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Per rompere il circolo vizioso

Per stimolare l’efficienza delle nostre amministrazioni pubbliche, paralizzate da un sistema di irresponsabilità diffuse che si sorreggono a vicenda, dove il tasso di applicazione della legge stessa è vicino a zero, occorre introdurre, dove possibile, una vera concorrenza tra i centri erogatori di servizi. Dove questo non è possibile, occorre attivare le capacità di auto-valutazione delle amministrazioni e aprirle totalmente alla valutazione della cittadinanza, cui va assicurata piena voce in proposito. Entrambe garantite da un’Autorità indipendente. Un commento di Sergio Paderni e uno del Gruppo di lavoro Sisper alla proposta di un Autority per l’impiego pubblico.

Per rompere il circolo vizioso, di Pietro Ichino

Quando parliamo di un tasso di effettività della legge troppo basso, nel nostro paese, la prima grande piaga a cui pensiamo è quella delle zone del Sud controllate dalla criminalità organizzata. È meno diffusa la consapevolezza che, subito dopo quelle, le zone del nostro tessuto civile nelle quali il tasso di effettività della legge è più basso si trovano nelle amministrazioni pubbliche. E questo è forse ancora più intollerabile: perché se è lo Stato stesso a violare la legge, in modo sistematico ed esplicitamente dichiarato, nell’ambito della propria struttura, non si può dare alcuna speranza di rilancio della cultura delle regole e delle civic attitudes, che costituiscono una precondizione essenziale per lo sviluppo sociale ed economico del paese.

Responsabilità “disattivate”

Innanzitutto, nella gestione della cosa pubblica, l’interesse veramente prioritario non è quasi mai quello al “buon andamento” dell’amministrazione, stabilito dall’articolo 97 della Costituzione, ma l’interesse dei dipendenti, che prevale su ogni altro. Questo può accadere perché è disattivata dovunque la “responsabilità dirigenziale”, prevista dall’articolo 21 del Testo unico sull’impiego pubblico come responsabilità oggettiva del management circa i risultati conseguiti, distinta e aggiuntiva rispetto alla normale responsabilità contrattuale comune a tutti i dipendenti.
Analogamente, è del tutto disattivata la responsabilità contrattuale del singolo impiegato, cioè il suo obbligo di diligenza e di produttività, sancito dall’articolo 2 del Testo unico: l’efficienza dell’ufficio si basa di fatto soltanto sul buon cuore dei dipendenti volonterosi. Contro la negligenza non si applica alcuna sanzione, neppure quando il difetto è spinto a livelli estremi: non solo perché viene esercitato solo raramente il controllo sull’adempimento individuale, ma anche perché è praticamente abolito il potere disciplinare, di cui pure l’amministrazione disporrebbe a norma di legge esattamente come tutti i datori di lavoro privati.
È di fatto disattivata la regola del controllo puntuale dei costi e della congruità tra risorse impiegate e funzioni svolte (articoli 18 e 58-61 del Testo unico); e sono di fatto totalmente obliterati i poteri non solo di licenziamento, ma anche di trasferimento per necessità obbiettiva dell’amministrazione, che la legge attribuisce al dirigente pubblico esattamente come al dirigente di azienda privata (articoli 33-34 e 51 del Testo unico).

Né opzione exit né voice

L’assenza del controllo del mercato ha consentito che nell’amministrazione pubblica si instaurasse un sistema di irresponsabilità circolare, nel quale il “non rispondere” dei dirigenti giustifica quello dei dipendenti e ne è a sua volta giustificato. Occorre rompere questo circolo vizioso.
Nel mercato l’utente/cliente sanziona l’inefficienza rivolgendosi altrove: egli esercita così quella che Albert O. Hirschman chiama l’opzione exit. Alternativa a questa è la possibilità di farsi sentire, denunciare le inefficienze, interloquire nelle scelte: l’opzione voice (che nel paradigma hirschmaniano può essere favorita dall’attaccamento all’istituzione/organizzazione – loyalty e può consentire a quest’ultima di individuare più rapidamente ed efficacemente i difetti di funzionamento). Il problema fondamentale della nostra amministrazione pubblica sta nel fatto che in essa al cittadino-utente non si dà né l’una opzione né l’altra: né exit, né voice. I rappresentanti politici, che dovrebbero esprimere la voice della cittadinanza, tendono a interferire con l’amministrazione per fini del tutto diversi da quelli del miglioramento della sua efficienza.
Non ci si può stupire, dunque, che ne risulti un gravissimo difetto di stimoli al buon andamento dell’amministrazione stessa e addirittura la violazione sistematica, conclamata e impunita dell’intero suo ordinamento legale. Si sono dati al management pubblico gli stessi poteri, la stessa discrezionalità, di cui dispone il management delle imprese private, ma in un contesto in cui – nella maggior parte dei casi – il cattivo o mancato esercizio degli stessi non è sanzionato né dal mercato, né dal controllo del cittadino-utente.
Dove il circolo vizioso non può essere rotto con l’assoggettamento di parti dell’amministrazione pubblica a meccanismi di mercato, occorre romperlo introducendo nell’amministrazione la cultura della valutazione e della trasparenza, aprendola anche al controllo diretto da parte della cittadinanza. Consentire questo controllo potrebbe avere un effetto tonificante straordinario sull’intero sistema. A questo mira il progetto di legge sull’Autorità indipendente per l’impiego pubblico, proposto in Parlamento da numerosi parlamentari appartenenti a un ampio schieramento di forze politiche, di maggioranza e anche di opposizione, subito dopo che esso era stato presentato, a metà dicembre, su lavoce.info.

L’Autorità per l’impiego pubblico

L’Autorità, molto snella, dovrebbe funzionare con il solo personale oggi addetto all’Alto commissariato contro la corruzione e al coordinamento dei nuclei di valutazione presso la presidenza del Consiglio, che verrebbero entrambi sciolti e da essa assorbiti.
L’idea di un’Autorità indipendente suscita, ciononostante, perplessità in tutti coloro che in essa vedono un organo ispettivo straordinario, di fatto incapace di svolgere tale funzione. Ma il progetto non affida alla nuova Autorità la funzione di organo ispettivo, bensì quella di i) presiedere all’attivazione in ogni comparto pubblico degli organi interni di valutazione già previsti dalle riforme degli anni Novanta (ma attivati solo in alcune amministrazioni), garantendone l’indipendenza che oggi non hanno; ii) garantire l’immediata disponibilità al pubblico di tutti i dati di cui dispongono gli organi interni di valutazione, arbitrando le eventuali controversie in proposito e dando alla cittadinanza (associazioni, stampa specializzata, ricercatori) piena voce nella valutazione dei dati stessi; iii) porre, in ogni comparto, le due valutazioni, interna ed esterna, in comunicazione e concorrenza tra loro, anche mediante istituti come la public review, o metodi del tipo dell’Internet-based reputation system. Comunicazione e concorrenza assai utili, perché è importantissimo che intelligenze, tecniche e ottiche differenti di valutazione si attivino e si confrontino apertamente in riferimento a ciascun comparto dei servizi pubblici.
Così come è ragionevolmente necessario – e nessuno ne dubita – che un’Autorità indipendente presieda alla garanzia dell’opzione exit, là dove il mercato può effettivamente operare, altrettanto è ragionevolmente necessario – soprattutto nella situazione di grave emergenza in cui versa la maggior parte delle amministrazioni pubbliche italiane – che un’Autorità indipendente presieda alla garanzia della trasparenza e dell’opzione voice, dove il mercato non può operare o si preferisce comunque che esso non operi.

