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Dalla mitigazione all’adattamento

Il protocollo di Kyoto copre solo un periodo limitato di tempo e comunque prevede una riduzione delle emissioni che rimane largamente insufficiente. Ha costi immediati e benefici molto futuri. E il “post–2012” non è ancora stato definito con chiarezza. Molti ritengono che il cambiamento climatico sia ormai inevitabile. Tanto vale allora prepararci e adattarci alle sue conseguenze. E’ dunque opportuno integrare nel modo più efficace ed efficiente mitigazione e adattamento che offrono due soluzioni diverse, ma complementari allo stesso problema.

La percezione del problema costituito dall’esistenza di una influenza umana sul cambiamento climatico e della possibilità che questo possa originare conseguenze negative, se non catastrofiche, per molti aspetti della nostra esistenza, è sempre più acuta nell’opinione pubblica. Ciò richiede risposte adeguate e tempestive sia da parte della comunità scientifica che da quella dei decisori politici.
La ratifica del protocollo di Kyoto del 1997, avvenuta dopo lunghe e complesse negoziazioni solo nel 2004, comporta l’impegno cogente assunto dalla maggior parte dei paesi industrializzati di ridurre le emissioni di gas serra del 5 per cento rispetto ai livelli del 1990 nel periodo 2008-2012. Tuttavia, presenta altri aspetti altamente problematici. Anzitutto, investe solo un periodo limitato di tempo, il “post – 2012” non è ancora stato definito con chiarezza; prevede una riduzione delle emissioni che sebbene giudicata un “primo passo nella giusta direzione”, rimane comunque largamente insufficiente a limitare in modo consistente il cambiamento climatico; non coinvolge i paesi in via di sviluppo in un sostanziale sforzo di abbattimento; infine ha “perso per strada” importanti paesi industrializzati come gli Stati Uniti e l’Australia, attualmente ritiratisi dalle negoziazioni.

Perché ridurre le emissioni è così difficile

Come mai tante difficoltà? Essenzialmente le politiche di mitigazione, cioè quelle mirate a ridurre le emissioni di gas serra, vengono giudicate troppo costose.
Sebbene per i paesi sviluppati molti studi stimino i costi di Kyoto in pochi decimi di percentuale del Pil (1), si teme comunque la penalizzazione potenzialmente indotta sui settori energetico e industriale, o in generale sui prodotti esportati, che potrebbero divenire meno competitivi se gravati da tasse ambientali applicate unilateralmente. Per i paesi in via di sviluppo, invece, il pericolo è di vedere compromesse le possibilità di crescita nel momento in cui le loro economie dovessero farsi carico di addizionali costi imposti dall’abbattimento; soprattutto alla luce del fatto che storicamente meno hanno contribuito ad aumentare la concentrazione di gas serra nell’atmosfera.
Altri due elementi rendono poi poco appetibile politicamente la mitigazione. Anzitutto, ha un’efficacia di lungo periodo. Le forze inerziali del sistema climatico impongono lunghe transizioni (decine di anni) perché le minori emissioni di gas serra si trasformino effettivamente in riduzioni dell’innalzamento della temperatura terrestre. Pertanto, i costi di mitigazione sostenuti oggi daranno i loro frutti solo in un lontano futuro. Inoltre la riduzione delle emissioni ha la natura di bene pubblico puro: i suoi costi gravano specificamente su chi la attua, ma tutti poi possono godere dei benefici derivanti dalla riduzione della temperatura. Questo crea un incentivo a lasciar agire gli altri e beneficiare dei loro sforzi senza sopportare alcun costo (free riding).

