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Una regia nazionale per la Pa

La contrattazione collettiva ha cercato di introdurre nel pubblico impiego elementi che inducessero le amministrazioni a sviluppare una più efficiente gestione delle risorse umane, attraverso incentivi di vario tipo e mediante opportuni riconoscimenti del merito e della professionalità. Con ben pochi risultati. Ora, per uscire dal guado si può dare completa autonomia alle amministrazioni. Oppure riassegnare al livello centrale il ruolo di controllo delle risorse complessive da destinare agli aumenti retributivi di tutti i pubblici dipendenti.

Una regia nazionale per la Pa

È convinzione diffusa che l’efficienza della nostra pubblica amministrazione sia particolarmente bassa e che non sia aumentata molto in questi anni. Ed è questa l’impressione generale se si considera una serie di aspetti rilevanti che vanno dalla lotta all’assenteismo, alla mobilità necessaria per i processi di ristrutturazione, alla severità nel reprimere negligenza e scarso impegno e, più in generale, alla qualità dei servizi offerti alle persone e alle imprese.

Sistemi la valutazione e gestione delle risorse umane

La contrattazione collettiva ha cercato di introdurre nel pubblico impiego elementi che inducessero le amministrazioni a sviluppare una più efficiente gestione delle risorse umane, attraverso incentivi di vario tipo e mediante opportuni riconoscimenti del merito e della professionalità. Ma spesso non si è andati oltre le norme di legge e di contratti, o slogan del tipo ” premiare i meritevoli e punire i fannulloni”. La realtà, come spesso succede, è stata del tutto diversa. Non sono mancate certo le eccezione, ma la stragrande maggioranza delle amministrazioni non ha fatto significativi passi in avanti nei sistemi di valutazione. Per questo motivo i premi di produttività, previsti dai contratti nazionali, hanno continuato a fare la stessa fine che facevano prima della riforma del 1993 e cioè hanno continuato a essere distribuiti, più o meno, “a pioggia”. Le “carriere orizzontali”, introdotte con la recente riforma del sistema di classificazione del personale, e che dovevano fornire uno strumento efficace di incentivazione, sono diventate uno strumento per concedere aumenti retributivi di carattere generalizzato. I sindacati, per loro stessa natura, hanno sempre visto il salario variabile e i sistemi di valutazione delle prestazioni come “il fumo negli occhi”. Anche perché, e in questo forse i sindacati avevano ragione, chi avrebbe dovuto applicare un sistema di valutazione? I dirigenti? I dirigenti sostenuti dai politici? Ma sarebbero stati capaci di farlo? Ci si poteva fidare? Domande che facevano nascere dubbi atroci che, miscelandosi con la tradizionale avversione del sindacato ai premi e agli incentivi e a tutto ciò che può andare contro i principi di uniformità e di egualitarismo, contribuirono non poco ad affossare l’implementazione delle norme scritte nei contratti nazionali. Norme che il sindacato firmava, ma di cui non era certo entusiasta. Ma neppure i dirigenti e gli amministratori erano particolarmente entusiasti di introdurre incentivi e valutazioni delle prestazioni nella gestione del loro personale: innanzitutto, per non caricarsi di responsabilità che, per loro, avrebbero comportato più costi che benefici.
Eppure, le retribuzioni dei dirigenti sono aumentate moltissimo in questi tredici anni. Dopo la “contrattualizzazione” dei dirigenti, le loro retribuzioni vennero portate ai livelli del settore privato e anche oltre, proprio nella convinzione che così facendo si sarebbe potuto selezionare e assumere i migliori e si sarebbe potuto poi incentivarli verso comportamenti virtuosi. Cosa si è ottenuto in cambio? Vi è solo da stendere un velo pietoso sulla risposta che si dovrebbe dare a questo interrogativo.