Più chiarezza sui nuclei di valutazione, di Sergio Paderni

Nel 1992, di fronte alle degenerazioni di Tangentopoli e per evitare la catastrofe economica di un ingente disavanzo pubblico, il governo Amato ha ottenuto dal Parlamento la delega per realizzare quattro riforme, nei settori ritenuti (allora come oggi) causa del disavanzo: previdenza, sanità, finanza locale, pubblica amministrazione.

Il ruolo dei nuclei di valutazione

La riforma della Pa è stata fondata su un principio forte: riservare agli organi politici le funzioni di indirizzo e di controllo e affidare alle strutture operative la gestione delle risorse, l’organizzazione delle attività e la responsabilità dei risultati.
Sono state introdotte, per il personale, consistenti incentivazioni economiche, ancorate, però, a metodiche di garanzia, ricomprese nel sistema dei controlli. La distribuzione degli incentivi è stata correlata a specifici sistemi di valutazione da negoziare con le organizzazioni sindacali. Per elaborare i criteri e applicarli al personale dipendente, il decreto legislativo 286/99 ha previsto la costituzione di appositi nuclei di valutazione.
L’esperienza maturata consente di affermare che i nuclei di valutazione possono svolgere questo ruolo in maniera coerente con gli scopi della riforma solo se hanno libertà di operare in maniera indipendente, come soggetti terzi tra gli organi politici e le strutture operative; non subiscono interferenze o condizionamenti da parte degli organi politici e, quindi, se vengono nominati con procedure pubbliche trasparenti; e se di essi non fanno parte dipendenti dell’ente pubblico, per evitare l’anomalia del valutato-valutatore.
Nella pratica avviene che le nomine siano spesso di tipo discrezionale, nello spirito dello spoils system; che il direttore generale o dirigenti dell’ente locale vengano cooptati nel nucleo; che gli organi politici esorbitino dalle funzioni di indirizzo per condizionare aspetti gestionali di competenza della dirigenza tecnica e che le disfunzioni dei servizi operativi dipendano spesso da criticità di sistema, non adeguatamente risolte a monte dagli organi politici.
Non sarà male, allora, riflettere che la produttività da misurare non è solo quella del pubblico impiego, ma quella complessiva dell’ente pubblico e che, quando si parla di pubblica amministrazione bisogna riferirsi all’insieme strutturale “organi politici + strutture operative”.
Il progetto di legge per la costituzione dell’Autorità sul pubblico impiego dovrebbe garantire perciò che i nuclei di valutazione, nel valutare il rendimento dei dipendenti, siano tenuti anche a indicare le disfunzioni di sistema attribuibili a monte agli organi politici, e che tali segnalazioni vengano doverosamente rivolte ai soggetti politici, perché provvedano a mettervi rimedio, ma raggiungano anche l’Autorità, la pubblica opinione locale e quanti sulla Pa studiano e ricercano.

I rapporti con gli enti locali

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Un secondo punto su cui riflettere è come riuscire a trasferire a livello degli enti pubblici territoriali i principi del progetto di legge, senza suscitare reazioni. Pur essendo semanticamente corretto scrivere che gli enti locali sono tenuti ad adeguare i propri ordinamenti alle disposizioni della legge delega e dei decreti legislativi, il termine “disposizioni” suscita il sospetto di dover riproporre modalità operative decise centralmente. Forse sarebbe meglio dire che essi debbono adeguare i propri ordinamenti “ai principi e alle finalità” della legge delega. La verifica di attuazione va condotta sull’elemento sostanziale del conseguimento dello scopo voluto dalla legge, più che sui modi di come farlo.
Le indicazioni di principio del Dlgs 286/99 non hanno prodotto risultati sempre in linea con le finalità che si vogliono perseguire. Ecco allora la necessità di far assurgere a principio della legge delega l’affermazione che per assicurare la terzietà e l’autonomia dei nuclei di valutazione, la loro costituzione va garantita con procedure pubbliche trasparenti e la loro composizione non può prevedere la presenza di soggetti politici o di personale dell’ente locale in cui il nucleo deve operare. Si tratta di due condizioni oggettive che è possibile verificare in concreto.
Quanto alle attività d’iniziativa dell’Autorità, di cui alle lettere f) e seguenti dell’articolo 2, si ha motivo di ritenere che la sola struttura centrale possa essere insufficiente per una mole così ampia di compiti. Per questo va valutata la possibilità di porre a supporto dell’Autorità, presso le prefetture, una rete di piccoli comitati di esperti locali che mantengano, nell’ambito provinciale, rapporti di collaborazione con i nuclei già costituiti; che svolgano funzioni di promozione e di supporto agli enti pubblici che ne sono sprovvisti e che operino da collettori delle informazioni necessarie all’Autorità centrale.

Il caso delle Asl

Il terzo punto di riflessione riguarda la particolare situazione delle aziende sanitarie locali. In quanto strutture aziendali sanitarie esse debbono applicare la riforma sanitaria del 1992 (decreto legislativo 502/92) e successivi aggiornamenti. In quanto strutture pubbliche esse sono tenute ad applicare la riforma della Pa del 1993 (Dlgs 29/93) e successivi aggiornamenti.
In base alla riforma sanitaria, le Asl ricevono gli indirizzi da un organo politico locale costituito dalla “Conferenza dei sindaci” (quando la Asl è sovracomunale), dal sindaco o dall’organo circoscrizionale (quando l’Asl è comunale o intracomunale). Infatti, sono questi organi politici che, in forza della legittimazione elettorale, hanno titolarità per esprimere i bisogni delle popolazioni amministrate. Ed è a essi che le Asl sono tenute annualmente a riferire, in pubbliche conferenze di servizio, sulle attività svolte e sui risultati conseguiti (articolo 14 Dlgs 502/92).
In quanto enti pubblici, le Asl debbono, però, conformarsi anche al sistema dei controlli di cui al Dlgs 286/99, comprensivo della attivazione di specifici nuclei di valutazione.
anomalia è che nella pratica i nuclei di valutazione delle Asl rispondono al direttore generale o riferiscono direttamente alla Regione. Nel primo caso si vulnera il principio che il direttore generale, essendo esso stesso soggetto di valutazione, non può rivestire contemporaneamente il ruolo di valutatore finale. Nel secondo caso, oltre a potenziarsi il neocentralismo regionale, si verifica l’anomalia che un soggetto di programmazione, quale è la Regione, svolge in concreto funzioni di gestione, esautorando i legittimi organi politici locali.
Occorre fare esplicita menzione nella legge delega di questa peculiarità delle Asl, per poter correggere le anomalie che ne derivano nei decreti legislativi di attuazione.

