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Quello che gli studi di settore non dicono

Se gli studi di settore devono essere uno strumento per combattere l’evasione fiscale, non solo devono funzionare meglio, ma devono anche fornire le informazioni “giuste”. Il generico inserimento nei modelli statistici dei nuovi indicatori di coerenza non è sufficiente ad ampliare la base imponibile. Bisogna risolvere il paradosso dei costi, che non entrano nella definizione dei ricavi, ma intervengono nella determinazione della base imponibile. Altrimenti, avere più contribuenti congrui equivale a crescita dell’evasione. Come è accaduto dal 2000 al 2003.

Quello che gli studi di settore non dicono, di Roberto Convenevole e Stefano Pisani

L’esigenza di trasparenza sui risultati degli studi di settore non è più eludibile. Negli ultimi mesi sono state poste le premesse per farli funzionare meglio. Ma una pacata valutazione dei possibili, e auspicati, esiti futuri non può prescindere da alcuni dati basilari, senza i quali il rischio è quello di continuare a dare numeri senza fornire informazioni.

Gli studi di settore prima della manovra di luglio

Nella tabella 1 sono riportati gli esiti dell’applicazione degli studi di settore a una platea di 3.193.175 imprese e professionisti nel 2004. Di questi, i soggetti in contabilità semplificata sono 1.567.394 (49,1 per cento) e rappresentano il 15,6 per cento dei ricavi dichiarati; il 18,6 per cento dei ricavi dei non congrui totali; il 24,5 per cento di quello che richiede il software Gerico; e infine il 61 per cento di tutto l’adeguamento effettuato.


Le contabilità semplificate rappresentano le imprese che possono essere accertate con lo strumento degli studi di settore e, dunque, hanno l’interesse ad adeguarsi preventivamente per evitare il rischio di un controllo. Con i provvedimenti del luglio scorso (Ddl 223) si è posto fine a questa restrizione logica, che derivava dai principi ispiratori della riforma del 1971-73: anche le imprese in contabilità ordinaria, cioè il 75 per cento dei ricavi dichiarati, saranno accertabili, rendendo più efficace l’argomento della deterrenza preventiva. Si rifletta sul fatto che sono occorsi quindici anni per realizzare qualcosa che era stato chiesto dal Secit nel 1991. (1)
Se dalla platea precedente estrapoliamo solo gli studi revisionati nel 2004, limitandoci alle imprese, otteniamo la tabella 2. Il peso delle contabilità semplificate sfiora ora il 20 per cento. L’ammontare complessivo richiesto a tutta la platea dal software Gerico è di 10.222 milioni di euro e 1.747 milioni rappresenta l’adeguamento effettuato dalle imprese (il 17,1 per cento di quanto richiesto). Il 71 per cento dell’adeguamento proviene dalle contabilità semplificate. Nel complesso le imprese che si sono adeguate hanno versato 235 milioni di euro di Iva e altri 84 milioni a titolo di Irap e imposte dirette. Le cifre riassunte rappresentano il comportamento osservato nel 2004, la base per i calcoli della Finanziaria relativi alla nuova coerenza.

La nuova coerenza

Come ha ricordato Alessandro Santoro, la Finanziaria 2007 ha potenziato gli studi di settore inserendo una nuova coerenza intesa in senso meno permissivo. Questa linea ha prevalso su un’altra, che suggeriva di introdurre l’adeguamento annuale di alcuni parametri monetari dal momento che gli studi invecchiano rapidamente e quei contribuenti che intendono persistere in comportamenti evasivi imparano alla svelta a neutralizzarli.
Santoro, e altri commentatori, osservano che la Finanziaria 2007 vuole marcare una svolta importante rispetto al recente passato e ha un risvolto finanziario interessante anche in termini di maggiori entrate. Le maggiori entrate scaturirebbero dalla crescita delle imprese non congrue sul totale della platea (nuova coerenza); dalla conseguente crescita dei ricavi attesi formulata dalla nuova versione del software Gerico; dalla crescita dell’adeguamento in dichiarazione rispetto ai livello documentati nelle tabelle e conseguente crescita additiva del gettito.
Ma questo risultato non lo si ottiene automaticamente, per il solo fatto di aver introdotto una nuova norma. È questa la differenza logica fondamentale tra gli studi di settore e i tradizionali strumenti di politica tributaria: qui la componente di gestione dei modelli statistici e di predisposizione degli indicatori è preponderante rispetto alle variazioni normative. Riemerge, pertanto, il ruolo cruciale della Sose, la Società per gli studi di settore. Dovrà garantire non solo il generico inserimento dei nuovi indicatori di coerenza, ma anche che questi riescano ad ampliare la base imponibile, contenendo la crescita dei costi: un obiettivo che la Sose non ha mai conseguito.

