per migliorare la qualità del lavoro pubblico. Ma sono tutti falliti. Si è proceduto nella contrattualizzazione del rapporto di lavoro, per cui l’esito del negoziato fra l’agenzia pubblica, l’Aran, e i sindacati diviene efficace senza la necessità di un formale recepimento legislativo. Si sono adottati schemi retributivi nei quali, in linea di principio, giocano un peso importante le componenti accessorie dirette a premiare incrementi di produttività. Sono stati introdotti un nuovo sistema di controlli interni ed esterni delle amministrazioni pubbliche e un nuovo stato giuridico per i dirigenti.
I risultati di queste innovazioni sono rimasti sulla carta. Nelle retribuzioni è, ad esempio, cresciuto molto il peso delle componenti accessorie dirette a premiare incrementi di produttività. Cosicché nel triennio 2000-2003, più di metà degli incrementi dello stipendio del personale degli enti locali (70 euro su 120) sono stati erogati in base a premi di produzione e questi “trattamenti accessori” oggi rappresentano poco meno di un quinto della retribuzione complessiva.

La parodia dei premi di produttività

Ma nulla è cambiato in pratica. Semplicemente perché queste innovazioni legislative vengono utilizzate dalle amministrazioni in modo distorto. Il sistema dei controlli è largamente auto-referenziale. I “premi di produzione” non si basano sulla definizione ex-ante di obiettivi misurabili e rilevanti all’esterno dell’amministrazione, al cui raggiungimento viene subordinata la concessione del premio. Al contrario, si concedono premi o aumenti retributivi alla generalità dei dipendenti, sulla base dei risultati misurati da indicatori di performance o di “progetti” definiti ad hoc e spesso rinnovati da un anno all’altro alla bisogna. La mobilità di carriera, contemplata dalle riforme di questi anni, avviene con passaggi di qualifica generalizzati, spesso celati dietro il velo di concorsi interni di dubbia selettività. Si tratta, in realtà, di un recupero surrettizio del ruolo tradizionale dell’anzianità di servizio nel determinare la dinamica retributiva, mascherato, nella retorica delle discussioni sulle retribuzioni nel pubblico impiego, dal riferimento alla nozione della produttività. Per la finanza pubblica, e per la trasparenza delle remunerazioni del pubblico impiego, è peggio del legame esplicito fra retribuzioni e anzianità di servizio che esisteva in passato.

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Il memorandum riduce l’autonomia dei dirigenti

L’uso distorto di queste innovazioni ha due fonti: i) nulla è più opinabile della misura della produttività nel pubblico impiego, e ii) le amministrazioni continuano ad avere incentivi distorti.
La nozione di produttività del dipendente pubblico continua a essere circondata da un’ipocrisia sacrale. Si regge sulla pretesa che la produttività del singolo dipendente pubblico sia facilmente misurabile e che esistano schemi generali validi per tutti i settori. Due assunti palesemente non veri.
Inoltre tutti i tentativi fatti sin qui e quelli oggetto di discussione, fra cui la stessa istituzione dell’Authority , affrontano gli incentivi individuali ma non quello delle amministrazioni nel loro complesso e non offrono ai dirigenti di queste amministrazioni l’autorità per gestire politiche retributive davvero differenziate in base alla produttività dei singoli dipendenti. Addirittura il memorandum sottoscritto il 18 gennaio ha ridotto ulteriormente l’autonomia dei dirigenti, laddove afferma che “le riorganizzazioni interne ai Dipartimenti saranno oggetto di preventiva informazione e concertazione con le organizzazioni sindacali” e si afferma la necessità di affiancare ai poteri di gestione della dirigenza “adeguati sistemi di garanzia, nell’ambito delle relazioni sindacali”. Come dire, siamo noi a decidere.