Ma l’Authority non serve, a cura del Gruppo di lavoro Sisper *

La proposta di istituire una Authority sul pubblico impiego, avanzata da Pietro Ichino, ha sollevato un importante dibattito, sia in sede scientifica, sia in sede politica. Compito di queste brevi note è di proporre ulteriori elementi di discussione su alcuni aspetti tecnici.

Affermazioni di buon senso ed evidenza empirica

Che nella Pa italiana vi siano diffusi problemi di inefficienza è opinione comune ed esperienza diffusa: tutti, in qualche modo, siamo cittadini utenti di pubblici servizi. Questa sensazione condivisa di cattivo funzionamento diventa stridente, poi, ogniqualvolta ci si trovi a confrontare la nostra situazione con i migliori esempi europei, dal “mito” della burocrazia francese, ai servizi infrastrutturali tedeschi, al welfare nord-europeo, e così via.
Non si vuole mettere in discussione la validità di affermazioni di buon senso, le quali possono essere spiegate, peraltro, alla luce della teoria economica della burocrazia, basate sul paradigma individualista. Il punto è che per fare un discorso scientifico descrittivo e prescrittivo su questi problemi l’aneddotica non basta. (1)
Le premesse generali di Ichino sono due: la prima è che la Pa italiana sia inefficiente, la seconda è che una causa primaria di tale inefficienza sia la scarsa produttività dei dipendenti pubblici. Quindi, occorre trovare adeguate evidenze empiriche, misurate secondo metodi robusti, dei seguenti fenomeni:

· l’inefficienza della Pa italiana: quanta ce n’è e in rapporto a quale benchmark, come si manifesta, dove si annida in particolare, quando si verifica;
· la “nullafacenza” dei dipendenti pubblici, anche qui con la necessità di stabilire le medesime coordinate di quanto, come, dove e quando;
· il nesso causale che regredisce dalla seconda alla prima: consistenza e forza di tale nesso, esclusione di relazioni spurie, eccetera.

Nel dibattito su lavoce.info l’esistenza di problemi di misurazione dell’efficienza dei pubblici servizi è già stata sollevata, ma la questione va approfondita ulteriormente.

Problemi di misurazione

La misurazione dell’efficienza nel caso della produzione di attività burocratico-amministrative e di beni e servizi pubblici non è resa difficoltosa solo dall’assenza di prezzi di mercato che consentano di valutare il valore effettivo della produzione. Anzi, allo stato attuale delle tecniche, questo è probabilmente un aspetto in parte superato. Sono ormai ampiamente sperimentati in letteratura metodi di misurazione dell’efficienza relativa che considerano l’output in termini fisici, come la Data Envelopment Analysis o il metodo delle frontiere stocastiche. Per le attività prettamente amministrative, in verità, rimangono specifiche difficoltà di definizione e misurazione dell’output, anche in termini fisici e un tentativo di risolvere tale questione è stato quello, applicato in passato nella Pa italiana, basato sui carichi di lavoro.
Il problema fondamentale, però, resta quello di non conoscere a priori la funzione di produzione dei vari servizi pubblici considerati, per cui non si è in grado di individuare e misurare i casi di inefficienza produttiva (tecnica) in senso assoluto. I metodi citati, infatti, consentono di stimare una “frontiera” delle possibilità produttive, ma solo in termini relativi. Permettono di individuare un benchmark costruito in base alle prestazioni migliori tra i casi considerati. In sintesi, dato un determinato settore della Pa, si può stimare quali amministrazioni siano inefficienti (e quanto) rispetto alla performance degli uffici più produttivi. Per fare un esempio di attualità, è possibile stabilire quali ospedali pubblici siano meno produttivi rispetto ai migliori ospedali italiani. In linea teorica si potrebbe farlo anche con le prefetture, o con gli uffici del catasto, e così via.
L’applicabilità di tali tecniche, peraltro, si scontra con altri, non facili problemi. Primario è quello dell’omogeneità dell’output: le analisi di efficienza relativa, per essere attendibili, presuppongono che le unità produttive messe a confronto producano esattamente lo stesso tipo di output. Non basta che si tratti di ospedali, ma occorre che siano ospedali che offrono lo stesso tipo di prestazioni, le quali, inoltre, vanno “pesate” adeguatamente.
È ovvio che queste possibilità di misurazione non possono offrire evidenze empiriche, se non in maniera molto parziale, alle premesse generali del ragionamento. Una volta sancito che un tale ufficio è meno efficiente rispetto all’ufficio più produttivo, infatti, restano da stabilire almeno due cose: in primo luogo, occorre verificare se la migliore prestazione rilevata (il benchmark relativo) sia effettivamente la migliore possibile (anche il più produttivo tra gli uffici considerati potrebbe essere, in realtà, inefficiente). In secondo luogo, la constatazione di inefficienza tecnica relativa a carico di un ufficio o di un’azienda pubblica, a rigore, non ci dice nulla riguardo alle cause.
Per il primo punto continua a rilevare la questione della non conoscenza a priori della funzione di produzione. Del resto, secondo una vecchia battuta che circola tra gli economisti, la funzione di produzione la conoscono solo Dio e gli ingegneri.
Per quanto riguarda il secondo punto, invece, si ritorna alla questione del nesso causale sottostante al ragionamento di Ichino. L’inefficienza (relativa) di una qualsiasi unità organizzativa della Pa può dipendere da molteplici fattori: cattiva organizzazione, carenze di direzione e coordinamento, una inefficiente combinazione degli input, la scarsa produttività unitaria degli input. Solo questi ultimi due fattori hanno a che fare con le questioni sollevate da Ichino: ci può essere una pletora di lavoro pubblico, eventualmente sostituibile con risorse capitali, oppure un problema di scarsa (o addirittura negativa) produttività dei singoli, da licenziare e, nei casi di produttività bassa ma non negativa, da sostituire con elementi maggiormente produttivi. Anche nel caso di un’osservata scarsa produttività unitaria del lavoro, poi, occorre verificare quali ne possono essere le cause, alcune non dipendenti dall’impegno del lavoratore: la carenza di formazione, a esempio, o di motivazione, dovuta a difetti di direzione o a fenomeni di sottoutilizzazione, e così via.

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Solo casi eclatanti?