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Un paradosso da risolvere

Giova riflettere sui grafici seguenti. Mutatis mutandis riassumono una dinamica che si riscontra un po’ ovunque nei diversi settori di attività economica. Alla crescita della congruità nel corso del tempo, ha corrisposto la divaricazione tra andamento dei ricavi, comprensivi di adeguamento, e andamento del reddito tassabile. Si vede bene che la revisione del 2004 inverte la rotta, ma recupera solo in parte il terreno perso. Si arriva, dunque, al paradosso: dal 2000 al 2003 avere avuto più contribuenti congrui, sia naturali che per adeguamento, in un certo settore di attività economica equivale a crescita dell’evasione nel medesimo settore. Ciò si verifica perché gli studi di settore sono impotenti nella determinazione del reddito imponibile ai fini Irap e delle imposte dirette, essendo concepiti per determinare unicamente i ricavi delle piccole imprese. Pertanto, se si vorranno conseguire gli ambiziosi risultati che il presidente Prodi ha più volte richiamato e di cui la Finanziaria 2007 è solo il primo passo, deve essere risolto in maniera definitiva il paradosso dei costi: non entrano nella regressione che determina i ricavi, ma intervengono nella determinazione della base imponibile. Rimane poi irrisolta la questione dell’inserimento di un meccanismo di adeguamento annuale dei principali indicatori monetari, per evitare una dinamica a denti di sega.





(1)
La valutazione sui maggiori ricavi e redditi che le imprese e professionisti in contabilità semplificata avrebbero dovuto dichiarare per il 1989 in base ai coefficienti presuntivi “porta a suggerire come prima misura una estensione dell’area soggetta a regime presuntivo. Tale estensione dovrebbe avvenire indipendentemente dal regime contabile e dalla natura giuridica adottati dai soggetti che rientrino in un determinato volume di ricavi, opportunamente riconsiderato”. Vedi “La relazione del Secit ai coefficienti presuntivi”, in Notiziario fiscale, pag. 93, dicembre 1999, ministero delle Finanze.

Gli studi di settore e l’economia reale, di Luciano Sbraga

L’articolo a firma di Roberto Convenevole e Stefano Pisani sulle contraddizioni intrinseche ai meccanismi metodologici degli studi di settore merita una riflessione.
Gli autori puntano il dito sull’incapacità degli studi di far emergere, insieme ai ricavi, anche maggior reddito per effetto del cosiddetto paradosso dei costi, secondo il quale “i costi non entrano nella (funzione di) regressione che determina i ricavi, ma intervengono nella determinazione della base imponibile.”
L’osservazione si basa sul fatto che solo una parte dei costi (materie prime, personale, ecc.) entra nella funzione di regressione, mentre tutti i costi concorrono a determinare il reddito d’impresa.
In tal modo la funzione di regressione, fondamento dello studio di settore, se da un lato permette di spingere verso l’alto i ricavi, dall’altro si mostra inadeguata non tanto a divaricare la forbice tra costi e ricavi ma addirittura a lasciarla invariata, con evidenti svantaggi per l’amministrazione finanziaria.
Per sostenere la loro tesi gli autori utilizzano la serie storica dei ricavi medi (comprensivi di adeguamento) e dei redditi medi del settore della ristorazione nel periodo 2000-2004 da cui emerge una correlazione inversa tra dinamica dei ricavi e dinamica dei redditi.
Trascurando, almeno per ora, ogni considerazione sull’implicita correlazione positiva tra costi e ricavi non solo nell’ambito del modello di regressione ma anche e soprattutto nei reali processi gestionali delle aziende preme, in questa sede, porre l’accento sui limiti dell’approccio adottato dagli autori.
Il loro punto di vista pare eccessivamente autorefenziale, ovvero tutto interno all’osservazione dei meccanismi statistico-matematici degli studi, e trascura invece, almeno due questioni.

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La prima.

L’emersione di costi, in coerenza a quella dei ricavi, genera effetti positivi non solo sul piano socio-economico (regolarizzazione del lavoro, qualificazione della concorrenza, ecc.) ma anche sul piano fiscale e contributivo. Mettere in bilancio maggiori costi del personale o di acquisti di materie prime, o tutte e due le cose insieme, è un’operazione contabile che trae origine da comportamenti più trasparenti e, soprattutto, disvela una nuova struttura d’impresa.

La seconda.

