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Aspetti tecnici della proposta sui nullafacenti della P.A.

Su invito della Redazione, in seguito alla richiesta di diversi lettori, Pietro Ichino fornisce i dettagli tecnici della sua proposta di una iniziativa straordinaria contro il fenomeno dei nullafacenti nell’amministrazione pubblica. Interventi di Francesco Daveri, Andrea Ichino, Eugenio Nunziata e Carla Pellegatta.

Aspetti tecnici della proposta sui nullafacenti della P.A., di Pietro Ichino

I. – La proposta

I.1. – Valutazione

I.1.1. – La legge suddivide l’amministrazione statale in comparti e istituisce per ciascuno di essi un organo indipendente di valutazione (OIV), ove già non esista un organo cui sia affidata tale funzione; stabilisce inoltre le modalità di elezione di un membro dell’OIV da parte delle rappresentanze sindacali del comparto; attribuisce all’OIV il potere di autoorganizzazione e di determinazione delle sue articolazioni, nonché le dotazioni necessarie per il suo funzionamento.
I.1.2. – L’OIV ha il compito di valutare l’efficienza di ciascun ufficio o centro di attività e la sua utilità effettiva in relazione alle finalità istituzionali proprie di ciascuno di essi. L’OIV può avvalersi, per la propria attività, di tutte le strutture ispettive di cui il comparto è dotato; esso deve avvalersi anche delle informazioni prodotte dai sistemi di programmazione, controllo di gestione e valutazione della dirigenza operanti in applicazione del d.lgs. 30 luglio 1999 n. 286. Il primo esercizio di valutazione dell’OIV è dedicato a stimare la funzionalità di tali meccanismi, anche in riferimento all’applicazione delle sanzioni (non assegnazione di incentivi retributivi, rimozione dall’incarico, licenziamento) per mancato o incompleto raggiungimento degli obbiettivi.
I.1.3. – L’OIV ha inoltre il compito di valutare l’efficienza (intesa qui come capacità professionale e impegno personale a conseguire gli obbiettivi assegnati) ed efficacia dell’attività di ciascun addetto e – là dove possibile – la sua produttività (ovvero l’utilità effettiva dell’opera prestata in relazione alle finalità istituzionali proprie dell’ufficio o centro di attività); viene registrata anche la produttività negativa (il fatto, cioè, che il dipendente produca più danno che utilità, o presenti profili di pericolo per gli utenti o i colleghi; potrebbero rilevare a tal fine, per esempio, i reati commessi negli ultimi cinque anni in connessione con la sua prestazione lavorativa).
I.1.4. – In riferimento alla posizione dei singoli dirigenti, funzionari e responsabili di uffici o centri di attività la produttività individuale è identificata, ai fini della legge, con quella complessiva dell’ufficio o centro di attività da essi diretto.
I.1.5. – Il Governo adotta le misure organizzative necessarie per garantire che i metodi e i criteri di valutazione applicati dagli OIV dei diversi comparti siano tra loro coerenti e omogenei. Nello svolgimento della loro funzione in riferimento a centri di servizio al pubblico gli OIV si avvalgono anche delle valutazioni espresse dagli utenti.
I.1.6. – Entro sei mesi dall’istituzione l’OIV redige: a) un elenco dei dipendenti i cui indici di efficienza/efficacia e di produttività sono entrambi inferiori, pari o molto vicini allo zero, ai fini della procedura di riduzione degli organici; b) un elenco dei dipendenti i cui indici di efficienza/efficacia e di produttività sono nettamente insufficienti, secondo un criterio di normale diligenza e buon funzionamento dell’ufficio, ai fini della gestione degli incentivi economici. La valutazione dell’efficienza/efficacia e della produttività è compiuta per la prima volta con riferimento all’ultimo biennio; in seguito con riferimento all’ultimo anno.
I.1.7. – L’OIV comunica a ciascuno dei dipendenti inseriti nei detti elenchi gli elementi sui quali si basa la valutazione, invitandolo a una audizione e/o a presentare osservazioni scritte in proposito.
I.1.8. – A seguito dell’audizione degli interessati e delle indagini ulteriori che si rendessero opportune, i dipendenti ai quali viene confermata l’attribuzione degli indici minimi di efficienza/efficacia e produttività (elenco a), l’OIV ordina gli stessi in una graduatoria secondo il criterio prioritario dell’inefficienza personale; quindi, per pari grado di inefficienza, secondo il criterio della produttività effettiva; infine, a parità di collocazione secondo i due indici suddetti, secondo il criterio del carico di famiglia e dell’anzianità di servizio.
I.1.9. – Il criterio della produttività assume valore prioritario rispetto a quello dell’efficienza/efficacia nei casi di produttività negativa (v. I.1.3).
I.1.10. – Ai dipendenti inseriti negli elenchi di cui sopra non può essere erogato alcun elemento di retribuzione incentivante per un anno dalla pubblicazione degli stessi.
I.1.11. – Entro sei mesi dalla costituzione (o dall’entrata in vigore della legge se già costituito) l’OIV redige e comunica al Governo e alla Corte dei Conti un primo rapporto circa l’efficienza/efficacia e la produttività degli uffici o centri di attività e degli addetti del comparto, contenente anche una stima del numero dei lavoratori che risulteranno inseriti negli elenchi di cui al § I.1.6. I rapporti successivi sono predisposti e comunicati al Governo e alla Corte dei Conti con cadenza semestrale. Gli elenchi di cui al § I.1.6 e le graduatorie di cui al § I.1.8 vengono aggiornati annualmente.

I.2. – Riduzione degli organici

I.2.1. – La legge individua per ciascun comparto l’organo direttivo (OD) cui compete l’atto di recesso dal rapporto di lavoro nell’ambito della procedura di riduzione degli organici, i casi e i motivi per i quali l’OD può contenere il numero dei licenziamenti al di sotto della percentuale prevista.
I.2.2. – La legge prevede l’emanazione da parte del presidente del Consiglio dei ministri, per tre anni consecutivi, di un decreto per ciascun comparto indicante la percentuale di riduzione rispetto all’organico totale, sulla base delle valutazioni del rispettivo OIV circa i casi di efficienza e produttività nulle o irrilevanti, in modo che il numero dei licenziamenti risulti inferiore al numero dei dipendenti indicati nell’elenco a) e comunque non superiore all’1 per cento dell’organico complessivo nell’arco di un anno. Il primo decreto deve essere emanato entro tre mesi dalla presentazione del primo rapporto dell’OIV.
I.2.3. – In seguito all’emanazione del decreto, l’OD procede al licenziamento dei dipendenti con indici minimi di efficienza/efficacia e produttività, fino a concorrenza della percentuale fissata dal Governo, secondo l’ordine risultante dalla graduatoria composta dall’OIV.
I.2.4. – La legge esenta i membri dell’OD da qualsiasi rivalsa da parte dell’amministrazione per risarcimenti di danni che questa risulti tenuta a pagare a lavoratori il cui licenziamento sia stato annullato in sede giudiziale, salvi i casi in cui l’errata applicazione della procedura e/o della graduatoria abbia carattere doloso.