Ma il pubblico non è il privato

Il tentativo di introdurre nel pubblico impiego massicce dosi di “privato” soprattutto nella gestione del personale , che era alla base della riforma del 1993, ha avuto scarso successo. Cosa è mancato?
Se si dovesse riassumere in parole semplici, si potrebbe dire che sono mancati lo spirito e i comportamenti del “privato datore di lavoro”. Per quanto la legge proprio questo preveda, che la singola amministrazione e i suoi dirigenti si comportino come un privato datore di lavoro, nei fatti raramente succede.
Prendiamo ad esempio proprio la determinazione del salario accessorio e il sistema di promozioni adottati a livello di singola amministrazione. Per comportarsi da “privato datore di lavoro” quest’ultima dovrebbe manifestare, in occasione della contrattazione su questi temi, interessi “fisiologicamente ” contrapposti a quelli del sindacato. Ma era quasi impossibile che questo succedesse, per lo meno in tempi brevi.
Per decenni le singole amministrazioni hanno cercato di alzare le retribuzioni oltre i livelli fissati dalle leggi e dai contratti nazionali. Per decenni, le singole amministrazioni avevano avuto come “controparti” non i sindacati, ma il ministero del Tesoro (come si chiamava allora) e la Corte dei conti. Le amministrazioni erano “dalla stessa parte” dei sindacati e cercavano in tutti i modi di aggirare i vincoli e i controlli sulla spesa per il personale, per poter di pagare “di più e non di meno” i propri dipendenti. E l’interesse dei dirigenti era evidentemente di questo tipo, perché, fra l’altro (particolare non irrilevante), solo in questo modo potevano sperare di aumentare anche le loro stesse retribuzioni. Per gli amministratori, poi, pagare bene i propri dipendenti ha sempre significato un vantaggio netto positivo, in termini di bilancio fra costi e benefici di natura politica. Come si poteva pensare che, da un giorno all’altro, una volta acquisita sul campo una maggiore autonomia nelle politiche retributive, con minori controlli da parte della Corte dei conti, queste amministrazioni sarebbero passate immediatamente dall’altra parte del tavolo negoziale, contro i sindacati? Che fare, dunque? Certamente, non si può rimanere “in mezzo al guado”.

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Per uscire dal guado

Una strada è dare completa autonomia alle amministrazioni. Autonomia finanziaria e fiscale alle amministrazioni locali, più autonomia alle università e alle scuole e stringenti vincoli di bilancio alle amministrazioni centrali. È in parte la strada imboccata con questa legge Finanziaria, anche se la logica dei tagli indiscriminati e l’assenza di un qualsiasi piano che metta in relazione, in modo credibile, risorse disponibili con obiettivi da raggiungere, non può considerarsi il percorso migliore. Ma soprattutto è una autonomia ancora insufficiente e se non si ha la forza di aumentarla in modo deciso, perché “non ci si fida” e si teme di perdere il controllo della spesa pubblica, allora è opportuno, ancora per qualche tempo, ridare al livello centrale il ruolo di “pivot” nel controllo delle risorse complessive da destinare alla contrattazione e agli aumenti retributivi di tutti i pubblici dipendenti.
Alcune proposte vanno in questa direzione. Sembra un ritorno al passato, ma è inevitabile assumere una posizione precisa, per evitare di avere il peggio di entrambe le possibili soluzioni. In una logica di forte regia nazionale e regionale, occorrerebbe allora rivedere tutto il processo di contrattazione collettiva, caratterizzato oggi da frammentazione dei livelli di responsabilità della parte “datoriale” della contrattazione, nonché da lungaggini, da ritardi e anche da un certo grado di irresponsabilità. Quando tutti sono responsabili – Aran, ministero dell’Economia, ministero della Funzione pubblica, i vari ministri interessati al comparto, i comitati di settore, la Corte dei conti, eccetera – nessuno lo è sino in fondo.
Infine, non si può assolutamente continuare a concedere aumenti retributivi legati “ex ante” alla produttività, quando nessuno si preoccupa di verificare se, “ex post”, l’aumento di produttività è stato effettivamente realizzato. Si tratta di “una presa in giro” che non è dignitosa per nessuno, nemmeno per i sindacati, che sembrano assistere impotenti alla perdita di credibilità e di reputazione che sta investendo tutto il sistema di relazioni sindacali del pubblico impiego.
E a questo proposito una domanda si impone: che fine faranno le abbondanti risorse che così “generosamente” il governo ha messo a disposizione per i prossimi rinnovi contrattuali?

