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La privatizzazione di Alitalia

La decisione del governo di ricorrere a un “processo trasparente e non discriminatorio” per l’ingresso in Alitalia di “nuovi soggetti industriali e finanziari” rappresenta un primo e positivo passo sulla strada del risanamento. Vari elementi spingono a richiedere che l’azionista pubblico resti in un ruolo importante. Ma la necessità di offrire al nuovo socio qualche altra garanzia potrebbe impedire di incidere su uno dei fattori strutturali di debolezza: il posizionamento sui mercati internazionali. I problemi di un’eventuale autorizzazione alla concentrazione

La decisione del governo di ricorrere a un “processo trasparente e non discriminatorio” per l’ingresso in Alitalia di “nuovi soggetti industriali e finanziari” rappresenta un primo passo, assolutamente positivo, sulla strada del risanamento. Passo positivo anche perché “rompe” la strategia di alcuni vettori esteri che aspettavano ulteriori peggioramenti della situazione di Alitalia per poi negoziare il “salvataggio” da posizioni di maggior forza.
Ma solo di primo passo si tratta. E il raggiungimento dell’obiettivo finale – che poi dovrebbe essere un aumento del benessere dei consumatori – mantiene tutta la sua difficoltà.

Perché è in crisi

Parto dalla diagnosi, peraltro non nuova, che la grave crisi di Alitalia sia da ricondurre da un lato alla proprietà pubblica, e quindi all’intrusione della politica, e dall’altro a un tendenziale indebolimento della posizione di mercato. (1)
Produttività e costo del lavoro – quest’ultimo nel 2004 in linea con la media europea dei vettori tradizionali, anche se superiore a quello di Lufthansa e Iberia e “naturalmente” di British – sono variabili rilevanti, ma non è lì la causa del dissesto.
I problemi fino a oggi causati dalla struttura dell’azionariato (nessuna grande compagnia europea mantiene una presenza pubblica così elevata), e a cui il governo vuole porre rimedio con la decisione di venerdì, sono noti: un elevato turn over di amministratori delegati che ha sottoposto l’azienda a troppe discontinuità strategiche; l’imposizione della scelta organizzativa, costosa e inefficiente, dei due “semi hub,” Fiumicino e Malpensa che ha aumentato, municipalizzandola, “la posta politica” sulle sorti dell’azienda; la gestione delle relazioni industriali e dei piani di ristrutturazione nelle “cabine di regia” governative; una efficienza operativa che secondo i vari confronti disponibili collocano Alitalia tra le peggiori della classe, secondo la tipica sindrome di soft budget constraint.