I.3. – Assistenza ai lavoratori licenziati

I.3.1. – Ai dipendenti licenziati nell’ambito della procedura di riduzione del personale viene erogato un trattamento speciale di disoccupazione pari all’80 per cento dell’ultima retribuzione, a condizione che essi non svolgano un’attività lavorativa retribuita e siano disponibili per tutte le iniziative di riqualificazione professionale e ricollocazione al lavoro; dopo il primo anno il trattamento si riduce al 66 per cento; dopo il secondo anno il trattamento si riduce al 50 per cento, per cessare dopo il quarto anno.
I.3.2. – Presso ogni Direzione provinciale del lavoro viene istituito un nucleo per l’assistenza intensiva (orientamento, informazione, avviamento alla formazione e al lavoro, controllo dello stato di disoccupazione e della disponibilità effettiva al lavoro) ai dipendenti pubblici licenziati nell’ambito della procedura.

I.4. – Impugnazione del licenziamento e litisconsorzio tra i lavoratori controinteressati

I.4.1. – Il lavoratore che impugna il proprio licenziamento ha l’onere di denunciare con precisione quello che ritiene essere l’errore nella graduatoria stilata dall’OIV, o l’errore nell’applicazione della graduatoria stessa da parte dell’OD, chiedendo l’autorizzazione all’integrazione del contraddittorio nei confronti del dipendente concretamente controinteressato secondo tale prospettazione.
I.4.2. – Il giudice del lavoro adìto, se valuta plausibile la prospettazione del lavoratore ricorrente, autorizza la chiamata in causa del dipendente controinteressato, il quale gode degli stessi diritti di difesa, in contraddittorio con il ricorrente.
I.4.3. – Con la stessa sentenza con la quale un licenziamento venga annullato, il giudice deve accertare la legittimità del licenziamento che avrebbe dovuto invece essere disposto dall’amministrazione (la quale può procedervi senza necessità di esperire ulteriori procedure e anche in pendenza di impugnazione della sentenza da parte del chiamato in causa).

 

II. – Le obiezioni e le risposte

II.1. – Che cosa prevede il diritto vigente in materia di licenziamento del dipendente pubblico per scarso rendimento?

A norma dell’art. 129 del vecchio Testo unico sull’impiego statale (Dpr 10 gennaio 1957 n. 3), “Può essere dispensato dal servizio l’impiegato divenuto inabile per motivi di salute (…) nonché quello che abbia dato prova di incapacità o di persistente insufficiente rendimento”.
Il nuovo Testo unico (Dlgs. 3 marzo 2001 n. 165) non contiene alcuna disposizione in materia di licenziamento disciplinare o per scarso rendimento del dipendente pubblico, ma si limita a stabilire che le vecchie norme legislative elencate in appositi allegati “a seguito della stipulazione dei contratti collettivi per il quadriennio 1994-1997, cessano di produrre effetti per ciascun ambito di riferimento (…) in quanto contenenti le disposizioni espressamente disapplicate dagli stessi contratti collettivi” (art. 71). Per alcuni settori (per esempio, quelli della sanità, dell’università, degli enti di ricerca) il vecchio art. 129 è indicato nell’allegato A) tra le norme destinate a essere sostituite dalla contrattazione collettiva; curiosamente esso non è indicato per il settore della scuola.
Il dato legislativo attuale è dunque molto confuso. Si può affermare con sicurezza che, in linea teorica, anche il dipendente pubblico, come e persino più di quello privato, può essere licenziato per scarso rendimento, se non altro in applicazione del principio generale della prevalenza dell’interesse pubblico al buon andamento dell’amministrazione; ma l’assenza di una normativa chiara in proposito favorisce l’inerzia della dirigenza su questo terreno.
Quanto alla contrattazione collettiva, in genere essa indica “il perdurare di una situazione di insufficiente scarso rendimento dovuta a comportamento negligente, ovvero qualsiasi fatto grave che dimostri la piena incapacità ad adempiere adeguatamente gli obblighi di servizio” come motivo di licenziamento (così, ad esempio, l’art. 25, comma 2°, lett. f, del contratto collettivo per i dipendenti dei ministeri 1998-2001). Ma queste disposizioni sono di fatto totalmente disapplicate.

II.2. – Quanti licenziamenti per scarso rendimento si registrano nella pubblica amministrazione?

Nei repertori di giurisprudenza degli ultimi dieci anni non si trova un solo caso di licenziamento per scarso rendimento. L’estensione della ricerca ai due o tre decenni precedenti darebbe probabilmente esito identico. Se ne trae conferma dal dato di esperienza comune, per cui nel settore pubblico di fatto tale licenziamento non viene praticato. Conseguentemente non esiste un limite minimo di rendimento al di sotto del quale l’impiegato rischi effettivamente il licenziamento. Le prime vittime di questa situazione sono i veri lavoratori pubblici, quelli che fanno anche il lavoro dei nullafacenti ma hanno lo stesso trattamento (o un trattamento molto peggiore, se sono ingaggiati come precari) e soffrono del discredito generale in cui è indifferenziatamente tenuta l’intera categoria.

II.3. – Perché non accade mai che l’impiegato pubblico con rendimento zero venga licenziato?

Di fatto nessun dirigente si assume la responsabilità di licenziare un dipendente, salvo che quest’ultimo sia stato condannato a molti anni di reclusione e li stia effettivamente scontando (la sola condanna, con la condizionale, in genere non basta), perché non ha alcun incentivo a farlo, mentre ne è dissuaso da rilevanti disincentivi. Innanzitutto dall’opposizione interna – anche (ma non solo) di natura sindacale – che si solleverebbe contro una decisione di questo genere. Inoltre dal rischio della responsabilità personale: se per caso il giudice del lavoro annulla il licenziamento e condanna l’amministrazione al risarcimento del danno, l’incauto dirigente può essere chiamato a pagare personalmente. Questo è il motivo per cui il licenziamento di una quota non irrilevante di nullafacenti in un lasso di tempo relativamente contenuto (come può essere quello di due o tre anni) è realisticamente prospettabile soltanto nel quadro di una riduzione di organico stabilita per legge, con la previsione dei criteri prioritari di scelta dell’inefficienza e dell’improduttività.

II.4. – Ci sono precedenti di procedure di licenziamento collettivo attivate per legge?

Qualche cosa di analogo è accaduto recentemente, su larga scala, per le Ferrovie dello Stato e per le Poste Italiane, ma con due importanti differenze:

– entrambe le aziende erano state privatizzate;
– in quei casi la legge ha previsto l’attivazione di un fondo speciale per il prepensionamento dei lavoratori cui mancassero non più di cinque anni per il pensionamento di anzianità o di vecchiaia. Il criterio di scelta era dunque essenzialmente quello della maggiore anzianità contributiva.

II.5. – L’opinabilità dell’applicazione dei criteri di scelta riferiti a inefficienza e improduttività non rischia di produrre una grande quantità di ricorsi giudiziali, con esiti discordanti, nei quali l’operazione finirebbe coll’insabbiarsi?