Risposta dell’autore ai commenti

I lettori del mio articolo dal titolo: “ Una regia nazionale per la PA”, pubblicato sulla Lavoce del 27.11.06, hanno criticato, fra gli altri, due aspetti importanti. La prima critica è radicale: si mette in dubbio che settore privato e settore pubblico possano essere accostati al fine di individuare comuni regole per motivare i lavoratori ivi impiegati. Sarebbero due mondi diversi e quello che va bene per l’uno non va bene per l’altro. La seconda critica contesta che nel settore pubblico si possa misurare la produttività e nega che qualche indicatore di quest’ultima possa essere trovato e impiegato per incentivare il personale occupato. Ho apprezzato molto gli argomenti utilizzati dai lettori e non posso negare di condividere alcune cose che sono state dette. Ma, nella sostanza, credo di ribadire quanto ho scritto, con l’aggiunta di qualche ulteriore osservazione, stimolata dalle e-mail ricevute.Il settore pubblico non è certo uguale al settore privato. Lo sappiamo bene e tutti ne siamo convinti. Ma è sufficiente questo per arrivare alla conclusione che “ i principi di meritocrazia, in ufficio pubblico conducano spesso all’inefficienza” ( Mimmo)? A me non sembra i lavoratori che sono impegnati nei due settori abbiano motivazioni e tengono comportamenti tanto diversi fra loro .Perché, in fondo, dovrebbero essere tanto diversi? Forse che tutti i lavoratori pubblici devono essere anime pure dedite al bene comune e i lavoratori privati tanti diavoli assatanati che pensano solo al successo e al denaro? No, non è così. Ci sono lavoratori privati che amano il loro lavoro, e che sono quasi più interessati alla soddisfazione che ne ricavano che non allo stipendio che percepiscono. Ci sono poi molti lavoratori pubblici che fanno bene il loro mestiere, ma che guardano anche al loro stipendio e che sono disposti ad aumentare il loro impegno se questo serve per aumentare la probabilità di essere promossi ad un posto di maggiore responsabilità o per avere un riconoscimento economico. Non c’è nulla di moralmente sbagliato in questo. Certamente per certi tipi di lavoro del settore pubblico (insegnanti e medici ad esempio) ci vuole anche, come si dice, un po’ di “vocazione”. Ma che forse non esistono anche scuole ed ospedali privati? Ci vuole meno passione e meno dedizione in questo caso? Gli incentivi economici varrebbero solo per quelli che lavorano nel settore pubblico? Io insegno in una università privata. I miei colleghi delle università pubbliche devono sentirsi al servizio della collettività. E io, no?Ma la produttività nel settore pubblico non può essere misurata, dice Samuele. “Il concetto di produttività nella Pubblica Amministrazione non ha alcun senso” ci avverte Claudio. Sono d’accordo, non è facile misurare il “prodotto“ delle pubbliche amministrazione e quindi concetti come la produttività media hanno un maggior significato nel settore privato che in quello pubblico. Ma nel nostro caso (stiamo parlando di “merito” e “impegno”), la produttività individuale è difficile da misurare sia nel settore pubblico che in quello privato. E’ forse più facile trovare un buon indicatore per misurare la produttività di un impiegato di banca che di un impiegato dell’INPS? No, è difficile per tutti e due, più o meno allo stesso modo. Eppure nelle banche esistono sistemi di valutazione che permettono di misurare, con qualche buona approssimazione, professionalità, merito e impegno degli impiegati e di legare a queste valutazioni le stesse possibilità di carriera. Certo le valutazioni non sono sempre oggettivamente perfette, ma non per questo si rinuncia a farle. Perché non può succedere lo stesso nel settore pubblico? Cosa impedisce di fare lo stesso tipo di valutazione? E di legare a questa qualche conseguenza in termini di riconoscimento economico e di prospettive di carriera? In fondo noi stessi ci accorgiamo quando un impiegato di banca è professionale, gentile e impegnato. E non siamo in grado di fare valutazioni analoghe quando ci troviamo di fronte ad un impiegato dell’INPS? Certo c’è una enorme differenza fra un datore di lavoro privato e un datore di lavoro pubblico e questa riguarda la legittimazione del potere: il primo la riceve dai consumatori – clienti che decidono di comperare il servizio prodotto, il secondo la riceve dai cittadini che decidono di votarlo. Entrambi hanno però lo stesso interesse: far lavorare i propri dipendenti in modo efficiente. Una condizione è necessaria. Nel primo caso che il mercato funzioni bene, nel secondo che la democrazia sia un valore condiviso.