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Dalla mitigazione all’adattamento

Per le crescenti difficoltà connesse alla concreta applicazione delle strategie di mitigazione, recentemente, sia in ambito scientifico che politico, è aumentato in modo consistente l’interesse per le strategie di adattamento. Possono essere definite come tutti quegli interventi, attuabili in modo preventivo o reattivo, volti a ridurre l’entità del danno qualora l’evento dannoso si manifesti.
Che vantaggi offre l’adattamento rispetto alla mitigazione? Anzitutto, la sua efficacia è molto più immediata. Adattarsi significa agire sugli effetti del cambiamento climatico, direttamente sul “danno che si manifesta” e non sulle sue cause. Non c’è quindi soggezione alle inerzie del sistema climatico. È poi più tangibile: la differenza tra la situazione di adattamento e quella di non adattamento è di facile percezione. Inoltre, i suoi benefici ricadono direttamente e prevalentemente su chi ne sopporta i costi. Ad esempio, se una comunità costiera sostiene i costi di un intervento di protezione dall’innalzamento del livello del mare, è anche la prima a goderne i benefici. Questo riduce grandemente il problema del free riding e incentiva all’impegno diretto.
C’è infine un quarto elemento estremamente concreto che porta a considerare l’adattamento come ineludibile. Anche ipotizzando che dall’oggi al domani fossero implementate politiche di mitigazione estremamente più aggressive rispetto a quelle di Kyoto, queste sarebbero capaci di ridurre la concentrazione di gas serra nell’atmosfera solo nel lungo periodo. Che di fatto aumenterebbe comunque almeno fino alla seconda metà del secolo. E nel frattempo noi resteremo esposti alle variazioni climatiche in atto.

I costi dell’adattamento

Ma quanto costano le politiche di adattamento? Purtroppo questo è un campo circondato dalla massima incertezza. Anzitutto non esiste “una” politica di adattamento, ma un vastissimo ventaglio di strategie che possono rientrare in tale categoria. Si va, per esempio, dalle opere di difesa costiera, alle politiche di vaccinazione o prevenzione di determinate malattie correlabili alle variazioni climatiche; dal ricorso alle assicurazioni contro gli eventi climatici estremi ai sistemi di previsione di medio termine dell’andamento delle produttività agricole che aiutano l’agricoltore a scegliere il timing ottimale di semina e raccolta.
A complicare il quadro si aggiunga che una stessa strategia di adattamento, prendiamo sempre ad esempio la protezione costiera, può assumere forme completamente diverse (dighe, ripascimento spiagge, desalinizzazione, eccetera) in base a caratteristiche morfologiche, ambientali, ma anche economiche, sociali e istituzionali del luogo in cui viene realizzata.
Non mancano comunque tentativi di quantificazione. Volendo riassumere differenti ricerche si può per esempio stimare che nel caso di 1°C di aumento della temperatura media mondiale da qui al 2050, i costi imposti da un adattamento totale ad alcune importanti categorie di impatto climatico come l’innalzamento del livello del mare (attraverso la protezione costiera), le variazioni nello stato di salute (attraverso prevenzione e cura), le variazioni di temperatura negli ambienti di lavoro e domestici (cambiamento nelle modalità riscaldamento-condizionamento) ed eventuali migrazioni (costi di ricollocamento) ammonterebbero a un totale 0,16 per cento del Pil mondiale nel 2050, nettamente inferiore ai danni evitati. In un contesto diverso, quello di determinare il grado di adattamento ottimale valutandone costi e benefici, altri studi stimano conveniente una spesa di circa lo 0,8 per cento del Pil mondiale da qui al 2100: potrebbe ridurre il danno climatico nello stesso periodo del 50 per cento. Ottenere lo stesso risultato ricorrendo alla mitigazione comporterebbe invece una spesa superiore del 40 per cento. (2)
Insomma, sebbene altamente speculative, tutte queste ricerche evidenziano come l’adattamento sia una strategia relativamente a basso costo per contrastare gli effetti negativi del cambiamento climatico. soprattutto, appare più efficace e quindi preferibile alla mitigazione.

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Solo adattamento?