Ma è proprio questo il problema di misurazione più arduo da risolvere. Non solo mancano tecniche sperimentate, ma diventa soprattutto difficile avere una base di dati attendibile sulla produttività del singolo lavoratore pubblico perché intervengono i noti problemi di asimmetria informativa e altre questioni, già toccate dall’intervento di Daveri.
La questione è già stata sollevata e Ichino ha risposto che «Qui parliamo di “valutazione”, nel senso che la parola assume sul piano giuridico: niente a che vedere con la misurazione. Per qualsiasi lavoro si può esprimere una valutazione circa la sua utilità rispetto agli scopi dell’istituzione o rispetto a un’attività aziendale. […] D’altra parte, qualsiasi lavoratore, anche l’ultimo degli uscieri, può esprimere una produttività negativa, per esempio rubando, o molestando le colleghe, o tenendo altre attività illecite nel luogo di lavoro».
Se sono questi i casi a cui si punta, però, ci sfugge la portata stessa della proposta: si tratta, cioè, di casi eclatanti di malversazione e frode nei confronti dell’erario, a volte addirittura con risvolti penali rispetto a terzi. C’è bisogno di una Authority nazionale per “valutarli” e quindi sanzionarli? E, per quanto possano verificarsi fenomeni di questo tipo, siamo sicuri che il generale e sentito problema dell’inefficienza della Pa italiana sia risolvibile, o anche solo significativamente attenuabile, grazie all’eliminazione dei casi estremi?
Questi comportamenti vanno comunque sanzionati per il danno, non solo pecuniario, che generano all’erario e nei confronti di terzi privati, e non perché siano causa di inefficienza dell’azione pubblica. E per individuarli l’aneddotica è sufficiente. Ma non è necessaria l’Authority: bastano le altre interessanti e sensate proposte di riforma che il disegno di legge presentato da Ichino contiene, come la limitazione della responsabilità civile dei dirigenti amministrativi e la costruzione di un sistema di incentivi e disincentivi più efficace.
Per quanto riguarda la parte di misurazione e valutazione dei fenomeni di inefficienza e delle loro cause, invece, senza fare ricorso a strutture straordinarie costruite ad hoc, basterebbe cominciare con un serio lavoro di indagine conoscitiva sulla Pa, che consideri la varietà di strutture organizzative e la consistenza degli organici, le tipologie contrattuali, le competenze professionali presenti, i metodi di programmazione del fabbisogno, le attività di formazione e l’uso delle procedure di mobilità. Il tutto con riferimento all’attuale quadro istituzionale in continua transizione verso il regionalismo. Da un’analisi di questo tipo potrebbero scaturire risultati (apparentemente) sorprendenti, come il fatto che, a esempio, gli organici non sono necessariamente e ovunque sovradimensionati, soprattutto negli enti locali, dopo anni di applicazione del blocco del turn-over e del Patto di stabilità interna.

* Queste note sono state predisposte da ricercatori attualmente impegnati nel progetto di ricerca Sisper (http://sisper.istat.it), finanziato dal Dipartimento della Funzione pubblica e in corso di svolgimento presso l’Istat. Le opinioni sono espresse a titolo puramente personale e non impegnano in alcun modo gli enti citati.

(1) Probabilmente lo pensa anche Pietro Ichino, visto che nel suo progetto assegna alla Authority precisi compiti di valutazione.

Più pubblica o più privata? di Bruno Dente

Di pubblica amministrazione si è tornati a parlare. E questo è un bene, dal momento che gli ultimi cinque anni hanno visto un po’ l’eclissi del tema (ai Giannini, Cassese e Bassanini sono succeduti i Mazzella e i Baccini che certo non hanno lasciato tracce significative nell’opinione pubblica).
E tuttavia i modi in cui se ne è tornati a parlare sono deludenti, non solo per il merito delle proposte avanzate, quanto soprattutto per il fatto che sembrano ignorare, forse volutamente, il dibattito scientifico sviluppato a livello internazionale e tutto sommato anche l’esperienza italiana. Si può pensare tutto il male possibile del New Public Management e del dibattito sulla governance, per non parlare delle iniziative dell’Oecd. Ma, almeno, bisognerebbe tenere conto della direzione in cui sta andando la riflessione.

L’inefficienza non è generalizzata

Un primo esempio, ampliando le riflessioni già avanzate dal gruppo di lavoro Sisper, riguarda la questione dell’efficienza della Pa. Siamo sicuri che essa sia così bassa in modo generalizzato? Molti dati sembrano suggerire il contrario. L’esempio dell’indagine Pisa è da questo punto di vista eclatante: i livelli di apprendimento degli studenti italiani sono sì bassi, ma sono soprattutto estremamente differenziati tra un Centro e un Nord nei quali appaiono assolutamente in linea con le medie europee, e un Sud in cui sono molto al di sotto. Poiché il rapporto di lavoro degli insegnanti, il loro sistema di incentivi, le garanzie di cui godono, sono uniformi a livello nazionale sorge il sospetto che le strategie di riforma proposte da Pietro Ichino , e forse anche da Tito Boeri e Giuseppe Pisauro (ma qui il discorso sarebbe più lungo) siano inadeguate, proprio perché non tengono conto dei fattori che quei dislivelli generano. E lo stesso vale per l’università (si vedano i dati sulla valutazione studentesca o la analisi dell’employability fatta da Alma Laurea), per la sanità (dove la valutazione è sistematicamente più alta tra gli utenti che nella cittadinanza), per moltissimi servizi locali. E si potrebbe continuare con molti altri esempi.
Ciò non significa che non siano possibili recuperi di produttività, sarebbe demenziale affermarlo. E nemmeno che essi non potrebbero avere benefici effetti sulla spesa pubblica, ma le soluzioni proposte non sembrano in grado nemmeno di scalfire il problema.

La domanda da porsi

In realtà, la domanda che bisognerebbe porsi è la seguente: le pubbliche amministrazioni “non funzionano” perché a esse si applicano regole diverse da quelle con cui operano le organizzazioni private, oppure perché la sostanziale differenza delle missioni e dei contesti richiederebbe regole ancora più differenti? Come tutte le buone domande, non ha una risposta né semplice né ovvia, tanto è vero che grandissimi studiosi – per tutti: Sabino Cassese – hanno anche recentemente sostenuto che l’applicazione dei principi di totale flessibilità al rapporto di lavoro dei manager pubblici configge con l’imparzialità e il buon andamento previsti dalla Costituzione.
E tuttavia la strada seguita negli anni “di Bassanini” in Italia, e in buona parte dei paesi occidentali almeno a partire dal 1980, è andata nella direzione opposta, nel tentativo di uniformare le regole tra settore pubblico e settore privato, per quanto attiene al rapporto di lavoro e al funzionamento dell’organizzazione. Così ad esempio la non indipendenza degli organi di controllo interno, lamentata da Ichino e Paderni, non è una mancata attuazione del decreto 286/1999, ma costituisce un obiettivo esplicitamente perseguito, proprio per riportare l’attività di analisi della performance, il controllo di gestione e la valutazione dei dirigenti, al loro significato “normale” in tutte le organizzazioni “normali”: quello di essere strumenti nelle mani dei dirigenti per lo svolgimento delle loro normali attività. Il tutto basato sull’osservazione, abbastanza naturale dopo Tangentopoli, che più di cento anni di controlli esterni indipendenti non sembravano essere stati particolarmente efficaci né nell’impedire fenomeni degenerativi, né nell’assicurare un’efficienza media accettabile. E che, se il settore privato è più efficiente di quello pubblico, forse ciò avviene anche perché le regole sulla base delle quali esso funziona sono più adeguate.