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13 commenti

  1. Claudio Resentini

    Cerchiamo di fare ordine, linguistico e semantico, prima di tutto e di riportare il dibattito ad uno schema dotato di senso.
    -Pubblico e privato non sono sinonimi, sono opposti. Non si può dire tutto e il contrario di tutto: si perde il senso delle cose (Dimenticare queste opposizioni ci riporta alla barbarie, diceva Louis Dumont.)
    -L’amministratore della cosa pubblica non può e non deve comportarsi come un datore di lavoro privato pena la sua degenerazione (regressione) a “patrono” o “padrino
    -I lavoratori pubblici devono essere al servizio della collettività e non di se stessi o dei propri dirigenti per il perseguimento di obiettivi personali come premi, incentivi ecc.: questi, oltre che un tributo all’egemonia culturale neoliberista, sono il modo migliore modo per dividere i lavoratori, distoglierli dalla loro funzione pubblica e asservirli a logiche privatistiche.
    -Il concetto di produttività nella Pubblica Amministrazione non ha alcun senso: non ci sono prodotti da vendere, non ci sono prezzi…puro economicismo, insomma.
    -Il sindacato avalla a livello centrale per opportunismo politico visioni sbagliate sulla meritocrazia, ma poi nel rapporto quotidiano fa i conti con la dignità (che non ha prezzo), con il rifiuto del ricatto, con la solidarietà dei lavoratori, con gli stipendi miseri, con i danni del privatismo, ecc.
    Potrei continuare a lungo, ma in fondo era solo un sassolino che avevo nella scarpa. O se preferite un sasso gettato nello stagno: lo so che finirà a fondo e che la superficie tornerà alla normalità tra breve.
    Cordiali saluti.

  2. Aureo Muzzi

    Una strada è dare completa autonomia alle amministrazioni. Questa proposta non è del tutto innovativa, in quanto già attuata nelle Aziende Sanitarie. Risultati: variabili. Nelle regioni del centro nord, in genere a conduzione del centro sinistra, i bilanci finanziari possono considerarsi positivi, meno quelli riguardanti il personale che sente il peso di questa trasformazione che incide prevalentemente sugli aspetti economici, ma meno su quelli strutturali inquanto si è agito attraverso la burocrazia e non sulla formazione del personale. Al SUD, destra e centro-sinistra, è una situazione indegna di un Paese moderno. Eppure i finanziamenti e le leggi nazionali sono le stesse. Appare evidente che si dovrebbe intervenire anche su aspetti culturali, sociali sui quali questa politica ha enormi difficoltà.

  3. Walter

    Sono un dipendente pubblico regionale e confermo l’esistenza nella PA della maggior parte dei limiti segnalati nell’articolo. Se però si darà maggiore autonomia agli Enti nella contrattazione temo che laddove si ha più alta capacità di spesa e bassa efficenza (Regioni, Province) si avrà un aumento degli stipendi senza aun aumento della produttività, mentre nei Comuni, che in questi anni hanno veramente aumentato la produttività (perché la responsabilità politica diretta del Sindaco si ripercuote su tutta l’amministrazione), soprattutto quelli di piccola-media diemnsione, si avranno stipendi più bassi.