Dagli individui alle amministrazioni

Per attuare davvero una riforma del pubblico impiego bisogna invece rafforzare il ruolo dei dirigenti, veri e propri manager, delle amministrazioni decentrate della Pa e fornire gli incentivi giusti, subordinando gli stanziamenti alle singole amministrazioni a risultati che sono molto più misurabili se rapportati all’operato di una amministrazione piuttosto che di un singolo dipendente pubblico.
Rispetto a dieci anni fa, lo stato giuridico dei dirigenti è oggi profondamente diverso, ma il nuovo status si è tradotto in incrementi retributivi molto sostanziosi, in alcuni casi superiori al 50 per cento, giustificati da “indennità di funzione”, “retribuzione di risultato” e “premi di produzione” (ancora la parodia della produttività) senza che nella realtà il loro ruolo effettivo e i loro poteri siano cambiati di molto. Mentre è aumentata molto la produzione negli uffici di carte su definizione e verifica di obiettivi.

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Che fare?

È possibile fissare obiettivi chiari e verificabili a livello di amministrazioni nel loro complesso per quei servizi diffusi sul territorio dove vi è un rapporto diretto coi cittadini: la sanità, la scuola, la giustizia. L’output da misurare è legato alla quantità e qualità dei servizi forniti agli utenti (i tempi di attesa, i risultati degli studenti nei test internazionali, eccetera) mentre la diffusione nel territorio dei servizi permette confronti e operazioni di benchmarking. In questi casi, mediante anche il coinvolgimento di utenti ed osservatori privilegiati come proposto da Pietro Ichino , sarà possibile subordinare la concessione alle amministrazioni di risorse per premi di produzione al raggiungimento degli obiettivi, lasciando al dirigente locale, che è nella posizione migliorare per valutare l’operato dei singoli, la facoltà di scegliere come distribuire i premi fra i dipendenti e maggiore discrezionalità nelle assunzioni.
Nelle prestazioni dove non c’è alcun rapporto diretto coi cittadini, né diffusione sul territorio, meglio magari mantenere schemi retributivi più tradizionali, senza cadere nella retorica dei premi di produttività. In questi casi bisogna compiere una mappatura degli esuberi. Ad esempio, il governo potrebbe stabilire che c’è un’eccedenza al ministero dell’Economia di 600 persone e ancora di più al ministero dell’Agricoltura oppure considerare l’eliminazione delle direzioni regionali dei vigili del fuoco.
Le scelte, inevitabilmente discrezionali, dell’esecutivo dovranno essere soggette al controllo dell’opinione pubblica che dovrà essere messa in condizione di valutare non solo la qualità dei servizi effettivamente resi, ma anche la congruità delle remunerazioni dei singoli dipendenti. Ciò significa anche una migliore informazione sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti. Oggi le fonti ufficiali forniscono dati sulle retribuzioni medie per comparto (ministeriali, scuola, e così via), ma nulla sui differenziali retributivi per qualifiche e sulla loro dinamica, che possa servire a riflettere sulla loro giustificazione. L’Istat dovrebbe prossimamente pubblicare indici del costo della vita per macroaree. Potranno essere utilizzati per evidenziare la natura dei differenziali retributivi nel pubblico impiego a parità di potere d’acquisto. Oggi un insegnante viene remunerato, in termini di potere d’acquisto più a Palermo che a Milano.
È adesso il momento di fare una vera riforma del pubblico impiego perché nel prossimo futuro cresceranno in misura significativa i pensionamenti nel settore: si stima che nei prossimi cinque anni andrà in pensione un dipendente pubblico su otto, ovvero circa 400mila persone. Da come e in quale percentuale verranno rimpiazzate dipende il futuro della nostra pubblica amministrazione.

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10 commenti

  1. Antonino Colombo

    Un aspetto mi pare rimanga in ombra: i nostri dirigenti pubblici sono in grado di esercitare poteri ampiamente discrezionali? Sono essi portatori di una cultura manageriale, improntata a valori etici? Senza voler fare i filosofi: chi garantisce che non favoriranno qualcuno, secondo una logica clientelare/nepotistica, che nel nostro Paese è radicata da secoli?
    I nostri dirigenti pubblici sono autorevoli esponenti di una prestigiosa ENA, alla francese?
    Sono essi famosi per un ‘prussiano’ senso dello Stato e della res publica? Verre è stato un incidente della storia?
    Quali poteri si vogliono assegnare a dirigenti diventati tali solo per atto politico, come accaduto ad es. in certe amministrazioni regionali?
    Prima di stabilire cme si deve essere valutati, occorre prima costruire una vera classe dirigente: e non la si costruisce certo per atto d’imperio.
    Prima (o, per lo meno, contemporaneamente) al tema degli impegati ‘nullafacenti’, occorre pensare al problema del rinnovamento della classe dirigente.