Condizioni necessarie

Ovviamente questa scuola di pensiero, dominante in tutti i paesi sviluppati, ritiene che la rimozione dei vincoli (la contrattualizzazione dei dipendenti, l’omogeneizzazione dell’orario di lavoro, l’abolizione dei controlli esterni, l’uso generalizzato degli strumenti del diritto privato, la separazione organizzativa tra attività di indirizzo e attività di gestione, la piena assimilazione delle modalità di nomina dei vertici amministrativi a quelle dei top manager privati, eccetera) non è condizione sufficiente per il miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia. Se politici, funzionari e clienti sono d’accordo nel non spingere in questa direzione, c’è ben poco che si possa fare per legge. Tuttavia, chi scrive riteneva allora e continua a ritenere, con il conforto di qualche osservazione empirica, che era ed è l’impostazione corretta, e che abbia consentito, nei molti luoghi delle pubbliche amministrazioni italiane dove c’erano la volontà e le risorse per farlo, di migliorare significativamente efficienza ed efficacia dei servizi, soprattutto attraverso la migliore trasparenza delle responsabilità per successi e fallimenti. In altre parole, si trattava di condizioni necessarie per consentire il dispiegamento delle potenzialità presenti nei sistemi.
Altro discorso ovviamente è se questo disegno sia stato perseguito con la necessaria coerenza, se siano state messe in campo le azioni necessarie per intervenire nei punti di crisi, se le persone preposte a tutti i livelli siano state all’altezza delle nuove responsabilità attribuite, eccetera.
Però in quegli anni abbiamo imparato due cose: che non esiste “la pubblica amministrazione”, ma tanti diversi servizi pubblici con diverse esigenze e condizioni di contesto, e che i principi prevalenti a livello internazionale sono applicabili anche in Italia. Dispiace un po’ che tali fondamentali insegnamenti corrano il rischio di andare perduti.

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21 commenti

  1. Mauro Molari

    Non sono un dipendente pubblico, ma spesso, per motivi di lavoro, ho a che fare con la pubblica amministrazione. Spesso ci si scontra con una macchina inefficente e strangolata dalla burocrazia. La soluzione sembrerebbe semplice: “più autonomia ai dirigenti e possibilità di licenziare chi se lo merita”. Questa è la soluzione più in voga nella stampa di questi giorni. Non si tiene conto di due fattori: il dipendente pubblico non è tutelato come sembra, ma è tutelato solo se amico, parente, compagno, ecc di qualche politico, dirigente, ecc. Non a caso il fenomeno del mobbing è prevalentemente presente nella pubblica amministrazione. Una maggiore autonomia dei dirigenti, accentuerebbe questo fenomeno, e agevolerebbe queste persone per incentivare e promuovere i loro “amici”. Il vero problema è la cultura “mafiosa” che si sta instaurando nel paese e anche e soprattutto nella p.a. Questa cultura si regge tutta su scambio di favori, scambio di poltrone e appartenenza al “Sistema”. Questo sistema ogni tanto si scontra con delle regole, che non riesce a scavalcare, ed è per questo che chiede a gran voce “Autonomia e Meritocrazia”. Per risolvere questo problema occorrerebbe il rispetto delle regole e delle leggi che ci sono già, ha partire dalle cariche più alte della Repubblica, fino ai funzionari che ci amministrano. Anche i cittadini sono corresponsabili di questa situazione: quante volte a ciascuno di noi può presentarsi l’opportunità di una scorciatoia e quante volte siamo capaci di rinuciarvi.

  2. carmelo lo piccolo

    Concordo perfettamente con l’intervento del Prof. Ichino, ma rivolgo la seguente domanda: perchè la Dirigenza Pubblica, malgrado il massiccio aumento in termini reali delle retribuzioni percepite, non esercita i poteri e le funzioni che già le leggi e le norme contrattuali esistenti conferiscono ad essa? E’ sempre colpa delle intereferenze della Politica oppure non siamo di fronte ad una inadeguatezza culturale e antropologica che nessuna Authority potrà eliminare o attenuare? Perchè anzichè di attaccare il Sindacato non si pretende che esso faccia veramente il Sindacato, e anzichè affidarsi ad improbabili “associazioni di utenti” lo si investa formalmente dell’incarico di promuovere le procedure per l’osservanza di norme e contratti che sono strapieni a parole di termini come “efficienza” , “efficacia”, “trasparenza”, qualità dei servizi, “misurabilità delle prestazioni” e via ciarlando?

  3. pasqualeandreozzi

    Bisogna dire, cosa che ichino fa di sfuggita, che la PA riesce a contenere lo sfascio e funzionare, un pò, proprio perché tutti i giorni migliaia e migliaia di dipedenti pubblici affrontano una tremenda sfida: lavorare in modo efficiente, e il bello è che ci riescono, un pò.
    io sono iscritto al sindacato e ne sono anche rappresentate (come si dice, ci credo ancora) ma non posso nascondere la fondatezza dei rilievi di ichino, però temo che l’autorità che egli propone si trasformi in un organismo, come molti, che periodicamente denuncia a mezzo stampa e sforna rapporti. è difficile ammetterlo per me, ma nella PA mancano incentivi e sanzioni, manca la volontà di essere impopolari
    il sistema non ha alcuna capacità di reazione di fronte a dipendenti decisi a non lavorare, o peggio, ad ostacolare o bistrattare l’utente.
    e, ahimé, troppo spesso, il sindacato (ma anche qui sarebbe meglio distinguere) accetta acriticamente la loro difesa e quando proprio sono indifendibili, cerca con le varie amministrazioni una soluzione, sottovalutando la domanda di serietà che proviene dagli stessi escritti ai sindacati e con inevitabili contraccolpi sulla qualità della rappresentanza del Pubblico impiego.

  4. giuseppe costa

    D’accordo su quasi tutto, compresa l’estensione della cultura e della pratica della valutazione a tutti i dipendenti pubblici, a partire dalla dirigenza, dalla quale far discendere il sistema sanzionatorio e premiale, sia in termini retributivi che di carriera. Non mi pare invece fondata l’asserita equivalenza di dotazione di poteri fra dirigente pubblico e privato. Lo spoil-system, il rapporto collusivo governo/sindacati (vedi Memorandum), i numerosi strumenti d’interdizione e le incursioni delle statuizioni contrattuali nel campo delle prerogative costitutive della funzione dirigenziale, hanno svuotato del tutto l’autonomia del dirigente nella gestione delle risorse strumentali e umane. E’ rimasta soltanto una figura cui comodamente imputare, spesso senza conseguenze, la responsabilità nominale. Occorre quindi uno statuto del dirigente pubblico, approvato con legge in cui i poteri, l’autonomia e la responsabilità siano garantiti sia rispetto alla politica sia da contrastanti accordi sindacali. Ritengo che sia il dirigente, nella pienezza dei suoi poteri, la figura responsabile su cui far leva per ogni prospettiva di modernizzazione della P.A., unitamente all’attribuzione del diritto di voce agli utenti dei servizi pubblici come riconosciuti e influenti stakeholders.