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Il ruolo dello Stato

Si vedrà se e come questo quadro si potrà modificare con una privatizzazione parziale, che appare come l’esito più probabile del processo avviato. Vari fattori spingono a rendere necessaria la permanenza dello Stato tra i soci “di riferimento”. Non è soltanto il modo per non dover sottostare all’obbligo di lanciare un’offerta pubblica di acquisto, anche perché la normativa in materia lascerebbe qualche pur minimo spazio per evitarla. C’è anche il fatto che entrare nel settore delle aerolinee con un investimento di capitale in una compagnia full cost carrier non è “normalmente” un grandissimo affare. (2) Vi sono poi altri vari fattori specifici che aumentano il rischio dell’investimento in Alitalia: un quadro regolatorio, soprattutto nei rapporti tra compagnie aeree e gestori aeroportuali, che una volta ridefinito (e qui sarà decisivo l’intervento che il governo ha annunciato) andrà anche implementato attraverso istituzioni adeguate (tutte da costruire) nonché il peso e la gestione dei “profili di interesse generale” indicato come criterio di selezione nel beauty contest che si aprirà nei prossimi mesi.
L’insieme di questi elementi spingono a richiedere che l’azionista pubblico resti in un ruolo importante. In tal modo si può sperare che si mantenga elevato il commitment dello Stato nella soluzione di problemi che in gran parte hanno una dimensione politica. Ma potrebbe non essere sufficiente e allora si dovrà offrire al nuovo socio in “garanzia” qualche forma di protezione.
E così si arriva all’ipotesi, a cui si guarda da più parti con una benevola propensione, dell’ingresso di Air One: questo avrebbe il vantaggio per l’acquirente di “blindare” il mercato nazionale, eliminando quella pur debole forma di concorrenza che la presenza di Air One come operatore indipendente ha fino ad oggi prodotto. Ma, senza voler scomodare il mito del mercato concorrenziale e il benessere dei consumatori, una simile soluzione lascerebbe del tutto irrisolto l’altro fattore strutturale di debolezza: il posizionamento sui mercati internazionali. Posizionamento che riflette il tentativo, perseguito da qualche anno, di aumentare la utilizzazione della capacità disponibile e di ridurre le perdite e che ha portato Alitalia a concentrarsi sulle tratte europee e nazionali, particolarmente esposte alla concorrenza, mentre la presenza sui voli intercontinentali è del tutto trascurabile. Fattore di debolezza che non appare facile invertire, senza un accordo di tipo equity con un grande vettore internazionale. Per operare, con livelli di profittabilità adeguata, in mercati abbandonati o mai aggrediti, non sarà infatti sufficiente stabilire nuovi collegamenti.
Infine, una parola sui profili concorrenziali: l’autorizzazione alla concentrazione sarebbe spina dolente per l’Autorità antitrust a meno di non ricorrere al temuto e mai utilizzato articolo 25 della legge 287 che prevede appunto la possibilità per il garante di eccezionalmente autorizzare operazioni altrimenti vietate, per rilevanti interessi generali dell’economia nazionale sulla base di criteri predeterminati preventivamente e in via generale dal governo. A quel punto però sarebbe più difficile resistere ad altre proposte di fusione tra gli operatori dominanti, in nome della creazione di nuovi “campioni nazionali”, la cui retorica è sempre incombente.

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(1) Nessun grande paese europeo ha una compagnia aerea con il bilancio così mal ridotto: nel 2005 solo la Swiss e la Austrian Airlines sono andate peggio di Alitalia tra le compagnie europee.
(2) Chi avesse investito nel gennaio del 1990 in un indice mondiale dei vettori tradizionali avrebbe ottenuto, fino alla fine del 2004, in media il 7,2 per cento di rendimento nominale annuo – uno dei rendimenti settoriali peggiori – contro il 21,0 per cento del rendimento di un investimento in una low cost. Vedi R. Barontini, “La performance del settore aereo dai dati borsa”, in A. Macchiati e D. Piacentino, Mercato e politiche pubbliche nell’industria del trasporto aereo, Bologna 2006

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L’insostenibile leggerezza della ricarica

  1. Pippo Ranci

    L’ironia va bene ma c’è il rischio di essere presi alla lettera. Sicuramente Macchiati quando scrive “il mito del mercato concorrenziale” non intende per mito “un convincimento illusorio” (Zingarelli) ma c’è chi lo pensa e identifica nel sostegno alla compagnia di bandiera quegli “interessi generali dell’economia nazionale” che possono anche dar luogo ad un’esenzione dall’intervento a tutela della concorrenza.
    A buon conto sarà opportuno ricordare che le migliaia di imprese e professionisti che ogni giorno pagano 400 o 500 euro per un volo interno che potrebbe costare la metà scaricano questo costo sui prodotti e servizi che vendono. Il costo indiretto per il paese potrebbe essere maggiore di quello palese nei conti Alitalia, e rischia di venire accresciuto ulteriormente se il salvataggio viene operato eliminando quel poco di “mito” che c’è.

    Pippo Ranci

  2. Alberto B.

    La speranza credo sia che un grande vettore asiatico punti su Alitalia come scelta strategica per i collegamenti non tanto Italia – Asia quanto Europa – Asia; a quel punto il piano industriale sarebbe la conseguenza di una scelta strategica.

    La soluzione Air-one chiaramente abbasserebbe la già scarsissima concorrenza interna e non avrebbe sbocchi sulle linee internazionali.
    Le soluzioni europee finirebbero per “usare” Alitalia per coprire il territorio italiano.
    La soluzione bancaria mi lascia dubbioso in termini di vision e di piano industriale.
    Tutte le soluzioni sono comunque migliori rispetto all’attuale …

    Insomma per una volta credo che tutti debbano sperare in una scelta coraggiosa da parte di un vettore forte del far east.