  2. Aureo Muzzi

    Vediamo i risultati dell’intervento su una parte della PA, la sanità.
    I limiti possono essere dati dagli obblighi della burocrazia e dalla cultura della centralità dell’organizzazione. I risultati sono variabili, con gravi problemi al sud; la figura monocratica del direttore generale risponde al potere politico e meno a logiche di vera efficienza; la sua valutazione si basa sul raggiungimento di pochi obiettivi, mirati per ottenere risultati sul breve periodo, piuttosto che strutturali, soprattutto per la parte clinica; è favorito lo stile di direzione gerarchica, da caserma; i medici restano troppi, gli infermieri troppo pochi; il livello sanitario medio resta a metà della classifica della CE; la delega di controllo e programmazione ad un soggetto esterno, come in parte sono le varie l’Agenzia Regionale della Sanità, ha prodotto confusione sul ruolo di questo tipo di soggetto, a metà tra il nuovo atipico potere politico-programmatorio e l’indipendenza. Propongo alcuni interventi in particolare per la sanità, ma applicabili a tutta la PA. La prima è la trasparenza, come espressione di un diritto del cittadino, “azionista “ della PA e forma di stimolo del sistema. Il lavoro di gruppo, quindi anche riunioni che sembrano perdita di tempo, favoriscono le idee innovatrici, la soluzione dei problemi e limitano le resistenze, anche incentivando le convenienze legittime. Ogni intervento si deve basare su basi scientifiche, quando possibile. Il manager viene affiancato da un comitato tecnico e da uno sociale (etico) con funzioni di supporto e di valutazione generale, ma non di controllo, per favorire il confronto delle idee e limitare l’esclusione. La programmazione non è affidata esclusivamente alla dirigenza della PA e alla politica, cui restano i principi di base, ma, quando possibile, a gruppi di lavoro mirati che comprendano tutti gli attori dell’area interessata.

  3. Franco Zannoner

    Premesso che sono un lavoratore autonomo e percio’ sono accecato da alcuni preconcetti che mi derivano dalla mia condizione; vorrei che mi chiariste alcuni punti.
    Gli impiegati che non lavorano vengono licenziati?
    A quelli che lavorano male viene ridotto lo stipendio? I dirigenti che non raggiungono i benchmarch vengono licenziati?
    Si riesce a fare in modo che il cittadino/utente possa trovare un responsabile ultimo per un certo tipo di servizio?
    E’ importante organizzare le cose in modo che gli utenti/cittadini/elettori abbiano un idea di quanto costa fare cosa?
    Non e’ il caso di quantificare il vantaggio del mancato rischio di licenziamento/fallimento?
    Nella pubblica amministrazione e’ applicabile il concetto “fare di piu’ con meno risorse”?
    Per ultimo, una cosa secondo me piu’ fattibile, e’ possibile pagare la quota tasse direttamente alla Usl di competenza e eleggerne l’amministratore delegato?

  4. Cinzia Ciampa

    Ho letto molte voci autorevoli in merito al “problema” del pubblico impiego. In qualità di funzionaria molto qualificata ma delusa, mi rallegro del ripetuto riferimento ai poteri dei dirigenti ma, stante mie esperienze al riguardo non proprio esaltanti, non ho udito troppe manifestazioni di perplessità nei confronti delle loro specifiche capacità tecniche e personali, la cui mancanza non li rende sempre atti ad esprimere un’esatta ed obiettiva valutazione del personale che con essi collabora o dovrebbe collaborare in modo fattivo per la collettività. Grazie.