  5. Fabio Pancrazi

    Prof. Ichino, non focalizzi un dibattito populista dicendo che, nel pubblico, l’interesse veramente prioritario è l’interesse dei dipendenti che prevale su ogni altro. Sa benissimo che l’interesse prioritario è l’interesse degli amministratori (i politici) e dei loro amici. Nelle amministrazioni pubbliche poi il tasso di effettività della legge è determinato sempre da chi ha la potestà legislativa e regolamentare. Nell’Ente dove lavoro, centrosinistra prima e centrodestra ora, si avvalgono molto del “regolamento di disciplina” ma solo con i “dissidenti”, non con i fannulloni che, in genere, sono anche piaggiatori che descrivono gli altri come nullafacenti. Fortuna io lavoro e non rubo, per questo non vengo licenziato. Non proponga il facile licenziamento, per cortesia! Magari l’opzione voice, “la pagella dei cittadini” sì. Magari l’elezione dello sceriffo come negli Stati Uniti e non la scelta politica del dirigente che leghi il somaro dove vuole il suo padrone! Si è domandato come mai nessuno ambisce a fare l’assessore alla Polizia Municipale ma all’Urbanistica? Il gettone è lo stesso! Per me non è un circolo vizioso, è un circolo a senso unico: s’inventano sempre più baracconi con poltrone per politici e politicanti come non bastassero gli “Ambiti territoriali ottimali” con consigli di amministrazione, le società “finte private” con altri consiglieri di amministrazione nominati tra loro, consulenze, ecc. per “gestire” l’acqua, i rifiuti, l’energia, addizionali varie e chi più ne ha più ne metta! Per punire un singolo dipendente o interrompere un incarico al dirigente non occorre un’Autorità speciale! E non è vero che nel pubblico impiego non viene licenziato nessuno: domandatelo al nostro ex ingegnere dell’Ufficio Tecnico di Sansepolcro (Ar)! Cacciato dopo due anni di lavoro e sostituito con il terzo o quarto qualificatosi al vecchio relativo concorso! Occorre un’Autorità che rieduchi al valore dei beni collettivi!

  6. Luigi Giannitrapani

    Leggendo l’articolo del Prof. Ichino in merito alla più che giusta iniziativa di istituire una Autorità indipendente che valuti l’efficienza dei vari enti della PP AA (ma quando la smetteremo di chiamarla Amministrazione e non come si dovrebbe Gestione – non è soltanto un fatto semantico ma anche di contenuti), vorrei chiedergli se l’esperienza inglese della Audit Commission, che periodicamente valuta tutti gli enti pubblici di quella nazione, dai comuni, agli ospedali ai tribunali!!!! E che poi mette in rete i risultati in modo facile, da leggere, comprensibile a tutti, la ritenga utile anche per il nostro paese o no. Invece di re-inventare ogni volta la ruota, basterebbe copiare (bene) quello che fanno gli altri, sarebbe più facile e più veloce.
    Grazie e complimenti

  7. Stefano D.

    Il dipendente pubblico assenteista e nullafacente è uno dei problemi più gravi che, a mio avviso, affliggono il nostro sistema sia da un punto di vista economico che morale. Si perchè moralmente vengono offese regolarmente tutte quelle categorie che vengono messe sulla graticola, nel nome della produttività e della concorrenza. Però vorrei aggiungere che c’è una precisa volontà politica per mantenere questo sistema che rappresenta un serbatoio voti rilevantissimo. Sbaglio? Allora per rompere il circolo vizioso, probabilmente bisognerebbe fare qualcosa di più importante, forse salire un po’ nella scala delle responsabilità, coinvolgendo i politici, ma anche i mass-media in tutto ciò. Avete presente l’indagine dell’Espresso sui privilegi degli onorevoli? Quali quotidiani o TG ne hanno parlato? Praticamente nessuno. Ecco questo dà, a mio avviso, l’esatta dimensione del problema. La partita si gioca tra pubblico dipendente, Pubblica amministrazione, partito politico, sindacato. Chi è il più forte e il più debole?

  8. Panus

    Sono uno che lavora da oltr trnt’anni in una P.A.
    Il Prof. Ichino dimostra di conoscere a fondo il meccanismo che regola le pubbliche amministrazioni italiane, ed esprime benissimo anche il risentimento di quei “lavoratori buoni di cuore e volenterosi” che, di fatto, portano avanti il lavoro negli enti pubblici. La verità è che chi lavora poco ha anche il tempo di ungere gli ingranaggi e, quindi, di fare carriera. Per cui ci ritroviamo con dirigenti e funzionari al massimo della mediocrità.
    Cosa fare? Nemmeno il Prof. Ichino, sembra avere le idee chiare. L’Autority? Ben venga, ma non risolverà i problemi. Bisognerebbe eradicare a fondo l’attuale corpo del personale e sostituirlo con uomini e donne preparati e motivati. Ma le assunzioni dovrebbero essere limpide ed effettuate attraverso severi concorsi. Inoltre, bisognerebbe diffondere la cultura della pubblica amministrazione, creando anche scuole ad hoc.
    Fin quando il posto pubblico sarà un ripiego e un rifugio per persone mediocre, ma super raccomandate, i problemi non si risolveranno. Ma sarà possibile assumere gente preparata con i politici (di destra e di sinistra) che abbiamo? Il Prof. Ichino non può eludere il problema politico, ha ragione quel lettore che addossa le colpe alla politica: un dirigente pubblico e un dipendente pubblico mediocri saranno più fedeli e manovrabili di qualsiasi persona seria e competente. Del resto la cultura della pubblica amministrazione nemmeno nei politici sembra albergare. Sono i primi, questi, ad avere tutt’altre mire piuttosto che l’efficienza e la produttività della macchina burocratica.
    Il problema è difficile, bisognerebbe affrontarlo coi bisturi.

  9. Ugo Fiore

    La coincidenza dei poteri sanzionatori è forse l’unico parallelo possibile tra pubblico e privato. Ben diversi sono gli strumenti incentivanti, molto lontane le retribuzioni, abissalmente differenti i meccanismi di reclutamento. Il dirigente privato che assume persone inadeguate ne paga in prima persona le conseguenze. Nel pubblico c’è il rito-farsa del concorso e francamente non mi è chiaro perché per i selezionati si ventili la pena estrema del licenziamento nel momento in cui ai selezionatori si consente di restare indenni.