  3. Roberto Ferrari

    Sicuramente non sono dotato di grande intelligenza politica, ma per l’Alitalia non vedo molte alternative se non la vendita, al miglior realizzo, degli aeromobili e delle rotte e conseguente messa in liquidazione della società, utilizzando i proventi per coprire i debiti e per attuare tutti i possibili amortizzatori sociali per i dipendenti.
    Cordiali Saluti
    Roberto Ferrari – Udine

  4. Gianfranco Viesti

    Davvero difficile pensare che una fusione Alitalia-Air One possa essere autorizzata in nome di rilevanti interessi generali dell’economia italiana. La forte riduzione della concorrenza sulle rotte interne produrrebbe certamente, infatti, qualcosa di rilevante: ma in termini di danno ai cittadini e alle imprese italiane. Sarebbe devastante, tra l’altro, per l’economia meridionale; vessata per decenni dal monopolio del “campione” nazionale, e che sta cominciando a trarre qualche profitto proprio dall’inizio di concorrenza sulle rotte interne. Ma stiamo sicuramente ragionando su un’ipotesi impossibile: questo è il governo delle liberalizzazioni e della concorrenza, non della rinascita di anti-economici e inefficienti monopoli. O almeno questo c’è scritto nel programma…

  5. Giuseppe Rizzo

    Per esigenze di chiarezza e per rispondere a chi pensa di vendere la flotta di Alitalia e pagare i “creditori”.
    A bilancio il 30-09-06 c’e’ scritto: “dal punto di vista della titolarita’ giuridica , e’ opportuno segnalare come 115 aeromobili (il 61% del totale) risultino di proprieta’ del Gruppo, mentre 63 siano stati acquisiti tramite contratti di locazione,3 in noleggio e 8 in locazione con opzione di riscatto”.
    Costo dei leasing a bilancio: 249 mln di Euro.
    Altro che vendere per risanare. Non c’e’ piu’ niente da fare.
    Alitalia brucia 50 mila euro all’ora !!!! E Cimoli guadagna 2,7 mln di Euro l’anno per questo scempio. Vado io per molto meno !
    E paga Pantalone (cioe’ NOI !).

  6. daniele nepoti

    Solo per non cadere nella più bieca retorica ideologica (qualsiasi sia l’ideologia), vorrei far notare che:
    1) La proprietà pubblica non è DI PER SE’ necessariamente fonte di inefficienza o di tariffe elevate così come non è garanzia del contrario la proprietà privata. Un buon esempio si può avere nelle ferrovie inglesi, totalmente privatizzate, che registrano i prezzi più cari e al contempo le peggiori performace in termini di qualità del servizio. La proprietà pubblica DI ALITLIA ha un particolare ruolo nel far pesare esigenze di carattere politico, piuttosto che industriali, aziendali e di mercato.
    2) Non è vero che la concorrenza porti necessariamente a minori costi per gli utenti e spinga necessariamente a maggiore efficienza le compagnie. In tutti gli altri paesi europei la quota di mercato coperta dalle principali compagnie è di gran lunga superiore a quella di Alitalia, eppure esse sono più efficienti e le tariffe inferiori a quelle praticate da Alitalia e da AirOne p.es. sul Milano-Roma, nonostante costi aeroportuali (altro mito da sfatare) molto più alti che in Italia. La concentrazione va quindi considerata su scala europea, non nazionale (peraltro in Italia, sia per il suo sistema aeroportuale che per il suo quadro normativo esiste un livello di concorrenza enormemente maggiore a quello di altri grandi paesi europei).

    Molto pertinente l’osservazione rispetto alla “strategia del doppio hub” imposta dalla politica come fonte di inefficienze. Lo sviluppo di Malpensa come hub per Alitalia ha perso di ogni significato dopo il fallimento dell’accordo con KLM, ammesso che ipotizzare il trasferimento di personale “romanissimo” (e votante) dal Lazio alla brughiera fosse stato realistico. D’altra parte il mercato è soprattutto al Nord. Dunque Alitalia non può che avere un dignitoso ruolo di compagnia regionale basata su Fiumicino nell’ambito di una più ampia alleanza europea.

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