Mentre gli Usa introducevano sanzioni molto severe per colpire false informazioni e frodi nella gestione delle società commerciali, in Italia la riforma dei reati societari rendeva molto più difficile perseguire penalmente gli autori di simili reati. Anche la legge sulla tutela del risparmio non contiene nessuna significativa novità, se non un inutile aumento delle pene per gli illeciti penali e amministrativi. Serve invece una disciplina penale societaria ed economica ispirata a serietà ed equilibrio. Come ribadito dalla Corte di giustizia europea.

A tre anni di distanza dallo scandalo Parmalat si può tentare di tracciare un primo provvisorio bilancio sulla più recente politica criminale in materia economica. Il caso Parmalat, come si ricorderà, fu solo l’ultimo di una lunga catena di clamorosi episodi di criminalità economica che hanno contrassegnato, su entrambe le sponde dell’Atlantico, l’inizio del nuovo secolo, a partire dal più colossale di tutti, lo scandalo Enron.

La politica criminale in materia economica dopo gli scandali

Le reazioni legislative furono altrettanto clamorose, ma decisamente contraddittorie: mentre negli Stati Uniti, con il Sarbanes-Oxley Act del 30 luglio 2002, emanato a pochi mesi di distanza dal crack Enron, furono introdotte sanzioni severissime per colpire false informazioni e frodi nella gestione delle società commerciali, in Italia, pressoché contemporaneamente, veniva introdotta una riforma dei reati societari, il decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61, caratterizzata da una straordinaria indulgenza per la criminalità economica, con un affievolimento della reazione penale nei confronti delle falsità nei bilanci e nelle comunicazioni sociali spinta sino al limite della depenalizzazione di fatto. Riduzione generalizzata dei livelli sanzionatori, accorciamento dei termini di prescrizione, ulteriormente accentuato, a pochi anni di distanza, dalla riforma introdotta con la legge ex-Cirielli (1), ampio ricorso alla procedibilità a querela, postergazione dell’intervento penale all’effettiva verificazione di un danno patrimoniale per i soci e i creditori e, soprattutto, l’inserimento di soglie di punibilità quantitative per le false comunicazioni sociali, sono solo alcune delle più significative novità di una riforma che si muoveva tutta nel segno di una accentuata “patrimonializzazione” e “privatizzazione” della tutela penale, con tendenziale emarginazione delle esigenze di protezione degli interessi generali del mercato e dei risparmiatori.
In questo clima paradossale esplose lo scandalo Parmalat, che rese finalmente evidente, a un’opinione pubblica giustamente allarmata dalla gravità delle conseguenze degli illeciti societari, l’”insostenibile leggerezza” della politica di contrasto alla criminalità economica seguita dal legislatore italiano degli ultimi anni. A poco valeva sottolineare – come frequentemente si è udito affermare in quei giorni, a cominciare dall’allora capo del governo – che la riforma dei reati societari non poteva essere tacciata di responsabilità alcuna nell’esplosione dello scandalo Parmalat, in quanto la radice del dissesto rimontava a patologie gestorie verificatesi in anni sicuramente antecedenti.
Il punto, evidentemente, era ben altro, e cioè che la riforma rendeva straordinariamente più difficile perseguire penalmente gli autori di quelli e di consimili reati, tanto sul piano sostanziale – per la quantità e la complessità dei requisiti introdotti dal legislatore per la punibilità di tali illeciti – quanto sul piano processuale, per aver trasformato l’esercizio dell’azione penale e il conseguente accertamento giudiziario in una sorta di disperata corsa a ostacoli contro una prescrizione sempre più incombente e inesorabile.

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Il tormentato iter parlamentare della legge per la tutela del risparmio