  5. Fausto Ceccarini

    Diciamo le cose come stanno (e lo dico per esperienza piu’ che diretta): 1) I dirigenti sono praticamente tutti di diretta emanazione politica, spesso di scarsissima preparazione;
    2) anche in caso di clamorosi fallimenti vengono riciclati da un’amministrazione all’altra;
    3) Le loro “relazioni” che determinano le citate indennità riportano psuedorisultati redatti ex-post e senza alcun effettivo controllo di valuatazione;
    4) quand’anche generano risparmi, ciò avviene a scapito della qualità dei servizi (in questo modo son capaci tutti…)
    4) il loro compito fondamentale è la gestione del consenso politico tramite promozioni a cascata di funzionari “amici” a loro volta inquadrati partiticamente, la cui funzione principale è quella di yes-men pronti a firmare e avallare qualsiasi nefandezza;
    5) tutto questo, essendo evidente a tutti i dipendenti e ai funzionari interni, genera totale disaffezione al lavoro per gli onesti e incentivo all’opportunismo e al “recepimento del messaggio” per tutti gli altri. Ma è proprio questo, ciò che si vuole.
    Personalmente non ho speranze.

  6. Umberto Bocus

    Chi nella pubblica Amministrazione riesce a raggiungere i requisiti per la pensione ed è ancora innovativo e aggiornato se ne esce velocemente si getta nel mercato cogliendone le situazioni favorevoli e di nicchia, spesso risolvendo per altri le inefficienze della Pubblica Amministrazione. Si pensi al fallimento della 241 sui termini per l’esaurimento del procedimento (non sul raggiungimento dgli obiettivi prefissi). Talvolta si ottengono gli obiettivi e salta fuori la Magistratura che invoca fra le prove un procedimento veloce !!! Cosa successami personalmente e a mie spese ma conclusasi dopo quattro anni con l’assoluzione ma con l’amaro ancora in bocca.

  7. Paolo Storelli

    Che la massa degl’interventi sul tema dell’inefficienza della Pubblica Amministrazione non sia riuscita ad individuare un solo caso di riforma di successo nel passato prossimo e remoto di questo paese, la dice lunga sulle concrete speranze di risolvere una situazione che sembra annodarsi al DNA degli italiani o di una parte consistente di loro.
    Ancor più deprimente è che gli unici suggerimenti siano nel senso di creare nuove strutture (agenzie, authorities, distretti etc.) o “nuove figure” (manager pubblico e simili), quando le esperienze finora vissute sui due temi hanno dato esiti a dir poco disastrosi e comunque dispendiosissimi.
    Penso che, nel loro intimo, tutti siano convinti che una riforma della PA passi necessariamente per una deregulation selvaggia che abolisca il principio di stabilità del posto di lavoro pubblico e, al tempo stesso, una pletora di leggi che dilatano i poteri e le competenze della PA oltre ogni limite.
    Che passi altresì attraverso l’affermazione del principio che la funzione pubblica è quella di servire la generalità dei cittadini e non il contrario, con tutte le conseguenze che ne derivano.
    Credo sia ugualmente chiaro a tutti che questa sia una chimera. Ma allora dovremmo anche avere l’onestà di ammettere che le altre cure proposte aggravano il male che pretendono di curare.
    Un approccio pragmatico per i “métre à penser” sarebbe quello di esaminare in dettaglio singoli settori della PA, elaborarne i criteri di amministrazione, individuare in concreto tutte le modifiche che l’applicazione di tali criteri comporta, elaborare un piano che attui tali modifiche nel tempo, invitare i politici ad affidarne la realizzazione ad un organismo transitorio, estraneo alla struttura, con piena responsabilità dei risultati e dei tempi di attuazione.
    Sono scettico, ma almeno, all’ennesimo insuccesso, potremo archiviare il caso….fra quelli senza democratica soluzione.
    Paolo Storelli