L’analisi degli autori non sembra tenere in alcun conto il contesto economico nel quale le imprese operano. Ed infatti, la congiuntura economica degli ultimi quattro anni non fa neppure da sfondo alle argomentazioni sull’andamento divergente tra redditi e ricavi.
Eppure giova ricordare che la citata crescita dei ricavi è stata generata dall’applicazione del modello statistico su cui si fondano gli studi di settore, non già dagli impulsi provenienti dal mercato, che invece, sono stati di segno opposto.
Se avessero considerato la congiuntura avrebbero rilevato che il comparto della ristorazione ha attraversato, in quegli anni, una crisi assai profonda.
Nel periodo 2000-2004, come è facilmente verificabile per mezzo dei dati di contabilità nazionale, valore aggiunto, produttività e risultato lordo di gestione hanno subito significative battute d’arresto.

VALORE AGGIUNTO (mln. di euro a prezzi 2000)

PRODUTTIVITA’ (var. % sull’anno precedente)

RISULTATO LORDO DI GESTIONE UNITARIO

Il comportamento delle imprese non è, dunque, indifferente alle reali dinamiche del mercato. La crescita, su base statistica, di ricavi e costi nell’ambito di una fase non espansiva del ciclo economico genera effetti negativi proprio sul reddito.
Ma c’è un’altra questione, questa sì paradossale, che merita di essere indagata. Riguarda la crescita, nonostante la sfavorevole dinamica congiunturale, del numero delle imprese del settore.
Secondo i dati del sistema Asia nel periodo 2001-2004 il numero delle imprese del comparto “Alberghi e ristoranti” è cresciuto di oltre 7mila unità, attribuibile quasi interamente alle sole componenti della ristorazione.
L’aumento dei livelli di competitività non ha determinato, come in genere dovrebbe accadere, razionalizzazione dell’offerta ma addirittura il suo opposto. La spiegazione è che nei settori composti da micro-imprese, perlopiù a conduzione familiare, l’attività è fonte di reddito da lavoro piuttosto che da capitale, con la conseguenza che le imprese restano sul mercato anche quando divengono marginali.
Sarebbe interessante verificare, sempre con i dati degli studi di settore, la dinamica ricavi-redditi in un comparto come quello delle costruzioni che ha potuto beneficiare, negli ultimi anni, degli effetti di un ciclo economico fortemente espansivo.
Se alla crescita dei ricavi medi avesse corrisposto, anche in questo comparto, una flessione dei redditi medi allora saremmo in presenza di un corto circuito che indurrebbe a riconsiderare, sotto luce diversa, le simulazioni di Convenevole e Pisani.
Se, invece, le cose fossero andate diversamente, e cioè alla crescita dei ricavi avesse corrisposto almeno una tenuta, se non un aumento, dei redditi dovremmo ritenere, allora, che il fattore K sta proprio nella fase del ciclo economico e non nei limiti metodologici degli studi di settore.
Personalmente ritengo che la seconda ipotesi sia quella più vicina alla realtà.

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16 commenti

  1. Maurizio Gasparello

    Più che un commento, la mia è una curiosità: c’è qualcuno che sa dirmi se i “Phone Center” e i “Transfer Money ” sono soggetti ai parametri o agli studi di settore? Io non li ho trovati (veramente non ho trovato nemmeno il relatvo codice Istat…) e trovo davvero singolare che attività così redditizie (lo testimonia il fatto che si stanno espandendo a macchia d’olio) siano ignorate dal fisco.

    Maurizio Gasparello

    • La redazione

      Attualmente i “Phone center” sono colti in un cluster dello studio dedicato alle altre attività di servizi alle imprese non classificate altrove (ateco 74.87.8). La realtà commerciale è sempre in rapida evoluzione. Prima o poi anche l’ISTAT creerà un codice apposito.