  10. Gaetano Criscenti

    Credo che sia paradigmatico quanto espresso ,in una intervista, il segretario confederale UIL Angeletti a proposito della invadenza dei sindacati in Alitalia : egli ha asserito che finchè l’azionista di riferimento è pubblico, si sa, è estremamente sensibile e fin troppo disponibile ai desideri dei sindacati, ma che in persenza di un soggetto privato è certo dell’instaurarsi di relazioni sindacali serie e simili a quelle dell’industria, rompendo così il circolo vizioso Sindacati-politici-soldi pubblici-base elettorale!
    Spezzare questo circolo vizioso è fondamentale per lo Stato Italiano, uno Stato che vede nella riforma della pubblica amministrazione e nel recupero d’efficienza , anche una incredibile leva di risparmio ed una fortissima possibilità d’avviare un processo di legalizzazione della società Italiana dal basso. Che siano interamente responsabili i dirigenti degli uffici, che il loro operato si valuti dalle performance d’efficienza e dalla adesione alla “mission” originale dell’ufficio -che deve essere sempre rivolta al servizio dell’utente finale, il cittadino – e che sia così premiato o punito, assieme a tutto il suo ufficio , sia da un punto di vista economico, sia dal punto di vista della carriera, sia dal punto di vista di risorse pubbliche destinate agli investimenti.
    Vorrei sottolineare un aspetto del problema , finora, a mio parere no ben evidenziato: bene l’autorita che controlli l’indipendenza dei nuclei di valutazione, ma il grande problema è :” chi assegnerà alle singole amministrazioni, fino ad arrivare ai singoli uffici, gli obbiettivi da raggiungere? Chi stabilirà come e cosa son da sottoporre a valutazione? Se si lascia al singolo dirigente, od a commisiioni interne alle varie amministrazioni, avremo una caduta verso il basso degli obbiettivi da raggiungere, ed otterremo lo stesso risultato che oggi già abbiamo: sono tutti bravi e premiati!

  11. luigi oliveri

    Il professor Ichino pone corretti problemi. Sia consentito rilevare che non altrettanto convincenti sono le soluzioni proposte.
    Un’authority indipendente nominata dalla politica è un ossimoro. Non ci crede nessuno. Se creata, farà esattamente la stessa fine dei nuclei di valutazione.
    Ha ragione il Sisper. Ma è anche condivisibile l’intervento ultimo di dei professori Boeri e Garibaldi.
    La “valutazione” è spesso autoreferenziale, utile a erogare compensi, sotto la copertura dei contratti.
    Non si è riusciti a comprendere che la pubblica amministrazione è un concetto incommensurabile a quello dell’azienda privata. Il privato conosce fattori di produzione e di costo, perchè le linee produttive sono verticali. Un comune è un’azienda che produce decine di funzioni e prodotti diversi. Qualsiasi privato fallirebbe un mese dopo, se ci provasse. O spacchetterebbe i servizi, in mille società coperte da holding.
    Privatizzare nei paesi anglosassoni, dove l’amministrazione svolge maggiormente funzioni di regolazione e controllo ha un senso. In Italia si ha da tempo la sensazione che prendere di peso strumenti e calarsli in realtà diversissime possa risolvere problemi. In realtà li lascia aperti come e più di prima. E aumentano i poteri della politica, che nomina nulcei, authority, dirigenti. E con i sindacati “briga” per stipulare memorandum che con l’efficienza della p.a. hanno veramente poco a che vedere.

    • La redazione

      Quando si parla di “indipendenza dalla politica” si intende indipendenza dalla parte o coalizione politica che è al governo. Questa indipendenza ben può essere garantita dal vincolo per cui la scelta deve essere compiuta con
      il voto favorevole di due terzi del Parlamento (o, ai livelli inferiori, del Consiglio regionale, di quello comunale, ecc.). Questa è la tecnica normativa con cui si garantisce, per esempio, l’indipendenza dei giudici costituzionali. Quanto al pessimismo di Luigi Olivieri circa la possibilità
      di un organismo realmente indipendente dal Governo, osservo che il panorama internazionale è ricco di esperienze di questo genere. Nel campo del controllo di efficienza delle amministrazioni pubbliche si può fare l’esempio della Auditing Commission britannica. Perché da noi questo non
      dovrebbe essere possibile? D’altra parte, dove non sia possibile introdurre il controllo del mercato, quale altra scelta ci è data se non quello di stimolare la capacità di autovalutazione delle amministrazioni, garantirne
      la massima trasparenza e sottoporla al controllo più penetrante possibile della cittadinanza? (p.i.)

  12. Maria Clavarino

    La mia esperienza di lavoro è stata prevalentemente nel settore privato e quella di utente è prevalentemente nel settore pubblico. Da utente posso rispondere alla domanda di Bruno Dente che la qualità dei servizi non è bassa in modo generalizzato. I servizi privati che superano quelli pubblici sono quelli animati da valori immateriali che spingono a dare il meglio di sè. Gli enti privati animati solo dal desiderio di profitto e di notorietà hanno gli stessi problemi (o ne hanno di peggiori) di cui stiamo dibattendo a proposito degli enti pubblici.
    Dunque un cambiamento nella cultura è senz’altro necessario e urgente.
    Peraltro, in questa sede, si sta commentando un progetto di legge: le leggi non possono ideare contenuti culturali, ma possono costituire un ambiente più o meno favorevole alla loro promozione.
    Mi pare che l’ attività degli organi di controllo proposta da Pietro Ichino, e soprattutto la loro indipendenza, possano costituire delle buone premesse per incoraggiare la buona fede sia dei dipendenti che degli utenti.
    Il fenomeno segnalato da Pancrazi del mobbing e il fenomeno segnalato da Panus del reclutamento di soggetti mediocri, facile base del gruppo di potere, è presente anche nel settore privato,dove però viene contrastato dal più frequente avvicendamento dei gruppi di potere, indipendenti l’uno dall’altro.
    L’indipendenza degli organi a cui viene affidato un potere, sia esso manageriale o di controllo, è il presupposto perchè non si formino circoli viziosi.
    Per quanto riguarda l’aspetto della troppa politica presente negli organismi pubblici, l’incoraggiamento dell’opzione voice di cui parla il prof. Ichino è una strategia che da un lato può influire proprio sul piano politico e dall’altro può dare al cittadino maggiore fiducia nella sua relazione con le strutture pubbliche.

  13. carmelo lo piccolo

    L’intervento del SISPER è a mio avviso importante, perchè permette di cogliere, dal punto di vista matematico – statistico, il cuore del problema: come si misura in una Pubblica Amministrazione il tasso di produttività in assenza dei meccanismi economici che portano alla determinazione del prezzo di mercato e in assenza di una compiuta ed univoca parametrazione della funzione di produzione?
    Il SISPER contribuisce a chiarire che i termini “produttività” e “misurazione”, nel Pubblico Impiego, non possono essere intesi in senso economico, cioè con gli strumenti propri dell’analisi statistico – econometrica che portano alla formalizzazione matematica di una funzione di produzione, bensì in termini giuridici, cioè di non conformità a prescrizioni di tipo normativo, quali sono le norme legislative e quelle contrattuali.
    Se di questo si tratta, appare ovvio e scontato l’inefficacia di strumenti quali le Authority, che, a parte tutte le riserve in materia di effettiva indipendenza ed imparzialità, da condividere in toto, non possono caricarsi l’onere della cosiddetta “valutazione” di ambiti diversissimi, (un conto è la “nullafacenza” in un ente locale, ben altro conto in una scuola o in un ospedale!). Occorre invece responsabilizzare la Dirigenza attraverso un effettivo sistema non autoreferenziale di controllo delle prestazioni, e motivare il resto dei dipendenti con adeguate politiche di formazione e avanzamento di carriera, legando quest’ultima alla professionalità concretamente dimostrata in ufficio e “misurata” da soggetti esterni (utenti, associazioni, ecc.) anzichè al semplice possesso del titolo di studio, che di per sè non significa assolutamente nulla, costituendo una semplice “presunzione relativa” di professionalità, che dovrebbe ammettere la prova contraria ( tra un dipendente diplomato che rende e lavora ed uno laureato che non sa fare e non vuole fare niente, chi dovrebbe andare avanti?).