  8. Fabio Avallone

    Sono perfettamente d’accordo sulla distorsione dello strumento della mobilità orizzontale che avviene nella P.A. Una piccola soluzione ad un grande problema, però, c’è. La progressione orizzontale è stata introdotta per premiare (pagando di più) chi svolge meglio determinate mansioni. E’ per questo che all’interno di una stessa categoria, poniamo la “C”, esistono posizioni economiche (C1, C2…) alle quali non corrisponde né una diversità di mansioni né una diversità di responsabilità (fatta eccezione per il comparto Ministeri). La norma contrattuale, però, prevede che partecipino alla selezione i dipendenti con almeno 3 anni di anzianità. Le PP.AA., quindi, stanziano fondi per le progressioni orizzontali in modo da consentire il passaggio a tutti coloro che hanno questo requisito alla data del (finto) bando, rendendo la progressione legata esclusivamente all’anzianità. Per risolvere il problema basta cancellare il requisito dei 3 anni. In questo modo diventa impossibile predefinire il numero di partecipanti e renderlo uguale a quello dei vincitori.
    Se dev’essere retribuzione legata alla qualità, bisogna cancellare qualunque riferimento all’anzianità nella norma contrattuale. Semplice a dirsi, no?

  9. fabiano corsini

    500 mila pensionamenti nelle amministrazioni pubbliche:sarà un passaggio straordinario, e ancora una volta rischiamo si affrontarlo impreparati. Dovremmo avere un progetto per la funzione pubblica. Non si tratta di “sostituire” chi va in pensione, ma di ripensare le competenze professionali e l’organizzazione del lavoro. Le politiche di stabilizzazione dei precari sono ricorrenti, non ci voleva la sinistra radicale al governo per proporle;le aveva già largamente praticate la DC negli anni 70 e 80. Il fatto è oltre che riproporre la deprecabile filosofia dei condoni (e qui si vorrebbe condonare anche la mancanza di procedure di evidenza pubblica!), quello che concretamente si fa è che si continua ad alimentare i modello organizzativo vecchio; si introducono professionalità che non sono funzionali ad una ipotesi di sviluppo, ma al puntellamento dell’esistente. Nel memorandum per il lavoro pubblico per la prima volta il sindacato sottoscrive un documento dove si scrive “ In questo nuovo impianto gli aumenti di efficacia e di efficienza dovranno essere perseguiti ricorrendo alle esternalizzazioni”; è certamente un punto acquisito nella via per la modernizzazione del lavoro nella funzione pubblica, anche se subito dopo si aggiunge un sorprendente “ solo per le attività no core”. E’ chiaro ora che il livello della lotta si sposterà nelle dispute su che cosa si intende per core, cosa è core e cosa no. Anima e “core”, appunto.
    La questione del precariato è affrontata in toni apodittici; “nell’ambito della legislatura, i sistemi di reclutamento pianificati dovranno portare alla scomparsa del precariato.” Se non crescono politiche di governo dei fenomeni, se non si fa strada l’idea di affiancare ai nuovi processi un riordino organizzativo, e dunque dei piani di sviluppo per le pubbliche amministrazioni, assisteremo ad un colossale infornata di personale, senza alcuna valutazione del merito e senza riferimento alle concrete esigenze professionali per lo sviluppo degli enti pubblici.

  10. Alessandro Spadoni dipendente della Provincia di Roma

    La produttività nel pubblico impiego è una farsa per come è stata impostata dal Governo (di destra e di sinistra) sia per come l’hanno recepita amministrazioni e sindacati. Il pubblico impiego è a pezzi perchè non si fa altro che tagliare risorse e possibilità di progressione economica e professionale. Solo gli amici degli amici riescono a rastrellare qualcosa (posizioni organizzative e dirigenze), il resto è costretto a lavorare male con strumentazione obsoleta e in ambienti dove regna la burocrazia e il nepotismo. I salari sono i più bassi di europa e si continua a premiare il privato con esternalizzazioni selvagge e con consulenze. Invece di stimolare il personale interno, lo si condanna ad una marginalizzazione e ad una ingiusta persecuzione. E’ su queste storture che si dovrebbe agire e non con i mezzi demagogici di Brunetta e con Memorandum di dubbia utilità ed efficacia.

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