Possiamo a questo punto concludere che debba soppiantare completamente la mitigazione? In realtà no. Anzitutto la capacità di adattamento di qualsiasi sistema, compreso quello socio-economico, ha dei limiti fisiologici. È quindi ragionevole supporre che ci sia una “quota” di danno, soprattutto quella potenzialmente derivante da eventi catastrofici, alla quale non ci si possa adattare. In questi casi, è pertanto necessario evitare di provocare il danno tout-court tramite la mitigazione.
In secondo luogo, la mitigazione offre per sua natura una soluzione permanente e complessiva al problema climatico, mentre l’adattamento è un “tampone” a “danni specifici” che può rivelarsi nel lungo periodo inadeguato, insufficiente o addirittura controproducente.
Infine, proprio per la natura locale e specifica delle strategie di adattamento, potrebbe essere difficile giungere a un loro coordinamento e finanziamento internazionale e quindi al loro concreto e diffuso inserimento nel complesso processo delle negoziazioni sul clima. Il problema è di particolare rilevanza per i paesi in via di sviluppo: sono maggiormente colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, necessitano quindi di maggiori interventi di adattamento, ma avendo scarsità di risorse da destinarvi, dipendono dal sostegno internazionale.
Per tutti questi motivi è opportuno integrare nel modo più efficace ed efficiente mitigazione e adattamento che offrono due soluzioni diverse, ma complementari allo stesso problema.


(1)
Si veda ad esempio: Buchner, B., Carraro, C. e I. Cersosimo (2001), “On the Consequences of the USA Withdrawal From the Kyoto/Bonn Protocol”, FEEM Note di Lavoro, 102.01.
(2) Per questi dati e per quelli precedenti vedi Bosello, F. (2005), “Adaptation, Mitigation and “Green” R&D: Alternative Cures to Global Climate Change? Insights From an Empirical Integrated Assessment Exercise” PhD Dissertation thesis.

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  1. Marco D'Egidio

    Credo che nell’articolo si sopravvaluti troppo l’adattamento, mentre si sottovaluti la mitigazione. Quest’ultima cosa è in effetti imposta dal realismo: la mitigazione è effettivamente difficile e costosa. L’adattamento (che comunque serve perchè in parte il fenomeno è già in corso) è però sovrastimato. Che adattamento ci può essere se i fenomeni catastrofici estremi (cui si è solo accennato come fossero effetti accessori) sono destinati ad aumentare? L’altro giorno c’è stato un tornado a Londra. La “quota” di danno derivante dalle catastrofi climatiche è molto più di una postilla. Inoltre l’innalzamento dei mari, la desertificazione, le migrazioni (fenomeni cui sembra di potersi facilmente adattare perchè lenti e prevedibili) sono più ingenti di quanto si creda e determinano effetti che è impossibile ed inappropriato ridurre a semplici percentuali in termini di Pil.
    In conclusione, l’adattamento non “è più efficace e preferibile alla mitigazione”. Almeno, può essere più efficace qualora la mitigazione non desse i suoi frutti, come pare fare (e speriamo si cambi, noi per primi). Ma se sarà più efficace, vuol dire che saremo letteralmente con l’acqua alla gola. Quindi prima di tutto mitigazione, anche se è difficile.

  2. Antonio Puzio

    Ho letto con molta attenzione l’articolo pubblicato e vorrei alcuni chiarimenti circa l’argomento trattato.
    Io so che i paesi in via di sviluppo, ad esempio Cina e India, non hanno, almeno per il presente, l’obbligo di diminuire l’emissione di CO2 in atmosfera. Quindi, producono prodotti che aggrediscono il mercato perchè oltre al costo del lavoro irrisorio, hanno dalla loro la libertà di emettere gas senza limiti. Invece le imprese dei paesi aderenti devono sopportare anche il costo dell’adeguamento dei propri impianti per effetti voluti dal Protocollo di K, oppure, “delocalizzare” la loro produzione in paesi non soggetti ad alcun obbligo. Resto comunque favorevole al prot. anche se alcune gravi perplessità permangono quando penso al borsino attraverso cui gli Stati possono cedere dietro corrispettivo quote di CO2 non prodotta.
    Sul pricipio di adattamento, vorrei conoscere infine l’ambito entro cui si sta sviluppando anche perchè ero quasi convinto che almeno in Europa vigesse oramai quello della “precauzione” e l’altro del “Chi inquina paga”
    Grazie e Buon Natale