Un rischio di questo genere c’è, come mostrano le rassegne di giurisprudenza sui licenziamenti collettivi nel settore privato; ma può essere ragionevolmente ridotto. Il problema nasce dal favore istituzionale (e umanamente ben comprensibile) dei giudici del lavoro nei confronti del lavoratore licenziato, che li induce a preferire di volta in volta la tesi in materia di criteri di scelta che porta all’annullamento del provvedimento, anche con sentenze tra loro contrastanti. Questo problema di contrasto di giudicati sulla stessa procedura può essere risolto con la regola del “litisconsorzio necessario”, cioè la regola per cui il lavoratore che impugna il licenziamento deve indicare l’errore commesso dall’organo di controllo e conseguentemente chiamare in causa, debitamente autorizzato a ciò dal giudice, l’altro lavoratore che egli ritiene debba essere licenziato secondo la graduatoria corretta (v. sopra, I.4.1-2); la sentenza con la quale il giudice eventualmente accerti l’errore nella compilazione o applicazione della graduatoria e annulli il licenziamento deve contestualmente accertare la legittimità del licenziamento sostitutivo (I.4.3): questo responsabilizza il giudice circa l’effettività della riduzione del personale disposta dalla legge.

II.6. – Alcuni sindacalisti del settore pubblico hanno obiettato che questa regola comporterebbe di istigare i lavoratori alla delazione.

Non è così: in un licenziamento per riduzione del personale, quale sarebbe quello di cui stiamo parlando, vi è sempre una obbiettiva contrapposizione di interessi tra i lavoratori che si trovano in fondo alla graduatoria. Come ogni contrapposizione di interessi, essa deve potersi esprimere in giudizio alla luce del sole. E il giudice deve poter decidere sentendo le ragioni dei due o più lavoratori la cui sorte dipende dalla sua decisione.
Durezza eccessiva? No: è il solo modo per garantire a tutti la possibilità di difesa in giudizio, senza che questo determini il rischio di giudicati contrastanti sulla stessa procedura di riduzione di personale. In altre parole: occorre una disciplina processuale che garantisca l’effettività della procedura non meno della sua correttezza e del sacrosanto diritto di difesa del singolo lavoratore interessato.

II.7. – Lo scarso rendimento può non essere dovuto a un difetto di impegno del lavoratore, ma a cause organizzative, a errori imputabili ai dirigenti, a sovradimensionamento degli organici. Non è iniquo colpire anche lo scarso rendimento incolpevole?

La proposta prevede che l’organo indipendente di valutazione predisponga la graduatoria sulla base di due criteri prioritari: quello dell’inefficienza (scarso impegno personale o incapacità professionale) e quello dell’improduttività effettiva (che può essere dovuta anche a circostanze obbiettive, oppure a disorganizzazione, o a sovradimensionamento). È dato di esperienza comune che sono molti i casi in cui sono pari o vicini a zero gli indici relativi a entrambi i criteri; e comunque la proposta prevede che la percentuale di riduzione del personale sia determinata dal Governo in modo che il numero dei licenziamenti sia inferiore al numero di quei casi (§ I.2.2); così non si rischia di colpire coloro la cui improduttività è dovuta esclusivamente alla situazione organizzativa o a circostanze esterne.
Quando gli indici di efficienza/efficacia e di produttività sono entrambi pari o vicini allo zero, nell’industria privata il lavoratore viene quasi sempre licenziato; nel settore pubblico questo, invece, come si è visto, in Italia non è mai avvenuto. In ogni caso, non si vede perché una riduzione di organico – posto che questo è l’obbiettivo immediato che si intende perseguire – non dovrebbe poter essere attuata applicandosi quei criteri e commisurandosi la riduzione stessa al numero dei casi di inefficienza colpevole e di incompetenza professionale grave: non dimentichiamo che, secondo i principi generali che vigono nella pubblica amministrazione, l’interesse al buon funzionamento della stessa dovrebbe prevalere sull’interesse della singola persona che ne dipende (oggi accade invece sistematicamente il contrario). In ogni caso non si vede alcuna contraddizione logico-giuridica tra l’obbiettivo diretto dell’operazione (riduzione dell’organico e dei costi) e l’obbiettivo ulteriore indiretto, consistente nella stimolazione dell’efficienza della struttura
Altro discorso è quello relativo all’assistenza che deve essere prestata a chi perde il posto per questo motivo; ma si tratterà di assistenza, appunto, e non di stipendio. Chiamare le cose con il loro nome è un primo passo importante per rilanciare la cultura delle regole e per risanare il settore pubblico.

II.8. – In questo modo non si maschera un licenziamento sostanzialmente disciplinare presentandolo impropriamente come un licenziamento per riduzione di organico? Questo non potrebbe costituire un aspetto di incostituzionalità della legge?

No: il licenziamento è effettivamente collettivo, risponde effettivamente a una esigenza generale di contenimento dei costi; e non perde questa natura per il fatto che venga applicato un insieme di criteri tra i quali il primo è quello che fa riferimento allo scarso impegno del lavoratore e al suo difetto di competenza professionale. È questo il motivo per cui nel progetto si prevede che

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– il difetto di rendimento venga preso in considerazione, ai fini del licenziamento, soltanto nei casi in cui il rendimento stesso è pari o molto vicino allo zero;
– in questi casi al difetto di impegno personale e/o di competenza professionale, come causa dello scarso rendimento, venga attribuito valore prioritario per la determinazione della graduatoria;
– in ogni caso l’inclusione nella graduatoria sia preceduta da una notificazione della valutazione dell’OIV al lavoratore interessato, con possibilità per quest’ultimo di farsi sentire dall’organo stesso e di presentare controdeduzioni prima della conferma della graduatoria (col che si soddisfa il principio del contraddittorio, per la parte di questa procedura nella quale può assumere rilievo un inadempimento o comportamento colposo del lavoratore interessato).

In altre parole: il licenziamento è fondamentalmente giustificato dalla necessità di ridurre l’organico in funzione del contenimento della spesa pubblica; è coerente con tale finalità l’adozione, come criterio di scelta dei lavoratori da licenziare, del dato obbiettivo dello scarso o nullo rendimento; nell’ambito dei lavoratori il cui indice di produttività è vicino, pari o inferiore a zero, vengono licenziati – come è equo e ragionevole – quelli il cui scarso rendimento è imputabile a difetto di impegno personale e/o di competenza professionale.

II.9. – Come si concilia un licenziamento per riduzione del personale, quale quello qui proposto, con l’eventuale successiva o contestuale assunzione di lavoratori precari in sostituzione dei licenziati?

I collaboratori continuativi formalmente autonomi, di cui le amministrazioni pubbliche si avvalgono largamente, sono in realtà dei dipendenti mascherati: fanno già parte della forza-lavoro dell’amministrazione, ancorché con uno status deteriore. La loro immissione in ruolo non è dunque, sostanzialmente, un’assunzione di nuovo personale, ma soltanto la regolarizzazione di personale già in forza. D’altra parte, non si può parlare di “sostituzione” di un lavoratore a un altro quando a essere licenziata è una persona che di fatto non svolgeva un’attività utile, mentre a essere immessa in ruolo è una persona che da tempo svolge un’attività utile per l’amministrazione e continuerà a svolgerla.