  4. mimmo

    Ah quante cose vorrei dire sulla P.A! ci lavoro da dieci anni come dipendente ministeriale ed ogni volta che sento parlare di riforme temo sempre il peggio. Ogni cosa che è cambiata finora sembra sia cambiato in peggio, io credo proprio per l’approccio filosofico sotteso a queste velleitarie proposte di riforma. Il pubblico non è il privato, come si fa a non capirlo? E perchè mai il pubblico dovrebbe funzionare come il privato? Ed ammesso che sia giusto è poi possibile questo? Io non credo proprio. Il datore di lavoro privato paga i dipendenti con i soldi propri, li seleziona lui stesso (il più delle volte) e pretende l’efficienza da ognuno, altrimendo l’impresa va in perdita e fallisce. Questo nel pubblico non può mai accadere; “un Ufficio pubblico non può mai chiudere per fallimento”, il dirigente (o l’amministrazione) non paga i propri dipendenti con i propri soldi. Basterebbe questo per prendere atto che le logiche di fondo tra pubblico e privato sono profondamente diverse. riguardo alla filosofia sottesa alle riforme di privatizzazione, siete proprio così sicuro che un dipendente pubblico lavori solo ben pagato o incentivato come dite voi. E’ questa la riduttiva visione dell’uomo che avete? Sul ruolo del lavoro come come mezzo di realizzazione personale e relazioni sociali si scrive ancora molto e non voglio aggiungere niente. Potrei dimostare con un’analisi strettamente economica, al di là di ogni giudizio etico, come i principi di meritocrazia, in ufficio pubblico conducano spesso all’inefficienza.
    Lo stipendio serve per una vita dignitosa. Lo stimolo a svolgere bene il proprio lavoro nel campo pubblico non può mai venire da un incentivo economico. Altrimenti ci ritroviamo con i risultati che l’articolo descrive. L’efficienza della P.A. non è aumentata, lo stipendio dei Dirigenti invece di molto, eppure secondo il principio della riforma Bassanini, questi non avrebbero dovuto ricevere nessun incentivo, al limite anche licenziati.

  5. Nicola

    Credo che la prima cosa da chiarire è il rapporto tra Amministrazione e Politica: lo spoil system oppure un sistema alla Francese di un’Amministrazione completamete indipendente dal potere Politico? Oggi abbiamo molti dirigenti di nomina, selezione o investitura politica e poi pretendiamo un’amministrazione trasparente, efficace ed indipedente.

  6. Samuele

    Ma quando si parla di “produttività” nel pubblico impiego di cosa stiamo parlando esattamente? Mi spiego con un esempio: provate a cercare “assessore alla pace” con google e troverete migliaia e migliaia di risultati. Anche il piccolo comune in cui abito ha ritenuto necessario istituire un simile assessorato. Ora, come si valuta la “produttività” di un impiegato che “lavora” all'”Assessorato alla pace” di un Comune? In base alle ore che trascorre in ufficio? In base al numero di pagine che scrive in un mese e che passa al collega di scrivania? In base al numero di riunioni inutili che organizza? In base alle missioni internazionali di peace-keeping a cui partecipa? In base agli aiuti che il Comune fa paracadutare in Darfur? Ripeto, parlare di produttività per l’amministrazione pubblica italiana è come parlare di certificazione ISO per i bagarini. Spesso il problema è più *a monte*: il fatto è che molti uffici (o addirittura intere istituzioni, es. province, comunità montane, ministero dell’agricoltura, ecc.) sono *intrinsecamente* inutili, e lo rimarrebbero anche se a lavorarvi vi fossero degli stacanovisti.

  7. vitus

    Tutti o tanti hanno creduto o sperato che la PA imboccasse una strada che la portasse ad essere più efficiente, più vicina ai problemi dei cittadini, delle imprese, ma tutto ciò è ancora oggi un miraggio.
    In questi anni gli opportuni riconoscimenti al merito e alla professionalità non sono arrivati certamente per colpa dei sindacati , ma anche e soprattutto per colpa di una classe dirigente incapace ma ben remunerata, che non ha superata una seria selezione, che opera non come il buon padre di famiglia ma come il signorotto di un tempo o per conto terzi.
    Tutto ciò sembra strano ma alle regole rigide della vecchia struttura che in un certo qual modo dava certezze ai dipendenti, si è passati ad un sistema in cui si percepisce chiaramente che la bravura e la capacità non premiano.
    E neanche il sistema di legare le remunerazioni accessorie agli obiettivi ha migliorato la qualità dei servizi anzi in alcuni casi ha contribuito a farla scendere, anzi la genialità tutta italiana consente di trovare sempre il modo per raggiungere gli obiettivi, che sono quasi sempre numerici.
    Spero che queste riflessioni possano servire a chi si propone di riformare la Pa.