  2. Riccardo Mariani

    Mi sembra che i paradossi segnalati dall’ Autore derivino dalla natura stessa degli Studi di settore.
    Venivano ipocritamente concepiti per catastizzare i ricavi quando in realtà cio’ che si voleva era una specie di “minimum tax”.
    Per come sono concepiti è naturale che una “minusvalenza” (per esempio) non venga ritenuta rilevante nella regressione statistica (e come potrebbe essere ritenuto tipico una componente straordinaria del reddito?).
    Per il resto ormai tutti i costi sono rilevanti nella regressione. Certo, alcuni meno di altri. Ma questo è normale altrimenti si renderebbe tutto più grezzo tornando ai Parametri.
    E’ anche ovvio che incentivino l’ evasione almeno nella stessa misura in cui la dissuadono: se si fissa una linea tutti sono incentivati ad avvicinarsi, sia quelli che stanno sotto che quelli che stanno sopra quella linea.
    Ma per recuperare evasione tramite controlli capillari non c’ era certo bisogno degli Studi di Settore. Bastavano le semplici ricostruzioni contabili di una volta. Anzi, direi che oggi il recupero è meno realistico: ci si limita a correggere la compilazione degli Studi e ad applicarli, anche in presenza di evasioni ben più alte.
    Per non parlare dello straordinario appesantimento burocratico di un simile strumento. Prendiamo le semplificate: oltre alla fotografia contabile (ulteriormente raffinata da un’ analisi dei costi più complessa) è necessario scattare una elaboratissima fotografia extracontabile. Gli impegni vengono raddoppiati alla faccia della tanto proclamate “semplificazione”.
    Una simile complessità sembra creata apposto affinchè un errore possa sempre emergere. Ma è così che si vuole catturare la fiducia del contribuente?
    Forse la cosa migliore è buttare tutto nel cestino ed affidare la lotta all’ evasione ad una drastica riduzione delle aliquote a parità di controlli.

    • La redazione

      La reazione istintiva a “buttare tutto nel cestino”, come suggerisce il lettore è comprensibile ma non è la soluzione migliore. Una realtà produttiva così frammentata come quella italiana impone di ricorrere a strumenti presuntivi. Gli studi di settore sono l’ultima tappa di un percorso iniziato a metà degli anni ottanta del secolo scorso con Visentini. Gli studi sono uno strumento molto sofisticato che va migliorato e soprattutto gestito bene giacché, al momento, rappresentano unicamente una potenzialità inespressa. Quando nell’autunno del 2002 si fece un convegno internazionale a Venezia, il giornalista Jean Marie del Bo (Il Sole 24 Ore) pose una domanda solo apparentemente retorica: Chi controlla i controllori? Giuseppe Vialetti rispose dicendo che il controllo degli esiti degli studi andava fatto ricorrendo a due strade empiriche entrambe basate su confronti con i flussi della contabilità nazionale: i consumi finali delle famiglie sul territorio (ad es. le province) ed il valore aggiunto Irap confrontato con il valore aggiunto ISTAT. Anche in quest’ultimo caso si può fare riferimento al livello provinciale per cinque settori macroeconomici cui ricondurre gli oltre 200 studi esistenti. Con l’articolo abbiamo voluto sollevare innanzitutto il problema generale della trasparenza: sino ad ora non c’è mai stata. Che il loro funzionamento fosse deludente se non contraddittorio venne sollevato alcuni anni fa da Giulio Tremonti che nella relazione di accompagno alla sua riforma fiscale (dicembre 2001, vale a dire cinque anni fa) parlò espressamente della necessità di “potenziare gli studi di settore”: lui per primo si era infatti reso conto che gli studi non consentivano di allargare la base imponibile. Tremonti, all’epoca, mise nel consiglio di amministrazione della Sose due studiosi del calibro di Ernesto Longobardi e Giuseppe Vitaletti: ai fini pratici dell’esito degli studi va però rilevato che la loro presenza non è riuscita a generare risultati. Si è così persa un’occasione importante dal momento che i due studiosi erano stati assieme a Tremonti tra i più convinti fautori dello strumento. Sarebbe interessante raccogliere la loro testimonianza.

  3. hominibus

    Se si adoperasse la BCF (Borsa dei cespiti fiscali) relativa a tutti i beni mobili ed immobili, esistenti sul territorio nazionale, unitamente alla Borsa titoli e merci, si potrebbe semplificare, unificare ed automatizzare la imposizione fiscale per tutti soggetti economici, privati e pubblici, civili, commerciali, industriali, utilizzando il valore corrente di mercato delle risorse nella disponibilità di ogni persona fisica e giuridica.
    In sostanza, bisogna abbandonare l’imposizione sul reddito a favore di quella sul patrimonio.
    In tal modo si premia la redditività, si rende uniforme l’impegno alla contribuzione e si riduce drasticamente l’imponente organico pubblico e privato predisposto per il gioco di guardie e ladri, con reciproco scambio di ruoli, tra stato e cittadini.
    Lo affermiamo da tempo, nella speranza di trovare corrispondenza presso LaVoce?. Potrà avvenire?