II.10 – Quanti sono i nullafacenti e perché sono soprattutto nel settore pubblico?

In un articolo in corso di pubblicazione sulla Rivista italiana di diritto del lavoro il prof. Vito Tenore, magistrato della Corte dei Conti e docente della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze, scrive a questo proposito:

“La figura del dipendente ‘nullafacente’ (…) è una categoria da tempo socialmente nota, perchè visibile e tangibile all’interno e all’esterno della pubblica amministrazione a tutti i livelli, nessuno escluso. (…) La quantificazione, in termini percentuali, di tali sacche di inefficienza (rectius, di inutile presenza nella p.a.) è tuttavia allo stato impossibile, non essendoci studi in materia, né referti della Corte dei Conti o di organismi di controllo interno sul punto (…).
“Quali sono le ragioni che portano alla nascita e alla tollerata permanenza di tali ‘nullafacenti’ all’interno della p.a., la cui azione deve doverosamente ispirarsi al buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione? A nostro avviso le ragioni sono essenzialmente due: l’eccesso di personale in alcuni uffici a fronte del modesto carico di lavoro gravante sugli stessi e la tolleranza dei vertici di alcuni uffici (leggasi i dirigenti di struttura), ove il lavoro da espletare esiste, nei confronti di tali patologici fenomeni di stasi o lentezza.”

Si legge ancora nello stesso articolo:“Per un dirigente pubblico (e per gli organi di controllo interno delle p.a.) è doveroso effettuare una meticolosa ricognizione del carico di lavoro gravante sul proprio ufficio e della forza lavoro idonea, numericamente, a gestirlo. Per un dirigente pubblico è inoltre doveroso perseguire disciplinarmente chi non lavora: su quest’ultimo punto la proposta (…) di istituire un organismo indipendente di valutazione sul rendimento minimo e la massima inutilità della prestazione lavorativa è senza dubbio interessante (…).
“Il licenziamento del nullafacente non è dunque né una proposta provocatoria e innovativa, né una soluzione inaccettabile, come ritenuto da taluni sindacalisti: è una soluzione già esistente nel diritto positivo (…).
“Il problema, a fronte di tale concreto e vigente strumento repressivo, è tuttavia quello della stasi della pubblica dirigenza, motore dell’azione disciplinare, sistematicamente inerte a fronte di comportamenti di scarso rendimento dei propri subordinati per varie motivazioni extragiuridiche: indifferenza verso il fenomeno, scarso interesse alla pur sbandierata logica dei risultati nella p.a., umana pavidità per timore di ritorsioni (spesso dei vertici, politici, gestionali e sindacali, referenti del ‘nullafacente’), retaggi culturali buonisti (‘ho famiglia, anche il nullafacente in fin dei conti ha famiglia’), interesse a non turbare equilibri interni, etc. E questo disinteresse è un antico problema di cultura gestionale (…) tipico della p.a. e raramente riscontrabile nell’impiego privato. (…)
“La Corte dei Conti in sede di referti al Parlamento (ben 5 sulla materia disciplinare) e la dottrina sul piano scientifico, hanno crudamente evidenziato, sulla scorta di dati giudiziari e di attente e documentate ricognizioni all’interno di moltissime amministrazioni, lo scarso uso nella p.a. dell’azione disciplinare per i motivi sopra evidenziati. (…) Il prius rispetto a qualsiasi intervento correttivo o repressivo del fenomeno è però dato dal suo accertamento: a fronte della evidenziata inerzia degli attuali soggetti (dirigenti capi struttura) preposti contrattualmente a segnalare e reprimere lo scarso rendimento (o del totale non rendimento) di alcuni pubblici dipendenti, la istituzione di un organo terzo (…) per l’accertamento di ‘nullafacenti’ all’interno della p.a. appare una soluzione condivisibile sul presupposto della reale terzietà dei membri di tale organismo, (…) prescelti per la loro competenza tecnica e per la loro non dipendenza gerarchica dai vertici dell’amministrazione controllata.”

 

* Stante il grande numero dei commenti e delle questioni che essi pongono, Pietro Ichino risponderà a tutti organicamente nei giorni prossimi, limitandosi per ora ad alcune brevi risposte soltanto su alcuni punti.

Risposta ad alcune domande

La proposta di Pietro Ichino di una iniziativa straordinaria contro il fenomeno dei nullafacenti nell’amministrazione pubblica ha suscitato molto interesse fra i nostri lettori. Alla redazione de lavoce.info sono arrivati molti commenti, domande e richieste di chiarimenti. Abbiamo riassunto inizialmente alcune domande ricorrenti nei tre quesiti che seguono; altri numerosi commenti e domande sono inseriti di seguito alla scheda, con le relative risposte.

1) Per la maggior parte dei lavori la produttività non può essere misurata. Per esempio, come si misura la produttività di un usciere o di un bidello? E per una segretaria?

R. Qui parliamo di “valutazione”, nel senso che la parola assume sul piano giuridico: niente a che vedere con la “misurazione”. Per qualsiasi lavoro si può esprimere una valutazione circa la sua utilità rispetto agli scopi dell’istituzione o rispetto a un’attività aziendale. Anche di un bidello si può, per esempio, dire che svolge un’attività indispensabile, che svolge un’attività utile anche se in un organico sovradimensionato, oppure che svolge un’attività del tutto inutile, perché nella scuola non ci sono più studenti da tempo. L’Oiv, come già fanno gli organi di valutazione nelle aziende private, in questi casi dovrebbe limitarsi a dare una valutazione di questo genere, distinta rispetto a quella della capacità/competenza e da quella dell’impegno personale.
D’altra parte, qualsiasi lavoratore, anche l’ultimo degli uscieri, può esprimere una produttività negativa, per esempio rubando, o molestando le colleghe, o tenendo altre attività illecite nel luogo di lavoro. Nella scuola ci sono per esempio i casi di vendita dei voti, di atti di libidine sugli allievi, ecc., che attualmente portano al licenziamento solo se il lavoratore resta in galera per lunghi periodi. Questi sono casi di produttività negativa, che può anche coniugarsi con grande competenza professionale, e persino con il grande impegno produttivo (il postino che ruba dalla corrispondenza può anche essere ineccepibile, per il resto, nella sua prestazione), ma che devono poter portare al licenziamento, interrompendo un andazzo amministrativo e una giurisprudenza più che lassista ormai pluridecennali.
Detto questo, si può correggere o perfezionare la terminologia utilizzata, non chiedo di meglio: è questo un settore in cui noi giuristi abbiamo tutto da imparare dagli economisti e dagli studiosi delle organizzazioni. In ogni caso sarebbe molto opportuno che la nostra terminologia si uniformasse a quella economica e delle scienze dell’organizzazione. Questa può essere un’ottima occasione per sperimentare un confronto interdisciplinare incominciando dal piano lessicale.

2) Quello che il professor Ichino propone, sembra possa applicarsi solo allo Stato. È cosi?