  8. carmelo lo piccolo

    Qualsiasi ipotesi di riforma della Pubblica Amministrazione è destinata clamorosamente a fallire se non si ammette una volta e per tutte che:

    1) il risultato dell’attività dirigenziale non è produrre servizi per la collettività, bensì, purtroppo, assicurare il consenso al ceto politico che ha favorito l’assunzione, la promozione e la preposizione all’incarico del dirigente.

    2) il Sindacato è stato bruscamente ridimensionato, la contrattazione si riduce alla distribuzione preconfezionata del salario accessorio, non c’è più alcun serio controllo sui criteri di organizzazione del lavoro, sui carichi di lavoro, sulla promozione delle professionalità interne, sulle politiche di genere e di pari opportunità, tutto viene liquidato con una delega in bianco ai vertici dirigenziali, che possono operare “con i poteri del privato datore di lavoro”.

    3) la professionalità non si misura e non si misurerà mai con il semplice possesso di una laurea: si deve prendere atto che ci sono laureati incapaci ed inetti e invece ragionieri, geometri, insomma semplici diplomati che però sanno garantire risultati e assumersi responsabilità: si deve incentivare la concorrenza tra i dipendenti e non premiare le rendite di posizione protette da “pezzi di carta”, tenendo conto che, in caso di concorso, chi ha una laurea dovrebbe avere un “vantaggio competitivo” tale da non temere il semplice dipendente diplomato. Se così non è, si vede che la laurea non vale!

    4) Bisogna ripristinare il concorso pubblico, possibilmente per soli esami, come regola esclusiva di accesso al Pubblico Impiego, come del resto prescritto dalla Costituzione, anche e soprattutto per le qualifiche dirigenziali.

  9. Marco Briolini

    Ho letto con molto interesse il contributo di Carlo dell’Aringa e i commenti. Sono un consulente, mi occupo di formazione e sviluppo anche nella P. A. e vorrei proporre anch’io alcune considerazioni. Prima di tutto, a mio avviso, è bene separare con attenzione il tema della valutazione delle prestazioni dal tema della retribuzione variabile. Va da sé che le due cose devano essere correlate in modo che il premio corrisponda ad una prestazione soddisfacente, ma a mio avviso sono concettualmente due questioni diverse. Gli automatismi per cui ad una certa valutazione corrisponde un certo incentivo inducono chi valuta a distorcere in modo più o meno inconscio la propria valutazione in modo da far avere o meno il premio. Credo che sia preferibile un sistema in cui le questioni retributive sono correttamente affrontate in sede sindacale, fissando obiettivi (dell’ente nel suo insieme o di singole aree/settori…) al cui raggiungimento sono collegati i premi – ricordo un paio di anni fa un interessante accordo per i portalettere ad esempio. Al contrario, il sistema di valutazione delle prestazioni dovrebbe a mio avviso essere centrato sulla responsabilizzazione dei “capi” nella valutazione dei loro collaboratori con la finalità di definire percorsi di sviluppo professionale e non di erogare premi. In questo modo si potrebbe forse innescare un circolo virtuoso in cui capi e collaboratori dialogano sistematicamente sulle performance e sul relativo miglioramento.
    In conclusione, però, resta un punto irrisolto peculiare della P.A. Chi valuta i dirigenti apicali? Soprattutto negli enti locali il problema è molto serio, dal momento che le strutture politiche non possono, a mio avviso, avere questo compito e che le esperienze di “nuclei di valutazione” sono state mediamente fallimentari.
    Purtroppo lo spazio a disposizione per il commento non mi permette altri approfondimenti. Spero però di avere contribuito ad una discussione che ritengo cruciale per lo sviluppo della PA.

