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Nella salute la concorrenza non è tutto

Tutti invocano maggiore qualità dei sistemi di tutela della salute e, insieme, il rispetto della compatibilità economica. Attraverso maggiore responsabilizzazione dei soggetti e maggiore competitività, sostengono. Utile chiedersi, allora, perché nel modello Usa, largamente privato e basato sulla competizione, i costi sono cresciuti rapidamente ed eccessivamente negli ultimi anni, l’accesso ai servizi è limitato e i pazienti sono insoddisfatti. Potrebbe servire a evitare, nel nostro paese, soluzioni semplicistiche e due errori di segno opposto.

Tutti invocano maggiore qualità dei sistemi di tutela della salute e, insieme, il rispetto della compatibilità economica. Molti sono convinti che l’obiettivo possa essere perseguito tramite sistemi di responsabilizzazione a tutti i livelli, stimolati e verificati da una più elevata competitività, ossia dal confronto con altri soggetti che fanno le stesse cose o svolgono le stesse funzioni. Convinzione questa che va almeno approfondita anche alla luce di quanto afferma Michael Porter, il guru del management di Harvard, uno dei più decisi sostenitori della funzione positiva e della forza trainante della competizione.

Il modello Usa e la competizione

Secondo Porter nel modello Usa di erogazione dei servizi sanitari, largamente privato e basato sulla competizione, i costi sono cresciuti rapidamente ed eccessivamente negli ultimi anni, l’accesso ai servizi è limitato (per una significativa parte della popolazione), i pazienti sono insoddisfatti.
“Che cosa c’è di sbagliato?” si chiede Porter. “Gli Usa hanno il tipo sbagliato di competizione”, è la sua risposta. Dopo un articolo apparso nel giugno 2004 su Harvard Business Review, il concetto è stato sviluppato nel recente libro scritto con
Elizabeth Olmsted Teisberg “Redefining Health Care: Creating Value based Competition and Results” che puntualizza due aspetti importanti:
a) vi sono differenti tipi di competizione, quindi ogni volta che di essa si parla si dovrebbe qualificarla con riferimento allo specifico contesto economico, sociale e istituzionale, nonché al settore di attività;
b) la competizione che serve nel sistema di tutela della salute è quella in cui ogni soggetto è focalizzato (orientato) a generare valore per il paziente.
L’analisi parte da considerazioni scontate, ma che può essere utile ricordare: “chiedere servizi di salute non è come comprare un’automobile o qualsiasi altro bene di consumo” (a causa della asimmetria informativa e di stato emotivo tra medico e paziente). Azioni e interventi capaci di evitare accertamenti diagnostici inutili e non corretti, diagnosi errate, uso eccessivo di farmaci, interventi chirurgici non necessari contribuiscono ad aumentare la qualità dell’assistenza e contemporaneamente a ridurre i costi.
Da qui sviluppa alcune considerazioni tratte dalla realtà statunitense, che dovrebbero far riflettere coloro che sono impegnati a definire nuove regole nel nostro paese.
Primo, negli Usa si è avuta per lungo tempo una competizione nella quale i vari soggetti impiegavano molto tempo ed energie a negoziare le tariffe, a cercare di “scaricare” i costi su altri soggetti del sistema, ad appropriarsi di una maggior parte del valore economico delle prestazioni erogate, a limitare l’accessibilità a chi non poteva pagare assicurazioni o prezzi dei servizi.
Questo tipo di competizione ha minato (ridotto) la capacità di generare un elevato valore per l’insieme dei pazienti (pur generando elevata qualità per alcuni gruppi) e ha determinato eccessivi e non necessari costi amministrativi di “transazione” tra ospedali, assicurazioni, gestori di programmi di assistenza pubblici, gli stessi pazienti.
Infine, si è rivelata erronea e mistificante la convinzione secondo cui elevati costi della sanità coincidessero con elevata qualità dei servizi e con un positivo effetto di traino dell’economia tramite lo sviluppo di tecnologie sanitarie. Recenti indagini sulla soddisfazione dei cittadini (bassa quanto, se non più, che in Italia), sulla esplosione di casi e costi di malpractice (mala sanità) e sul limitato effetto trainante sul sistema economico hanno messo in crisi o spazzato via alcune delle certezze che per lungo tempo hanno guidato le politiche di oltreoceano.