R. La legge statale può disporre un meccanismo di questo genere in riferimento all’amministrazione statale e agli enti pubblici sottoposti al controllo statale. La legge regionale può farlo in riferimento all’amministrazione regionale.

3) La riforma del Titolo V, e varie sentenze della Corte costituzionale hanno reso nulle (a livello locale) varie iniziative di blocco del turnover deciso a livello centrale. Come pensa di affrontare il problema?

R. Vale anche in questo caso la risposta alla seconda domanda. E un’iniziativa statale avrebbe un effetto di trascinamento anche rispetto alle amministrazioni regionali e locali.

Pubblico impiego, nullafacenti e dintorni, di Carla Pellegatta*

La discussione sui temi del pubblico impiego pone problemi reali, ma rischia di alimentare facili generalizzazioni e luoghi comuni, secondo i quali tutti i mali del settore pubblico deriverebbero dalla “fannulloneria” dei dipendenti. Quando si parla di lavoro pubblico si pensa generalmente agli “statali” non meglio identificati, dimenticando che appartengono a questa categoria le forze dell’ordine, i vigili del fuoco, gli operatori della sanità, oltre ad altre categorie, dai lavoratori della scuola a quelli del trasporto pubblico o degli enti locali. Tutto bene, dunque? Assolutamente no.

Quanto costa la frammentazione

Negare l’esistenza, in molti di questi comparti, di sacche di inefficienza e di vera e propria fannulloneria sarebbe negare l’evidenza. In alcuni settori pubblici questo fenomeno è più accentuato che in altri e trae origine da molteplici fattori sicuramente soggettivi, ma anche culturali e strutturali legati alla farraginosità e alla macchinosità della burocrazia italiana a tutti i livelli, con buona pace delle piccole e insufficienti innovazioni introdotte con la cosiddetta semplificazione amministrativa.
Da almeno trent’anni si discute in Italia di superamento del municipalismo, di eliminazione delle province. L’esasperata frammentazione comunale rappresenta uno spreco già di per sé. Basti pensare ai costi connessi al mero funzionamento della macchina comunale (anche della più piccola), per non dire dell’organizzazione e della gestione dei servizi pubblici essenziali.
Per quanto riguarda le province, poi, non solo non si parla più del loro superamento, ma si assiste costantemente alla loro ulteriore proliferazione, spesso giustificata solo dall’interessamento “interessato” del politico di turno.
I pochi tentativi messi in atto per spingere i comuni più piccoli a consorziarsi fra di loro per realizzare non solo economie di scala, ma anche servizi più efficienti, non hanno sortito grandi risultati e, soprattutto, non hanno prodotto alcun effetto “a catena”.
Quanto incidono questi e altri fattori sul grado di inefficienza e sui costi della pubblica amministrazione?
Quanto incide sui bilanci dei comuni e di non poche altre aziende l’eccessivo, e spesso ingiustificato, ricorso al lavoro straordinario, praticato a man bassa in troppi uffici pubblici e finalizzato in qualche caso a costruirsi una sorta di doppio lavoro?

Dirigenza e organizzazione del lavoro

Ma se tutto questo corrisponde al vero, si pone anche un altro problema, che riguarda il ruolo della dirigenza e il suo ricorso sempre più massiccio alle consulenze esterne su questioni che dovrebbe essere in grado di affrontare e risolvere.
Accanto a dirigenti pubblici competenti e capaci, ce ne sono molti altri approdati a livelli di vertice semplicemente per anzianità o con pseudo-concorsi, a prescindere dalle reali capacità.
Quanto incidono, in termini di costi e di inefficienza, queste figure? Quanto incidono le consulenze pagate a peso d’oro? Quanto incidono, infine, sempre sul piano dei costi, i consigli di amministrazione, le commissioni di gara d’appalto, le commissioni di concorso, pagate con gettoni di presenza anche a persone già dipendenti delle stesse aziende e convocate a ripetizione?
Naturalmente non intendo sottrarmi da sindacalista alle questioni delle quali oggi si discute: licenziamenti, mobilità fra enti, incentivi, produttività.
Da anni il rapporto di lavoro pubblico è stato contrattualizzato per cui gli strumenti, sotto questo profilo, non mancano. Certo, il licenziamento è sempre la soluzione estrema e di per sé, salvo nel caso di licenziamento per ragioni disciplinari, non appare risolutiva dei problemi di inefficienza complessiva che hanno origini ben più complesse e che chiamano in causa anche chi avrebbe l’obbligo di organizzare il lavoro e di verificare che venga svolto al meglio.
Il tema centrale è quello dell’organizzazione del lavoro che passa anche dalla necessità di intervenire con più coraggio sull’articolazione degli orari, dall’innovazione e dalla semplificazione amministrativa, dal lavorare per obiettivi di produttività e redditività effettivamente misurabili, dal taglio drastico (dove è possibile) del ricorso alle ore straordinarie, dalla diversificazione del salario di produttività che dev’essere ancorato a parametri verificabili.
Su questo terreno nei contratti pubblici molte cose sono già scritte da anni. C’è per un verso un ritardo culturale del sindacato (anche nei settori privati), che stenta – magari per opportunismo o per un mai sopito massimalismo – a riconoscere le differenze in termini di professionalità e di qualità del lavoro del singolo o di gruppi di lavoratori, ma c’è anche – e non pesa di meno – una arretratezza delle controparti pubbliche che tendono ancora oggi a misurare la produttività sulla “presenza” e che cercano di imporre sistemi di valutazione nei quali prevale la pura discrezionalità, senza alcun legame oggettivo con la qualità del lavoro.

Stipendi troppo modesti

Da ultimo, e non certo per ordine di importanza c’è, a monte, un problema che riguarda tutto il mondo del lavoro dipendente italiano, ed è la modesta consistenza economica delle retribuzioni medie, sia nel pubblico che nel privato. Gli stipendi italiani sono fra i più bassi d’Europa, anche se il costo della vita da noi non è quello di altri paesi, per non dire del sistema di welfare e del grosso problema degli ammortizzatori sociali aggravato dalla crescente precarietà del lavoro.
Allora, nessun tabù, discutiamo pure di tutto a 360 gradi, ma un governo che pensa, giustamente, di mettere mano alle inefficienze e alla “fannulloneria” che pure esistono (anche se non vanno enfatizzate o generalizzate), dovrebbe agire su più versanti, magari cominciando dai ministeri, accorpando competenze e funzioni, razionalizzando uffici, eliminando sprechi, tagliando super stipendi e super pensioni di dirigenti e manager pubblici anche per dare segnali di credibilità oltreché di moralità. E non si dica, per favore, che non sono certo quei soldi a essere determinanti per il destino del paese e che questa è demagogia. Provate un po’ a lavorare un mese e a mantenere una famiglia con 800 (ottocento) o 1.000/1.200 euro al mese. Roba da non potersi permettere neanche un week end a Rimini in febbraio, come vorrebbe Francesco Rutelli.