    • La redazione

      Da vari anni anche mia moglie sostiene la necessità di passare ad una tassazione generalizzata sul patrimonio abbandonando quella sul reddito delle imprese e del lavoro. Confesso di non essere attrezzato per discutere seriamente una proposta simile. La riflessione dovrebbe essere impostata da qualcuno tra i tanti studiosi di Scienza delle finanze esistenti in Italia. Ricordo, en passant, che molti anni fa il premio nobel americano Buchanan scrisse che la Scienza delle finanze era una disciplina eminentemente italiana che, purtoppo, non si era diffusa all’estero per via del ghetto linguistico che caratterizza la lingua di Dante. Per parte mia, rilevo che una voce logicamente e quantitativamente rilevante della BCF (Borsa dei cespiti fiscali) sarebbe rappresentata dagli immobili (tutte le tipologie delle unità immobiliari urbane e rurali). Ora, il catasto italiano si trova in coma profondo da alcuni decenni e non si riesce ad intravedere l’uscita dall’incubo che esso rappresenta per lo Stato e la collettività. Mi auguro di sbagliarmi ma ho la sensazione che anche le aspettative contenute nell’art. 4 del collegato alla finanziaria per il 2007 andranno deluse. Il catasto italiano è un ferrovecchio da buttare perché irriformabile. Metaforicamente è come se nelle Facoltà di economia si continuasse oggi ad insegnare l’Economia corporativa. Tale insegnamento aveva un senso prima della seconda guerra mondiale (cioè settanta anni fa) dal momento che rifletteva i valori culturali dell’epoca ed i rapporti di forza internazionali con i relativi schieramenti.
      Nessun Paese di capitalismo reale possiede un catasto simile al nostro in quanto a struttura logica interna. Ne dobbiamo prendere atto e voltare pagina.

  4. giorgio

    Le denunce dei redditi in italia si dividono in due categorie: LAVORATORI DIPENDENTI E ALTRI CON PARTITA IVA
    Mentre le prime sono di fatto sufficientemente esatte poichè i redditi sono dichiarati dai datori di lavoro le altre sono riconosciute ormai universalmente almeno fallaci (se non mendaci) e danno luogo all’impressionante fenomeno che un dipendente dichiara più del suo datore di lavoro!!
    Per equiparare le due macro categorie indicate – anche al fine di considerare equo ogni attuale riferimento al reddito denunciato – occorrerebbe dare la stessa possibilità ai Dipendenti di dedurre/detrarre dal reddito soggetto ad imposta OGNI TIPO DI SPESA DOCUMENTATA PER L’ACQUISTO DI BENI E SERVIZI PER OGNI NECESSITA’ RICONDUCIBILE ALLA GESTIONE DELL’IMPRESA FAMIGLIA.
    La gestione di una famiglia (nel senso più ampio del termine) ha infatti connotati di rischio e difficoltà non dissimili dall’impresa tant’è che lo Stato attraverso la fiscalità generale potrebbe di fatto sostenerla ed aiutarla da un lato e dall’altro avere il pregevole effetto di fare emergere molto della ricchezza in nero oggi contabilizzata solo nel PIL per mantenere l’Italia nel club dei paesi più industrializzati!!
    Più gettito verrebbe garantito nel medio termine – sul breve si potrebbe avere una prima flessione – tale per cui si potrebbe pagare meno tasse tutti o a parità migliorare i servizi resi alla cittadinanza in primis ISTRUZIONE e SANITA’ in un pregevole virtuosismo fiscale……

    • La redazione

      L’argomentazione del lettore è simile a quella di molti altri interventi a molteplici articoli a sfondo fiscale pubblicati su “La Voce”. L’invenzione del sostituto d’imposta per i dipendenti è dovuta a Bruno Visentini: dal 1974 in poi (adozione dell’Irpef) l’evasione fiscale da sport globale nazionale è diventato uno sport praticato massimamente dai titolari di partita Iva. Detto questo, ciò che si dovrebbe capire a fondo è che in quei Paesi europei dove non esiste il sostituto d’imposta (ad es. la Francia) c’è comunque molta minore evasione che in Italia. Pertanto l’evasione dipende, in estrema sintesi, dalla frammentazione del tessuto produttivo, da uno scarso senso civico e dalla debolezza storica dell’Amministrazione finanziaria. In un contesto simile, gli studi di settore dovrebbero svolgere le veci, entro certi limiti ed in senso metaforico, del sostituto d’imposta che hanno i dipendenti: le piccole imprese dovrebbero essere tassate ai fini delle II.DD. in base ad un reddito normale che sia accettabile e decente. Altre idee di tassazione (ad es. il mitico reddito effettivo) sono solo velleitarie come dimostra la storia degli ultimi 40 anni. Qui si innesta la nostra proposta di “gestire” in maniera etica gli studi di settore. Cosa che sino ad oggi non è stata fatta.

      L’idea di portare in detrazione alcune spese sostenute per la famiglia (si vedano i ripetuti interventi pubblici di Bruno Tabacci ed Antonio Di Pietro) è per un verso assolutamente condivisibile ma per un altro del tutto velleitaria: è irrealizzabile finché non si sarà verificato un robusto recupero di evasione.