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Lezioni per l’Italia

Mentre si discute della legge Finanziaria (che cerca di contenere l’espansione della spesa sanitaria), del nuovo accordo Stato-Regioni (che introduce elementi di maggiore responsabilizzazione di entrambi gli attori) caratterizzato dal New Deal della salute lanciato dal ministro Turco (che si propone di dare un nuovo impulso e indirizzo progettuale e strategico al sistema), con forti e non sopite polemiche contro l’aziendalizzazione e sul rapporto professionisti-manager, sembrano particolarmente utili alcuni indirizzi che emergono dal libro che, è bene ripeterlo, è scritto da “guru dell’impresa, del mercato e della competizione globale”.
Il sistema, sostengono gli autori, può essere riformato tramite un processo “dal basso all’alto”: “non richiede un approccio top down, un big bang (cambiamento radicale), una modificazione della regolamentazione del governo federale o dei singoli Stati”. Applicato in Italia, ciò vuol dire mettere in guardia contro la tentazione di aprire una nuova stagione di modifiche delle leggi nazionali e regionali e invece privilegiare azioni che facciano leva sulla ricostruzione di nuovi rapporti di fiducia tra pazienti e medici (Porter parla di joint venture), tra medici e manager, nonché sulla valorizzazione dell’autonomia delle aziende che vanno responsabilizzate sulla loro capacità di “creare condizioni favorevoli per nuovi rapporti medici-pazienti, valore finale per i pazienti”. Lo possono e lo devono fare creando e razionalizzando i processi amministrativi (deburocratizzazione), e coordinando processi assistenziali e amministravi.
Realizzare, o imporre come ha già fatto il Massachusetts, l’assicurazione “universale” (copertura universale), sostengono Porter e Teisberg “non è solo corretto (ed equo) sul piano sociale, ma è anche il solo modo per attuare veramente un sistema che produce un alto valore per i singoli e per la globalità dei pazienti. Oggi negli Usa, quando si ammalano trattiamo le persone non assicurate con modalità a elevato costo, mentre si potrebbero ottenere rilevanti risparmi garantendo la prevenzione e la cura della persona malata, non delle singole patologie”.
Certamente, nemmeno un guru del management ha la verità in tasca, ma il fatto che Porter e Teisberg della Harvard Business School propongano un tipo di competizione all’interno di un sistema di “copertura assistenziale universale” (con assicurazioni obbligatorie come nel Massachusetts), che non separi l’assistenza di chi può pagare prestazioni a elevati costi direttamente o tramite assicurazioni private facoltative da chi non può pagare, dovrebbe indurre a evitare nel nostro paese soluzioni semplicistiche e due errori di segno opposto. Il primo è pensare che la copertura universale richieda regole o indirizzi centralistici (da parte dello Stato o da parte delle Regioni) che non sono compatibili con l’autonomia e la competizione delle aziende sanitarie, ospedaliere, private e pubbliche. Il secondo è pensare che la competizione sia di per sé la soluzione: occorre applicare, come alcune Regioni già fanno da anni, sperimentare e affinare (sul piano delle teorie e delle applicazioni) forme di competizione che non riproducono gli effetti negativi riscontrati negli Stati Uniti.

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  1. silvio marchini Brescia

    Molto ineteressante l’analisi fatta da Porter in merito al problema dell’assistenza sanitaria. A mio modesto avviso, però, in Italia vi sono altri problemi di mala sanità che purtrooppo non verrebbero risolti adottando questo approccio:
    -il primo problema riguarda il medico di base, figura ormai svilita dalla convinzione nazionale che lo specialista, in campo medico, sia l’unico competente a diagnosticare eventuali patologie e loro cure;
    -il secondo problema, sempre a mio modesto avviso, riguarda la prestazione minima garantita, nei confronti dei cittadini, in quanto questa, la prestazione, oggi, con le nuove tecnologie a disposizone in campo medico, per essere garantita senza creare alcuna sorta di discriminazione, tra la popolazione, abbisogna piu’ che di una diversa tipologia di concorrenza, semmai di una rivisitazione delle nostre strutture mediche, eliminando ospedali polifunzionali disloccati territorialmente a vantqaggio di ospedali, utilizzando concetti cari all’economia come sinergie e economie di scala, monofunzionali altamente specializzati. In questo modo ogni struttura sarà dotata di una sola funzione altamente qualificata e, ovviamente, di un pronto soccorso. questa dovrebbe essere la mission delle strutture pubbliche, lasciando al privato la vecchia gestione che svolge egregiamente, almeno in Lombardia nelle realtà che conosco.

  2. Piersante Sestini

    Mi sembra un’ennesima improbabile lezione che andrebbe appresa dal confronto fra realtà non confrontabili, come Italia e Stati Uniti.
    Oltretutto mi pare che l’articolista faccia una cattiva ed equivoca traduzione, da “assicurazione universale” a “copertura universale”, che non sono necessariamente la stessa cosa.
    Il nostro problema non è l’amerca, è confrontarsi con i paesi vicini a noi, che hanno tutti sistemi diversi dagli USA: Germania, Svizzera, Francia, Olanda….
    O per lo meno con gli altri paesi europei che hanno come noi un sistema di coprtura universale non assicurativo, come il Regno Unito o la Svezia.

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