*Segreteria generale CGIL – Verona

Misurare la produttività dei dipendenti pubblici: una missione impossibile? di Francesco Daveri

Pietro Ichino ha proposto di istituire organi indipendenti di valutazione (Oiv) con la funzione di valutare la produttività dei dipendenti pubblici. L’obiettivo dichiarato degli Oiv è quello di arrivare a classificare i singoli dipendenti nei vari comparti della pubblica amministrazione secondo una graduatoria di efficienza. La proposta coglie un punto molto sentito dall’opinione pubblica (l’inefficienza della pubblica amministrazione) ma mai toccato da legislatori e politici nella storia d’Italia. Del problema, Ichino prova coraggiosamente a offrire una soluzione tecnica. Che dà, però, per risolti due problemi di difficile soluzione: ciò limita le potenzialità della proposta stessa, ma ne suggerisce anche una differente modalità di attuazione.

Come valutare mansioni differenti? Come valutare mansioni non ugualmente osservabili?

Nella maggior parte dei casi, i lavoratori svolgono più di una funzione, nel senso che ogni mansione è composta da una pluralità di compiti.
Nel settore privato, è comunque possibile misurare la produttività di un lavoratore in modo relativamente non controverso, perché i lavoratori delle imprese private concorrono a produrre beni o servizi che hanno un prezzo di mercato. Il mercato funziona meglio con beni materiali. Ma, nella misura in cui riesca a fornire un valore alla qualità e alle componenti immateriali, va spesso bene anche per i servizi. Dunque, il contributo produttivo in unità fisiche di ogni lavoratore può essere quantificato moltiplicando il prodotto del lavoratore per il suo prezzo di mercato. Questo prodotto complessivo può quindi essere commisurato allo stipendio che l’impresa paga al lavoratore. E si può capire se un lavoratore privato è un nullafacente.
Lo stesso procedimento non funziona con i dipendenti pubblici. Nella maggior parte dei casi essi offrono un bene o servizio non destinabile alla vendita. Se un professore universitario deve insegnare e fare ricerca, per valutare la sua produttività occorrerà ponderare nella sua valutazione la sua capacità didattica con quella di fare ricerca. Se c’è qualcuno più bravo a fare una cosa e un altro più bravo nell’altra, occorre aggregare le due (o tante mansioni) per ottenere una misura della produttività del professore universitario. Il problema è che non ci sono parametri oggettivi per aggregare queste informazioni, se non assegnando a qualcuno (il preside della facoltà, il rettore, il direttore amministrativo) il compito di fissare i criteri di ponderazione – un compito che nel settore privato può essere svolto in modo impersonale e anonimo dai prezzi.
Si potrebbe dire: va bene, non per tutte le mansioni possiamo misurare la produttività, ma di sicuro per qualcuna sì. Concentriamoci su queste ed eliminiamo i nullafacenti. Poi si vedrà. Non è così semplice. Soprattutto, non si può pensare di identificare i nullafacenti, senza anticipare che la predisposizione di un meccanismo come questo provoca effetti su tutti gli altri che nullafacenti non sono.
Alcuni di questi effetti sono positivi (tutti sarebbero indotti a darsi da fare di più). Nello stesso tempo, però, molti potrebbero essere indotti a concentrare la loro attenzione sulle componenti del loro lavoro osservabili dagli Oiv, diminuendo la loro attenzione per le altre mansioni. Si dà, infatti, il caso che la missione di ognuno sia spesso composta di una parte misurabile e una non misurabile (è facile misurare se un professore universitario si presenta a fare lezione nell’orario prescritto, è più complicato stabilire se svolge il suo compito in modo coscienzioso). L’economia ci insegna che, anche nel settore privato, prestare attenzione esclusiva alle componenti misurabili della produttività (e magari vincolare gli avanzamenti di carriera o i licenziamenti a queste componenti) porta inevitabilmente a una riduzione della cura e dell’attenzione nello svolgimento dei compiti meno quantificabili. Uno schema incentivante di questo tipo può dunque indurre gravi distorsioni nel funzionamento delle organizzazioni, non un miglioramento dell’efficienza. Non è, infatti, per nulla scontato che le componenti meno misurabili siano anche le meno gradite dagli utenti. Anzi, le componenti qualitative (ad esempio, cortesia e cura verso le necessità dell’utente) sono fattori cruciali proprio nel determinare la bontà di un servizio pubblico.

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Dobbiamo tenerci i nullafacenti?

Dobbiamo allora tenerci i nullafacenti? Forse no. Un elenco di possibili soluzioni è indicato nei lavori condotti nell’ambito della Atkinson Review, commissionata dal governo inglese nel dicembre 2003 e che ha portato alla stesura di un Final Report da parte di un team coordinato da Tony Atkinson, docente di London School of Economics, per conto dell’Ufficio statistico nazionale del Regno Unito. (1)
Dai lavori della commissione vengono fuori tanti suggerimenti su cui può essere utile ragionare. Tra le altre cose, per ponderare le varie dimensioni della produttività dei dipendenti pubblici si potrebbe usare il criterio dei costi di produzione di ogni mansione. Per attenuare il problema dell’impossibilità di valutare gli aspetti non misurabili, si potrebbe ricorrere a indagini campionarie e al parere di esperti del settore per ottenere misure di gradimento delle attività meno suscettibili di misurazione.
La presenza di nullafacenti nel settore pubblico ha un effetto demotivante sui “qualcosa-facenti” che ci sono, ma hanno spesso poca voce per farsi sentire. Ma l’idea di identificare le pecore nere con organismi indipendenti di valutazione è di difficile attuazione (oltre a presentare rischi di ingenerare guerre “tutti contro tutti” nelle organizzazioni, di cui non discuto). Forse, si dovrebbe usare la proposta sui nullafacenti come un importante impulso per fare rapidi progressi nella misurazione della produttività dei dipendenti pubblici, seguendo le linee della commissione Atkinson. Ma se l’obiettivo è misurare meglio la produttività del settore pubblico, è inopportuno cominciare con provvedimenti troppo punitivi con effetti secondari potenzialmente controproducenti.

(1) www.statistics.gov.uk/about/data/methodology/specific/PublicSector/Atkinson/final_report.asp.

Ripensare i meccanismi di assunzione e di incentivazione nel settore pubblico, di Andrea Ichino

In una serie di articoli usciti in agosto sul Corriere della Sera, Pietro Ichino ha opportunamente segnalato che l’anzianità di servizio non è un criterio efficiente per stabilire come ridurre gli organici nel settore pubblico, posto che una riduzione è necessaria per motivi di bilancio.
Il criterio efficiente dovrebbe invece essere quello della produttività, indipendentemente dall’età, soprattutto in un contesto in cui è da tutti ammessa l’esistenza di numerosi lavoratori che, ai diversi livelli, ricevono stipendi anche molto elevati non facendo assolutamente nulla.
Va detto però che la proposta di licenziamento una tantum dei nullafacenti oggi occupati nella pubblica amministrazione (1 per cento per tre anni) ha il merito di scardinare il tabù della non licenziabilità in questo settore, ma non risolve il problema nel lungo periodo.