  3. Ernesto Pedrocchi

    Prima parte
    Il problema del cambiamento climatico è molto complesso, le variabili in gioco sono molte e le loro interazioni sconosciute. La scienza non sa spiegare perché sia in atto questo riscaldamento. C’è il sospetto che possa essere provocato da attività antropiche (emissioni di gas serra, modifiche nell’uso dei suoli, allevamenti intensivi di animali, urbanizzazione di zone rurali ecc), ma i dubbi a riguardo sono tanti. Cito senza dettagli, che richiederebbero maggior spazio, i più importanti:
    1- Le emissioni antropiche di anidride carbonica (CO2) crescono debolmente, ma abbastanza regolarmente di anno in anno, ma l’aumento di concentrazione in atmosfera della stessa varia molto irregolarmente: un anno è più di 3 ppm e l’anno dopo è meno di 1. E’ chiaro che ci sono fattori naturali che mascherano l’effetto antropico e questo è in buon accordo col fatto che le emissioni antropiche di CO2 sono solo circa il 4% di tutte le immissioni dello stesso gas in atmosfera.
    2- L’aumento di concentrazione della CO2 in atmosfera può causare un aumento di temperatura, ma anche l’aumento di questa causa maggior rilascio di CO2 dalla biosfera, come la storia delle glaciazioni evidenzia. Di conseguenza l’aumento rilevato di CO2 nel periodo industriale potrebbe almeno in parte essere conseguente l’uscita dalla piccola glaciazione (1600-1700).
    3- Tra il 1940 e il 1970 la concentrazione di CO2 nell’atmosfera è cresciuta significativamente, ma la temperatura globale è diminuita.
    4- La concentrazione di metano, un altro gas ad effetto serra, emesso in parte a seguito di attività antropiche, ha avuto una forte crescita nell’atmosfera dal periodo preindustriale ad ora ( circa da 750 a 1780 ppb), ma da una decina d’anni ha inspiegabilmente e fortemente rallentato la sua crescita e in alcuni anni è addirittura diminuita.
    Continua su seconda parte

  4. Ernesto Pedrocchi

    Parte seconda
    5- L’effetto del principale gas serra, il vapor d’acqua, e delle nubi sui cambiamenti climatici è poco conosciuto.
    6- La ricostruzione del clima degli ultimi mille anni è problematica e l’asserzione dell’IPCC (2001) che gli ultimi decenni siano stati i più caldi del millennio (curva Hockey Stick) è stata confutata e smentita da recenti lavori scientifici, facilmente reperibili in letteratura.
    7- Il contributo del sole al cambiamento climatico in atto , ritenuto spesso trascurabile, è probabilmente importante.
    Ce n’è a sufficienza non per avere la certezza che l’uomo non c’entra, ma almeno per dubitare che le emissioni antropiche di CO2 siano la causa principale. Purtroppo esiste su questo problema una grave disinformazione e si è creato un alone apocalittico di fine del mondo che sprona a una redenzione collettiva promossa dall’eco-fondamentalismo. Ma dalle premesse elencate è difficile accettare che la soluzione possa essere la mitigazione delle emissioni di CO2, tipo protocollo di Kyoto. Questa comporterebbe gravi difficoltà tecniche, onerose ripercussioni economiche ed enormi problemi burocratici. A me non pare alla portata del mondo attuale dilaniato, purtroppo, da altri gravi problemi. Certamente la strategia dell’adattamento si prospetta come più realistica: è valida sia che il cambiamento climatico sia di origine antropica o naturale, interviene solo sugli effetti negativi salvando quelli positivi del cambiamento climatico e agisce su problemi che in ogni caso è opportuno contrastare.

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