      In Francia ed in altri Paesi esistono i quozienti familiari. Faccio un esempio limite che ho formulato per rispondere ad un lettore di “La Repubblica” che il 7 novembre aveva osservato che avere cinque figli in Italia è considerato un lusso dal Fisco. Se un cittadino con un reddito lordo di 100.000 euro vivesse in Francia avrebbe pagato all’erario 5.564 euro di imposta personale avendo la moglie e cinque figli a carico. In Italia, invece, con lo stesso reddito lordo il contribuente paga 33.708 euro. Non solo. Con identico reddito un altro redditiere se celibe in Francia pagherebbe 24.784 euro ed in Italia 34.390. Con la moglie a carico, e senza figli, il francese pagherebbe 16.878 euro. Si capisce pertanto che i due sistemi fiscali sono radicalmente diversi. In Italia l’architrave del sistema è l’imposta personale sul reddito mentre in Francia è l’Iva cioè l’imposta sui consumi finali: in termini resi omogenei, il gettito netto dell’Iva francese è del 25% maggiore del nostro nonostante aliquote medie più basse delle nostre. In presenza di un’evasione che da noi è più del doppio di quella francese (in rapporto al PIL), la diversa filosofia fiscale fa la differenza. In Francia il 42% delle famiglie è esentata dall’imposta personale. In Italia le famiglie le cui entrate non derivano da lavoro dipendente cercano di sottrarsi al prelievo fiscale e dunque praticano da sé i “quozienti familiari”. Quante sono? Uno, due, tre milioni? Non lo sappiamo con precisione ma qualche idea ce la possiamo fare. Come si esce da questa situazione? La sola strada possibile è quella di un graduale e costante recupero di base imponibile come indicato più volte dal presidente Prodi

  5. ciro daniele

    Convenevole e Pisani hanno indicato, con grande onesta’ intellettuale, alcuni limiti degli studi di settore, suggerendo, come soluzione, l’attribuzione di maggiori poteri discrezionali ai responsabili della formulazione dei criteri di congruita’. Hanno anche rilevato correttamente che gli studi di settore sono nati per rilevare il fatturato delle imprese, o al massimo il loro valore aggiunto, piuttosto che l’ammontare dei profitti, e che questa impostazione rischia addirittura di incoraggiare forme di elusione del reddito imponibile basate sulla mancata dichiarazione dei costi e dei corrispondenti ricavi. In realta’, si potrebbe avanzare anche una obiezione piu’ radicale sulla filosofia degli studi di settore, riguardante l’applicabilita’ della statistica alle decisioni su singoli individui. In fondo, tassare un’impresa in base a dei parametri medi, seppure molto sofisticati, e’ come multare indiscriminatamente tutti gli automobilisti che passano su un determinato tratto di starda dove, notoriamente, la stragrande maggioranza di essi supera i limiti di velocita’. Il risultato finale per le casse dello stato e’ lo stesso di un monitoraggio puntuale con l’autovelox, ma gli automobilisti sarebbero paradossalmente incentivati a correre di piu’. Vi e’ anche un altro argomento che dovrebbe consigliare un utilizzo piu’ prudente degli studi di settore, che si ricollega ad un tema molto caro al premio Nobel Tinbergen e al nostro comune maestro Federico Caffe: se un agente economico ha a disposizione N strumenti (in questo caso le voci del suo bilancio) e deve raggiungere M obiettivi (che qui sono i valori dei parametri richiesti da qualsiasi studio di settore), allora potra’ raggiungerli tutti simultaneamente (cioe’ dichiarare il fatturato e il reddito desiderati) a condizione che N sia maggiore di M. Visto che la fantasia contabile non puo’ essere limitata per legge, gli studi di settore rischiano di rincorrere inutilmente i “controstudi” dei commercialisti piu’ accorti.