La produttività innata

Gli economisti distinguono tra due componenti della produttività di un individuo che sembrano invece confondersi nel ragionamento dei giuristi: (1) la produttività innata, assorbita per via genetica o ambientale prima dell’ingresso nel mercato del lavoro, che non possiamo modificare; (2) l’impegno con cui lavoriamo per data produttività innata, che invece possiamo modificare.
Se fosse soltanto una questione di produttività innata, il licenziamento (con adeguata assistenza sociale) risolverebbe il problema contingente, ma non eviterebbe che in futuro siano selezionati nuovi lavoratori nullafacenti. Esiste quindi un problema di screening dei lavoratori da assumere o da promuovere ai livelli superiori. I sistemi utilizzati nel settore pubblico, basati sui concorsi per l’assunzione, e sull’anzianità per la promozione, hanno ampiamente dimostrato sotto questo profilo tutti i loro limiti. Almeno in ambito universitario questo fatto è stato illustrato da Roberto Perotti e altri.
Ben venga quindi la licenziabilità del nullafacente, ma la priorità dovrebbe essere evitarne l’assunzione. Per questo, però, è necessario modificare in modo radicale il sistema di selezione del personale del settore pubblico a tutti i livelli, altrimenti ci ritroveremo fra qualche anno con una nuova coorte di nullafacenti da licenziare, senza aver risolto il problema alla radice. Anche questo è un tabù da scardinare almeno altrettanto importante quanto quello della non licenziabilità.

Il sistema di incentivi

Tuttavia, la scarsa produttività non è certamente solo un problema di caratteristiche innate, e di questo ciascuno di noi fa esperienza tutti i giorni. Quando abbiamo gli incentivi giusti ci impegniamo molto di più. Anche sotto questo profilo, il licenziamento una tantum dei nullafacenti proposto da Pietro Ichino, risolve il problema di breve periodo, ma non quello strutturale di lungo periodo. E anche qui c’è un terzo tabù fondamentale da scardinare: quello per cui nel settore pubblico le retribuzioni debbano dipendere solo dall’anzianità di servizio. Ad esempio, nel sistema universitario, sarebbe più che auspicabile il licenziamento di qualche professore ordinario nullafacente in modo da lasciare spazio a qualche giovane precario oggi più produttivo. Ma se non cambiamo la struttura di incentivi (ossia non utilizziamo la retribuzione per premiare l’impegno) nulla esclude che il giovane precario, una volta divenuto professore, smetta di impegnarsi diventando nullafacente tanto quanto il suo predecessore.
Sappiamo che gli incentivi monetari non sono la soluzione a tutti i problemi e vanno usati con attenzione, ma partendo da una situazione di totale assenza, c’è sicuramente ampio spazio per una loro introduzione finalizzata a far sì che qualcuno degli attuali nullafacenti si metta a fare qualcosa. Ciò è importante perché Pietro Ichino sembra trascurare i costi dell’assistenza sociale da offrire ai nullafacenti licenziati. Per quanto possibile, quindi sarebbe opportuno incentivarli a fare qualcosa di utile, fatto salva l’opzione del licenziamento nei casi irrimediabili.
Quindi, prima ancora della possibilità di licenziare, il settore pubblico ha bisogno a tutti i livelli, e soprattutto a quelli alti, di meccanismi nuovi di selezione del personale, di promozione e di determinazione delle retribuzioni.

Il ruolo degli organi esterni di valutazione

Un ultimo commento sul ricorso a organi esterni di valutazione. Non mi pare una soluzione auspicabile, se non in via del tutto transitoria. Oltre a essere estremamente macchinoso lascia aperto il problema di “chi controllerà i controllori”: cosa garantisce che l’organo indipendente di valutazione (anch’esso composto da esseri umani) abbia gli incentivi giusti e non diventi preda del sistema? Ben venga nella transizione, ma a regime, affinché il problema non si ripresenti in futuro, bisogna identificare meccanismi automatici che disciplinino la pubblica amministrazione a tutti i livelli così come il mercato disciplina le aziende private. Ad esempio nel caso delle università, l’esperienza inglese della allocazione dei fondi di ricerca basata sul Research Assessment Exercise ha creato un meccanismo automatico che ha migliorato enormemente le cose, generando gli incentivi giusti per assunzioni, aumenti salariali, promozioni e licenziamenti.

Nomine pubbliche, processi selettivi e credibilità professionale, di Eugenio Nunziata

Molto si è dibattuto rispetto ai criteri selettivi da adottare per le nomine a incarichi di vertice in enti e istituzioni pubbliche, sia nazionali che locali. In ogni occasione le diverse tesi oscillano sempre tra i due estremi: ridare vigore ed estendere anche ai vertici il meccanismo pubblicistico del concorso pubblico, oppure estendere il concetto privatistico della selezione per “intuitus personae”. Nel contempo si infoltisce il “partito” di chi vorrebbe fossero adottati criteri “meritocratici”, senza spiegare bene a “quali” meriti si faccia riferimento. Un dibattito che si mantiene (forse volutamente) sempre sul piano ideologico, senza mai entrare nel vivo delle questioni vere che sono, a mio avviso, legate alla efficacia della governance politico-istituzionale. Conveniamo che tutto dovrebbe avvenire in modo trasparente, tramite avvisi e procedure pubbliche, e nel rispetto di requisiti curriculari preventivamente dichiarati e rispondenti al criterio di competenza professionale.
Il concorso pubblico, nello spirito costituzionale, doveva garantire tutto ciò, “ma quante cose sono cambiate dal 1948!”. Non vogliamo che il “concorso” diventi un feticcio, considerato che ci sarebbero tanti altri modi – oggi – per articolare con maggiore efficacia una procedura concorsuale.

Il problema

Da sempre le nomine ai vertici delle amministrazioni hanno dato adito a polemiche, tanto da minare la credibilità professionale del selezionato e della stessa istituzione da lui rappresentata, con innegabili effetti sull’esercizio del potere manageriale necessario per poter governare efficacemente una organizzazione complessa e il sistema degli interessi rappresentati dagli stakeholder a essa collegati.
Il riferimento principale non è alle nomine ai vertici dei principali enti di livello nazionale, sulle quali si concentra più facilmente il controllo sociale dell’opinione pubblica. Piuttosto, ci si riferisce alla miriade di altre nomine ai vertici di organizzazioni pubbliche di minore evidenza, nazionali, regionali e locali. Storie di intrecci di interessi localistici, di conflitti di interesse e di incompatibilità tecnicamente evidenti. Storie coperte spesso dalla complicità degli stessi attori locali, che emergono all’attenzione dell’opinione pubblica troppo tardi, solo quando scatta l’azione della magistratura.
L’ombra che più frequentemente ricade sui vertici e sui manager nominati è quella di essere stati valutati per “appartenenza” partitica” (il che non sarebbe di per sé negativo), ma ancora peggio, per frequentazione di ambiti ristretti legati alle segreterie o per pressioni di lobby locali. Il rischio, di conseguenza, sarebbe – oltre la precarietà del mandato – l’eccessivo stato di soggezione del manager nei confronti di poteri e interessi non sempre trasparenti e non sempre legittimi, ogniqualvolta debba prendere decisioni cruciali per la vita dell’ente e per gli interessi della collettività.
Nulla da eccepire sul fatto che per la copertura di posizioni di vertice così delicate e cruciali per il successo di un programma di governo, sia lecito adottare da parte degli organi politici il principio dell’”intuitus personae”; deprecabili invece quelle situazioni in cui l’attuazione di tale principio viene delegato e trasferito – senza controllo alcuno – a un indefinito e politicamente non responsabile entourage partitico.