  10. laureato91

    Il contributo di Dell’Aringa offre sicuramente spunti interessanti. Peraltro, mi pare che – specie a benefizio dei non addetti ai lavori – siano da precisare taluni punti.
    1) Le retribuzioni sono cresciute in maniera notevole soprattutto per i Dirigenti apicali, e non certo per i Dirigenti di seconda fascia (tant’è vero che la forbice tra le due categorie s’è allargata a dismisura.
    2) La contrattualizzazione – pure da riconsiderare anche secondo me – c’entra poco: i non contrattualizzati (es. prefetti) hanno incamerato via DPR aumenti maggiori, e tra i loro equivalenti di prima e seconda fascia il rapporto è rimasto più equilibrato. In ogni caso, per la gran parte della dirigenza i livelli retributivi del privato sono lontani.
    3) “Piscis fetit a capite”. L’introduzione di norme come l’articolo 19 co. 5bis e l’art 19 co. 6 del Dlgs 165/2001, e il successivo allargamento dei contingenti di “estranei” alla PA che vengono assunti senza alcuna verifica o selezione ha creato e continua a creare problemi. In termini motivazionali, è inutile sottolineare gli effetti perniciosi nei confronti della Dirigenza di Ruolo (e dei funzionari non “agganciati” politicamente). I tentativi ricorrenti, più o meno coronati da successo, per stabilizzare questi “fortunati” non fanno che peggiorare la situazione. Inoltre, ai “comma 6” può essere attribuito un assegno “ad personam”, nella maggior parte dei casi di importo difficilmente conoscibile, che ne alza a dismisura la retibuzione. E la valutazione viene minata alle basi.
    4)Grazie anche alla pecarizzazione degli incarichi, se prima il politico poteva sostituirsi al dirigente assumendosene la responsabilità, oggi può tenerlo scacco il dirigente e non deve nemmeno assumersi responsabilità. Tanto meglio se il Dirigente è lì “per grazia ricevuta”.
    5) Il Decreto 165, figlio (per certi versi degenere) del Decreto 29, non funziona correttamente, e andrebbe riformato.Non è sufficiente, forse, ma è necessario.

  11. luigi oliveri

    Molto interessante l’articolo del Prof. Dell’Aringa. Soprattutto, perchè l’interessato ha avuto parte attivissima nel portare avanti le riforme che lui stesso ammette non hanno funzionato. Si deve cogliere l’articolo come una critica, innanzitutto, a se stesso e al filone di pensiero che ha prodotto le inefficienze descritte. Che, quale ex presidente dell’Aran, conosce molto bene. L’unico quesito che rimane sullo sfondo è perchè, dall’alto di queste consapevolezze, abbia accettato l’incarido di presidere l’Aran e stipulato contratti collettivi pubblici, così poco efficienti.
    Al di là di queste considerazion (importanti, comuqnue, perchè le fonti dei ragionamenti ne forniscono alcune chiavi di lettura), al Corte costituzionale ha chiarito con la sentenza 89/2003 che il rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche non è stato affatto privatizzato e non può essere ricondotto a quello privato tout court. Forse, occorrerebbe prendere atto delle decisioni della Consulta. E comprendere che le riforme della pubblica amministrazione dovrebbero partire dall’analisi dei problemi del suo funzionamento. Non dall’applicazione meccanica di modelli astratti. Come la “privatizzazione”. Modelli che, fuori dal loro contesto, possono certamente funzionare meno bene.
    E’ corretto mettere sul banco degli imputati la dirigenza. Ma, sono state le riforme di questi ultimi 15 anni ad introdurre ed espandere sempre più lo spoil system, che tradotto meglio significa nomine dirigenziali di matrice esclusivamente politica )Report del 19 novembre lo ha dimostrato in modo chiarissimo). Allora, se si vuole eliminare una delle cause delle inefficienze della PA, si elimini la dirigenza nominata senza concorsi, per semplice cooptazione politica. Ma, non lo si farà mai, perchè entrambi gli schieramenti politici hanno tutto l’interesse a conservare lo spoil system.
    Non sembra, però, corretto scaricare solo sull’apparato le responsabilità che derivano da riforme frettolose.