  6. ciro daniele

    Un clamoroso esempio di questo insuccesso riguarda il fenomeno dello “splitting”, che consiste nel suddividere il reddito di un’impresa tra piu’ componenti dello stesso gruppo familiare (o di qualche PACS implicito), in modo da usufruire di aliquote marginali Irpef piu’ basse e di molti altri benefit. E’ anche grazie a questo semplice trucco (oltre ad una sapiente sequenza di aperture e chiusure di partite Iva) che la maggior parte dei commercianti, ristoratori e piccoli artigiani (o meglio ciascun membro della famiglia che gestisce effettivamente l’impresa) riesce a dichiarare i redditi ridicoli che scandalizzano periodicamente tutti i ministri delle finanze, ma che risultano del tutto congrui in base agli studi di settore. Ovviamente gli studi di settore hanno tentato in tutti i modi di contrastare questa pratica, imputando un reddito aggiuntivo piuttosto alto per ogni dipendente in piu’, ma non possono certamente spingersi oltre un certo limite per non penalizzare paradossalmente proprio le imprese che hanno piu’ dipendenti regolari. Che fare? Forse, a questo punto, si potrebbero rivalutare addirittura le proposte di Tabacci sulla detraibilita’ dell’Iva per i consumatori, oppure ripristinare pari opportunita’ di elusione per tutti i contribuenti, estendendo lo splitting anche ai dipendenti, come avviene nella vicina Svizzera. In tutti i casi, non mi sembra opportuno puntare troppo sugli studi di settore, anche perche’ un’applicazione rigorosa dei criteri di Basilea 2 per la concessione del credito provvedera’ a strangolare tutti gli evasori. Si tratta solo di resistere alle pressioni delle varie lobbies che punteranno ad un annacquamento di questi criteri per “salvaguardare” le piccole imprese.

    • La redazione

      Si condividono molte argomentazioni del lettore. Tuttavia non si ritiene praticabile la proposta di Tabacci e Di Pietro sulla detraibilità dell’Iva sui consumi finali delle famiglie perché contrasterebbe con la VI Direttiva della CEE che regolamenta l’Iva comunitaria. Sul tema più generale della detraibilità di alcune spese sostenute dai lavoratori dipendenti per la “produzione” del loro reddito sarebbe quanto mai opportuna una riflessione a tutto campo introdotta da qualche studioso che conosca bene la normativa statunitense.

  7. raffaello lupi

    Sono perfettamente d’accordo con l’assurdità di non aver inserito negli studi, per lunghi anni, i soggetti in cotnabilità ordinaria, ed è bene che anche la regola del “due su tre” sia saltata. Oggi però siamo al bivio tra due forme di rilevazione delle componenti positive del reddito, quella “statistica” in base agli studi e quella analitico-ragionieristica, in base agli scontrini, alla tracciabilità dei pagamenti, al disincentivo verso l’uso del contante, allo stesso contrasto di interessi, etc.. Non dico che una cosa escluda l’altra, solo che vanno coordinate. Lo studio di settore potrebbe dare luogo ad un reddito minimo, spostando sul contribuente la prova contraria in caso di incoerenza, ma senza precludere un convincente accertamento personalizzato di maggiori ricavi. Chi non è congruo con lo studio deve provare la propria “marginalità”, ma chi è congruo non è al sicuro, ove i suoi ricavi appaiano in concreto troppo inverosimili rispetto alle caratteristiche effettive dell’attività. Bisogna pensare che non si riuscirà mai a far pagare qualcuno su un reddito che non consegue, e che per convicerlo non si può certo dire che qualcun altro non paga su un reddito che consegue. E’ la limitazione oggettiva delle forfettizzazioni in un contesto di fiscalità analitica.
    Quanto alla generalizzazione del contrasto di interessi, mi pare che essa (oltre a stravolgere il concetto di reddito, visto che si deducono le spese di produzione non quelle di consumo) imporrebbe controlli ingestibili per l’amministrazione. Al più, il contrasto si può gestire in settori specifici, com’è accaduto per le ristrutturazioni edilizie.
    Comunque riproporrò l’articolo in esame su Dialoghi di diritto tributario (ovviamente citando la fonte) anche per stimolare il confronto tra giuristi ed economisti. Dopotutto il diritto tributario riguarda la determinazione giuridica della capacità economica!

  8. Manfredi Manfrin

    Francamente non so se gli studi di settore in linea di principio siano un abominio, ma in pratica vengono applicati anche a società nate da più di un anno. A queste, in base al livello dei costi sostenuti, si “impone” di dichiarare ricavi congrui.
    Ora una start-up in ambito high tech, ad es. nelle biotecnologie, può stare anche 5 o 6 anni senza avere ricavi, ma sostenendo costi (di esercizio e capitalizzati); e tali costi e investimenti vengono pagati da capitale di rischio e da debiti, in qualche caso da contributi pubblici.
    Ciò non toglie che queste società siano in perdita per anni (infatti la maggior parte di loro chiude).
    Però questo agli studi di settore non interessa; come difendersi da questa “prepotenza”?