  14. luigi oliveri

    Il Professor Pietro Ichino ha messo il dito sulla piaga di una serie di storture del mercato del lavoro, pubblico e privato, in Italia.
    Le minacce delle BR non devono e non possono impedirgli di proseguire in un’opera di revisione dell’ordinamento, finalizzata alle riforme necessarie per il Paese.
    Il minimo che si possa fare è esprimere solidarietà al Professore, e chiedergli di continuare nella sua opera.

  15. Coppola

    Ho già avuto modo di scrivere, apprezzare, criticare il prof. Ichino e di ricevere da lui un commento, e di questo personalmente lo ringrazio. Dopo quello che è successo colgo l’occasione, forse in una sede impropria, ma vigorosa in termini di democrazia, di esprimere da parte non di un sindacalista, di un pubblico dipendente, ma di un cittadino italiano la mia più profonda gratitudine all’uomo e all’onestà intellettuale che esso rappresenta!
    Vada avanti

  16. Vitali

    Se i dirigenti potessero assumere direttamente il personale (come avviene nel privato) e se i governanti non avessero colluso negli anni ’90 con le forze sindacali (CGIL in testa) per tenere in scacco la pubblica amministrazione, la tesi del prof. Ichino sarebbe corretta.
    Personalmente penso che la vera responsabilità dell’inefficienza del personale della pubblica amministrazione (nessuno escluso) sia da imputare proprio alle collusioni tra governo e sindacati ; collusioni che hanno determinato:
    – normative talmente farragginose e inapplicabili da fare rimpiangere il vecchio rapporto (antecendente al 1992) tra amministrazione pubblica -dipendenti e
    – contratti di lavoro che mettono al centro non l’efficienza e l’efficacia del servizio pubblico, ma esclusivamente gli interessi dei singoli lavoratori
    Forse allora si può capire perchè i dirigenti , se possono, scappano dalla pubblica amministrazione….
    Vitali

  17. Fabio Pancrazi

    Vorrei aggiungere: vi ricordate un servizio di Report su Raitre? Sui ricercatori italiani?
    L’ingegnere trentenne con un serio curriculum, pubblicazioni, ecc. che il professore “barone” del Politecnico di Torino rifiutò perchè:”I miei collaboratori li scelgo da me!” Preso invece all’istante da una università svedese, con uno stipendio triplo di quello che avrebbe percepito a Torino, casa gratis e nominato “professore ordinario” di quella università (carica che in Italia viene raggiunta dai più “fortunati” verso i 50 anni d’età! E tanti esempi simili di merito assolutamente non riconosciuto. Non credo ad un’authority Zorro!

  18. Antonio Mario LORUSSO

    La Professoressa XY chiede al Liceo presso il quale presta servizio due giorni di congedo parentale ai sensi del D. Lgs. 151/2001.
    Il Liceo, poiché la professoressa ne ha già usufruito per 34 giorni, dispone, con apposito atto, la riduzione del trattamento economico del 70%.
    Il liceo trasmette l’atto e la documentazione giustificativa alla competente Ragioneria Provinciale dello Stato per la “verifica di legalità della spesa”, ex art. 9 del DPR 38/1998. E una copia dello stesso la invia alla Direzione Provinciale dei Servizi Vari, che gestisce la partita di stipendio, per la variazione del trattamento economico.
    La Direzione provvede al data-entry del periodo d’assenza nel proprio sistema informativo, Service Personale Tesoro (SPT), contestualmente quantificando il debito in circa 50,00 € e disponendone il recupero.
    La Ragioneria esamina l’atto e, qualora riconosca la legalità della spesa, provvede, a propria volta, al data-entry del periodo d’assenza nel suo sistema informativo, Funzioni Uffici Locali (FLU). Restituisce quindi al Liceo l’originale, debitamente annotato degli estremi della registrazione, con la documentazione.
    La Ragioneria ancora, ma a volte vi provvede anche il Liceo, trasmette un’altra copia dello stesso atto annotato alla Direzione a conferma di quello a suo tempo già trasmessogli.

    Quello descritto è ancora oggi l’ordinario iter di un atto riguardante il personale. Un atto semplice, dovuto e che non comporta nessuna discrezionalità.

    In un siffatto contesto organizzativo e in mancanza di una riorganizzazione dell’Amministrazione per missione, ogni misurazione o valutazione della produttività del singolo lavoratore é vana perché rimarrà sempre la improduttività del sistema.
    E poiché siamo in materia di personale, si può soggiungere che la stessa norma contenuta nella finanziaria 2007 che dispone la riduzione del personale di supporto rischia di essere vanificata.
    Distinti saluti

    Antonio Mario LORUSSO

  19. Enrico Gallina

    Condivido molto le parole del Prof. Ichino, in particolare : “se è lo stato stesso a violare la legge” . . Ma che dire di quando è lo Stato stesso a fare Leggi per consentire ai Dirigenti della PA (o della banche) di continuare a violare le Leggi?

    I Requisiti di Onorabilità sanciti dal Decreto18 marzo 1998, n. 161 del Ministro del tesoro ne sono un esempio lampante:
    “Le cariche, comunque denominate, di amministratore, sindaco e direttore generale in banche non possono essere ricoperte da coloro che:

    (omissis)
    3. sono reclusi per un tempo non inferiore a 1 anno per un delitto contro la pubblica amministrazione

    e qui mi fermo. Fa indignare la sola idea che si debba considerare ancora “onorabile” colui che si è macchiato di un delitto contro la Pubblica Amministrazione ma è stato recluso per “soli” 12 mesi meno un giorno!

    Prego il Prof Ichino di prendere in considerazione la mia proposta dell’Aprile 2006 (che invio separatamente alla redazione per motivi di spazio) di una Mozione di La Voce per chiedere al prossimo Ministro dell’Economia di proporre al Parlamento requisiti di Onorabilità più accettabili al buon senso e alla dignità dei cittadini italiani onesti.

    Enrico Gallina

  20. Carlo Maria Giorgio

    Ciò che è pressocché impossibile è trovare un ‘Authority’ imparziale, in quanto la corruzione, dovuta certamente a motivi politici, è massima ed irreversibile. I concorsi sono spesso una farsa, ma le nomine politiche per semplice chiamata sono ancora peggio. E’ impossibile guardare ad esperienza, anche positive, di altre nazioni perché sono culturalmente molto diverse. La maggiore carenza è l’onestà e il buon senso.

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