Parmalat segnò dunque un punto di svolta, reso manifesto dai primi cenni di risposta legislativa, concretizzatasi nell’iniziale disegno di legge governativo per la tutela del risparmio, presentato nel febbraio 2004. (2) Sotto il profilo sanzionatorio risaltava l’accantonamento della linea “morbida” nei confronti degli illeciti societari, sostituita da un orientamento che potrebbe definirsi di “populismo penalistico”. Cavallo di battaglia della nuova politica di rigore avrebbe dovuto essere l’introduzione di un delitto di “nocumento al risparmio“, contrassegnato da una pena draconiana (reclusione da tre a dodici anni) e da contorni normativi assolutamente indefiniti: una autentica mostruosità giuridica, peraltro puramente simbolica e concretamente inapplicabile (oltre che palesemente incostituzionale), che nascondeva dietro l’apparente mano dura nei confronti della criminalità economica la reale volontà di non toccare la nuova disciplina del falso in bilancio e degli altri reati societari, che difatti da questo primo progetto governativo non venivano minimamente sfiorati.
Si trattava tuttavia di una iniziativa politicamente debole e di corto respiro, ben presto sovrastata, nel successivo e tormentato iter parlamentare della riforma, dal tentativo di costruire una soluzione politica bipartisan al problema di fornire nuove tutele giuridico-istituzionali agli interessi dei risparmiatori-investitori. Il nodo del falso in bilancio giunse ben presto al pettine e fu proprio su questo scoglio – oltre che sui ben noti problemi riguardanti la nomina e i poteri del governatore della Banca d’Italia – che si arenò definitivamente il testo unificato della legge per la tutela del risparmio votato dalla Camera nel maggio 2004, che avrebbe comportato una significativa “riforma della riforma”. (3) Il consenso inizialmente raggiunto in sede di commissioni parlamentari riunite venne difatti ben presto travolto dalla constatazione, assolutamente ineccepibile dal punto di vista dei fautori della riforma dei reati societari del 2002, che una svolta così radicale e clamorosa sarebbe equivalsa ad una sorta di implicita ammissione, da parte del legislatore, che l’unico scopo perseguito con la precedente normativa fosse quello di cancellare con un “colpo di spugna” (provocando l’effetto di una sorta di amnistia occulta) i procedimenti penali per i falsi in bilancio commessi in epoca anteriore al 2002 e non ancora giudicati con sentenza definitiva.

La legge per la tutela del risparmio e le questioni aperte

Si è giunti così, giusto un anno fa, al varo definitivo della legge per la tutela del risparmio (legge 28 dicembre 2005, n. 262), approvata dalla sola maggioranza.
Dal punto di vista penalistico, la montagna ha partorito un topolino: nessuna significativa riforma sostanziale, se non un generico e indiscriminato (ma fondamentalmente inutile) aumento delle pene previste per gli illeciti penali e amministrativi dei testi unici bancario e finanziario; conferma, nelle sue linee fondamentali, dell’assetto normativo uscito dalla riforma dei reati societari del 2002, con nulla più che un modesto maquillage delle norme chiave sul falso in bilancio, che si traduce in un insignificante aumento della pena massima prevista per la contravvenzione di false comunicazioni sociali ex articolo 2621 c.c. (da un anno e mezzo a due anni di arresto) e nella previsione di nuove sanzioni amministrative (peraltro in gran parte inapplicabili) per l’omonimo delitto di cui all’articolo 2622 c.c.; la novità della prevista introduzione della fattispecie di “nocumento al risparmio” viene nettamente ridimensionata e trasformata in una mera circostanza aggravante di quest’ultimo delitto.
I nodi fondamentali della schizofrenica politica penale in materia economica perseguita nel corso della XIV legislatura rimangono dunque assolutamente irrisolti e come tali si presentano in questo scorcio iniziale della nuova legislatura.
Vedremo dunque ben presto se la lezione del caso Parmalat avrà finalmente prodotto i suoi frutti anche sul terreno penale: sul piano giudiziario sono in corso procedimenti che non hanno forse eguali in Italia nella storia della criminalità economica, per il numero dei soggetti coinvolti (70mila costituzioni di parte civile ammesse in giudizio), nonché per il clamore provocato e le aspettative suscitate nell’opinione pubblica. Per la prima volta, le sanzioni potrebbero coinvolgere non solo le persone fisiche degli amministratori, dirigenti e sindaci delle società coinvolte in questo colossale dissesto, ma anche le società in quanto tali, in virtù della nuova disciplina della responsabilità “amministrativa” da reato delle persone giuridiche introdotta nel giugno 2001 (decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231) e finora non ancora applicata in maniera significativa dalla giurisprudenza.
Ma la risposta più importante è senza dubbio quella che dovrà fornire il legislatore, al fine di dare finalmente al nostro paese una disciplina penale societaria ed economica ispirata a serietà ed equilibrio e al passo con le più avanzate esperienze europee. In particolare, la richiesta di sanzioni “adeguate, efficaci e proporzionate” contro le falsità nei bilanci e nelle comunicazioni sociali, nell’interesse dei soci e dei terzi, è già stata solennemente enunciata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, con una fondamentale sentenza del 3 maggio 2005 (4), che – ben lungi dal salvare nella sostanza le scelte operate dal legislatore italiano del 2002 – afferma al più alto livello della giurisprudenza europea una serie di esigenze di tutela rilevanti per l’ordinamento comunitario – in materia di trasparenza e veridicità dell’informazione societaria – alla quale il nostro legislatore è chiamato finalmente a dare adeguata e tempestiva soddisfazione.

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(1)
L. 5 dicembre 2005, n. 251.
(2) Atti Camera, 16 febbraio 2004, n. 4705.
(3) Commissione riunite VI (Finanze) e X (Attività produttive, commercio e turismo), seduta del 5 maggio 2004.
(4) CGCE, Grande Sezione, 3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e altri.

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