  9. fabrizio pascale

    Sono un commercialista e vorrei fare diversi commenti in merito a quanto ho letto.
    1. gli studi di settore sono uno strumento imperfetto perchè, essendo costruiti su medie di settore, non possono definire con precisione la situazione di redditi/ricavi di tutti i soggetti del settore e perciò spesso mettono in difficoltà soggetti che non evadono. Se a questo si aggiunge una legislazione che tende a “blindare” il risultato dello studio con conseguente rettifica automatica dei redditi si ottiene che molti contribuenti onesti si troveranno a dover affrontare un contenzioso dall’esito incerto e proveranno un crescente risentimento e diffidenza rispetto allo Stato che rinuncia a tassarlo in base ai suoi redditi effettivi. Vi assicuro che accade con notevole frequenza.
    2. lo strumento studi di setore dovrebbe funzionare come segnalatore di posizioni anomale da verificare con accertamenti contabili e bancari che porterebbero a risultati concreti anche se non immediati
    3. il nostro vero problema fiscale è dato dall’amministrazione fiscale inefficiente: perchè in Germania tutte le società e le partite iva ricevono controlli DIRETTI ogni 2 o 3 anni e da noi no? è così che si disincentivano molti, anche se non tutti, i comportamenti scorretti.
    4. ricordiamo sempre che i dipendenti, la maggioranza dei contribuenti in Italia, contribuisce all’evasione quanto i soggetti con partita iva non chiedendo scontrini e fatture per prestazioni e beni che acquista. A questo proposito sono d’accordo sulla tracciabilità dei compensi, estesa anche alle imprese.
    5. deduzione dei costi sostenuti dai contribuenti: può funzionare se limitato ad alcuni settori per alcuni anni, in modo da far emergere il vero reddito in quegli anni e verificare i casi di anomale riduzioni di ricavi/redditi negli anni in cui la detrazione non si applica.

  10. Daniela Ceccon

    A proposito di studi di settore e parametri, vi espongo una questione che penso riguardi molti professionisti onesti, categoria di cui sono fiera di fare parte. Sono una giornalista free lance con partita IVA, che ho aperto nel 2004 avvalendomi del regime fiscale agevolato per le nuove iniziative (“forfettino”). Dal secondo anno (2005) assieme alla dichiarazione dei redditi ho compilato anche i parametri per i professionisti. Premetto che il mio codice attività (l’unico applicabile ai giornalisti) è 92400 – “attività delle agenzie di stampa”.
    Come tutti sanno, l’attività del giornalista, specialmente agli inizi, può non essere così redditizia ed è fatta di alti e bassi. Bene, nel 2005 ho dichiarato un volume d’affari di 16.553 euro (tutti dimostrabili con regolari fatture). Secondo i parametri io avrei dovuto guadagnare 21.259 euro. Dal momento che ho guadagnato troppo poco, mi si chiede quindi di adeguarmi versando IVA e imposte sostitutive sulla differenza che, a dire del fisco, io avrei percepito senza dichiararla. In pratica, mi trovo a dovere al fisco ulteriori 2000 euro abbondanti. La cosa più assurda è che io ho aperto la partita IVA perché era una delle condizioni poste dalla mia redazione per poter lavorare con loro, visto che lavorano solo con fatture. Quindi è assurdo che si sospetti che io abbia fatto del nero! Poi, dico io, se il sospetto c’è, che facciano dei controlli e dimostrino che effettivamente ho evaso. Ho sentito di colleghi che hanno dovuto rivolgersi ad un legale per cercare di risolvere la cosa. Io un legale non posso permettermelo, però non ho pagato l’adeguamento. All’agenzia delle entrate mi hanno detto di “documentarmi”, ed è quello che sto tentando di fare, anche se senza grandi risultati.
    La domanda è: ma questi parametri, su cosa si basano? Mi sembra strano che i giornalisti in media dichiarino 21.000 euro l’anno, vista la situazione di precariato continuo e instabilità in cui versa la categoria!

  11. Michele Mazza

    Non mi meraviglia che con il passare degli anni il numero dei contribuenti congrui aumenti sempre di più fino a rendere necessaria una revisione degli studi. L’analisi statistica è condotta su una base che ha tutto l’interesse ad uniformarsi, a tendere verso quella linea stabilita dagli studi, e questo vale sia per chi non l’ha raggiunta e che pur di evitare l’accertamento è pronto a dichiarare un maggior numero di ricavi sia per chi pur avendola di gran lunga superata cerca in tutti i modi di riavvicinarsi erodendo la base imponibile. L’adeguamento, si sa, non è solo quello in dichiarazione dei redditi, le rimanenze finali possono aumentare aumentando i ricavi ma al contempo costituendo il primo costo dell’anno successivo i costi possono moltiplicarsi, tutte pratiche da censurare, che danneggiano il nostro paese ma soprattutto che fanno sì che la profezia degli studi di settore si autoavveri senza che il reddito aumenti.

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