  12. Marco Pagot

    L’anno che verrà sarà il quindicesimo dopo la riforma del rapporto di lavoro nel pubblico impiego: la legge delega risale infatti al 1992. Tre lustri sono un tempo sufficiente per un bilancio.
    Il tentativo di introdurre nel pubblico impiego massicce dosi di “privato” nella gestione del personale … ha avuto scarso successo> afferma Dell’Aringa. Innanzitutto un’osservazione: a questa che sembra una critica all’essenza stessa della riforma, non fa seguito una proposta di ritorno all”ancien regime”. Nello scarso dibattito in corso, comunque, nessuno si sogna di predicare un ritorno al rapporto di lavoro pubblico, temendo forse di essere preso per folle. Il ché mi sembra già un grosso risultato della riforma, qualcosa che si è comunque consolidato nell’opinione pubblica.
    La ricerca di ciò che non ha funzionato dovrebbe quindi essere indirizzata a cercare gli elementi sui quali intervenire per raggiungere risultati più soddisfacenti nel processo che si è avviato. La risposta che si dà Dell’Aringa è . Il problema è che senza i poteri è difficile criticare l’assenza di spirito e di comportamenti. Non mi risulta che nel settore privato il datore di lavoro debba contrattare con i sindacati i criteri per i passaggi di qualifica o l’introduzione stessa in un sistema di valutazione e neanche i criteri di erogazione del premio di produzione. I risultati di una contrattazione invasiva sono pubblici: all’INPS il 90% del personale è inquadrato tutto in un unico livello, quasi apicale; alle Dogane si è fatto un accordo per il passaggio di una fascia economica per tutto il personale; lo stesso in non so quanti Comuni, non ultimo il Comune di Roma, luglio scorso… Non ci sono quindi molte differenze tra i comparti, stato, parastato, enti locali, né il sindacato, checché ne dica Dell’Aringa, se ne vergogna affatto. Se il sindacato ha fallito, forse è ora di puntare sulle pubbliche amministrazioni.

    • La redazione

      Una breve risposta ai tre ultimi commenti (quello sopra e i due sotto a questa risposta)
      Laureato91 dice , fra le altre cose , che le assunzioni di dirigenti senza verifiche e selezioni e la precarizzazione degli incarichi dovuta al decreto n. 165, hanno riconsegnato la dirigenza nelle mani della “politica” , con tutte le conseguenze negative , in termini di responsabilità e motivazioni della stessa dirigenza. Anche Luigi punta il dito contro lo “spoil system” : le nomine di natura politica impediscono ai dirigenti di esercitare la loro funzione con senso di responsabilità. Infine Marco mette il dito sulla piaga dell’eccesso di contrattazione collettiva : si contratta tutto, dai passaggi di qualifica, ai criteri di valutazione delle prestazioni, ai criteri di erogazione dei premi di risultato. “Il sindacato ha fallito” è la triste conclusione di Marco.
      Penso di poter dire che in buona misura tutti e tre i commenti condividono, sia pure indirettamente, lo spirito delle mie riflessioni e cioè che non sono tanto e solo sbagliate le norme, delle leggi e dei contratti, ma il modo in cui vengono applicate. Favoritismi di natura politica nella revoca e nell’affidamento degli incarichi, eccessiva ingerenza sindacale ( ed eccessiva arrendevolezza delle amministrazioni, aggiungo io) in quelle che devono rimanere prerogative manageriali, sono all’origine di tante disfunzioni del pubblico impiego.
      Ce n’è anche per il sottoscritto che, secondo Luigi, denuncia ora la scarsa efficienza di quei contratti collettivi che lo stesso sottoscritto ha firmato, quando era presidente dell’Aran ( fino al 2001 per la precisione).Perchè li ha firmati, si chiede con un tono fra il provocatorio e l’intimidatorio il nostro Luigi. Ora, ammettere di aver sbagliato può anche apparire come un bel gesto. Ma, in questo caso , va ricordato il senso delle mie riflessioni. Che, ripeto, richiamavano l’attenzione su un punto fondamentale : non basta scrivere norme e regole, occorre cambiare i comportamenti che dipendono dall’abitudine, dalla cultura , dai valori condivisi e anche da come funziona il rapporto tra “politica” e cittadini. Non si tratta di dati immodificabili. Si possono cambiare, certo in tempi non brevi. Le norme e le regole servono, ma non bastano.Prima ce ne accorgiamo e meglio sarà per tutti.

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