Il presupposto

La “credibilità professionale” delle persone nominate ai vertici di enti e istituzioni dovrebbe rappresentare, a detta di molti, un “must” per il buon governo della “macchina pubblica”, un requisito fondamentale, una manifestazione etico-valoriale. I procedimenti e le condizioni tecniche per il successo di tali nomine non possono più essere ricercati nell’alveo di schemi culturali vetusti e avulsi dalla evoluzione del contesto (regolamenti, titoli, commissioni, eccetera). Essi rischiano di “vestire” di un inutile formalismo i processi decisionali, coprendo ampi spazi di discrezionalità utilizzabile senza alcuna affidabilità tecnico-metodologica. Percorsi alternativi, tecnicamente più affidabili, possono derivare dalle esperienze di altri contesti non pubblici e dagli apporti di altri ambiti disciplinari e professionali. “Ben venga qualsiasi iniziativa che uniformi la terminologia giuridica a quella economica e delle scienze dell’organizzazione, e consenta di sperimentare un confronto interdisciplinare“. Forse riusciremmo a combinare il principio dell’”intuitus personae”, con soluzioni tecniche che comunque garantiscano – con sufficiente oggettività e documentabilità metodologica – adeguati livelli di aderenza del profilo del candidato al ruolo da ricoprire. Occorre passare da una “scelta casuale” e/o di convenienza, a una “selezione professionale”, che non è garantita da “bramini” e “kshatriya” riuniti in commissione, ma va gestita dai professionisti della selezione, e sostenuta da una rosa di candidature maggiormente qualificate.

Le ipotesi

Per iniziare, sarebbe opportuno una univoca e migliore identificazione della responsabilità di colui che si fa carico di avviare la procedura di selezione e assumersi la responsabilità della scelta e della nomina del candidato ritenuto più appropriato. Tale responsabilità la collocheremmo in capo alla posizione “immediatamente sovraordinata” al ruolo da coprire, ed eviteremmo accuratamente meccanismi di deresponsabilizzazione, quali pareri di commissioni di esperti, decisioni collegiali, eccetera. Ciò rafforzerebbe enormemente la possibilità successiva di “agire” meccanismi sanzionatori di tipo gerarchico. In tutti i casi, piena pubblicità dei curriculum e degli esiti della selezione, almeno per i prescelti.
Sul piano procedimentale, proviamo ora a posizionare alcune ipotesi di azione alternative rispetto alle criticità dei sistemi attuali :

· Oggi: assenza di una esplicitazione del “profilo di competenza” appropriato alla posizione da ricoprire. Domani: un soggetto professionale terzo, su incarico diretto del soggetto competente alla nomina, redige il “profilo di competenza” connesso al ruolo da ricoprire. Esso non potrà essere una banale declaratoria di “titoli”, ma attiene a requisiti di esperienze, conoscenze tecniche, capacità manageriali e strategiche, requisiti etici e condivisione di principi connessi alla responsabilità istituzionale legata al ruolo da ricoprire.

· Oggi: selezione operata nell’ambito di un bacino di candidature molto ristrette e barriere di accesso molto elevate per potenziali e qualificate candidature “non sponsorizzate”. Domani: viene affidato a una società di “head hunting” l’incarico di raccogliere, con discrezione, le migliori candidature aderenti al profilo, dentro e fuori lo specifico contesto, includendo anche quelle provenienti dall’entourage politico.

· Oggi: criteri di valutazione superficiali che si soffermano sui titoli formali, ma non in grado di apprezzare le tre componenti fondamentali del profilo di ruolo: capacità, esperienze, conoscenze. Domani: professionisti qualificati e certificati gestiscono in autonomia dei “colloqui di valutazione” utili per apprezzare accanto ai titoli, le capacità e le esperienze dei candidati.

· Oggi: assenza di procedure di “ranking” dei diversi candidati. Domani: la società dovrà sottoporre al committente una rosa ristretta di candidature messe a confronto con una “pesatura” in relazione della aderenza ai singoli elementi del “profilo” di ruolo.

Si sottolinea che “profilo di competenza”, “colloqui di valutazione” e “pesatura” sono termini tecnici che fanno riferimento a prassi metodologicamente strutturate nel settore.

Il valore aggiunto

Una diffusa utilizzazione dei servizi specialistici e certificati di società di head hunting, rappresenterebbe in questo momento una opportunità per il mondo pubblico di fruire di un bacino molto più ampio di competenze manageriali – le quali altrimenti non avrebbero l’opportunità e l’interesse di avvicinarsi ad esso – e più centrate sulle capacità strategiche, manageriali e valoriali di conduzione di organizzazioni pubbliche complesse. Nel contempo, valorizzerebbe, le migliori candidature provenienti dalla stessa dirigenza pubblica, considerato che sul piano delle competenze e conoscenze di contesto, esse potrebbero vantare elementi di valutazione superiori alle candidature provenienti dal mondo privato. Tutto ciò non mortificherebbe affatto la discrezionalità del potere politico nella assegnazione degli incarichi, ma al contrario contribuirebbe a valorizzare la scelta di propri candidati laddove i realmente rispondano ai necessari requisiti di competenza e responsabilità, scoraggiando la eccessiva pressione di aspiranti non qualificati che pensano di far valere la propria fedeltà partitica.

Le condizioni

Occorrerà tuttavia disciplinare meglio il mercato per mantenere intatto il contributo di “indipendenza” che tali società di servizi professionali devono fornire in un processo selettivo molto delicato, attraverso alcune chiare regole e il controllo di una Autorità: un albo specifico sia per le società che per i professionisti che vi operano, reso pubblico a tutte le amministrazioni; dei costi parametrizzati e convenzionati a livello nazionale; un obbligo di utilizzo a rotazione; requisiti societari stringenti che dimostrino continuità di referenze con il mercato privato, che non lavorino esclusivamente con le Pa, che non operino né direttamente né indirettamente in altri settori professionali limitrofi (comunicazione, tecnologie, consulenza direzionale, revisione, formazione, eccetera), con preventiva autorizzazione dei cambiamenti di assetto proprietario per evitare operazioni sospette di concentrazione, e/o snaturamento del nucleo professionale.

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Sommario 12 settmebre 2006

72 commenti

  1. Vitali Valentino

    Scaricare la responsabilità sui dirigenti della pubblica amministrazione mi pare ingiusto e una semplificazione del problema , soprattutto se prima non si vanno ad analizzare i poteri che effettivamente sono stati loro affidati.
    Significativo è il caso della scuola : nelle contrattazioni nazionali il sindacato confederale ha sempre sbarrato la strada ad un aggiornamento/semplificazioni delle norme disciplinari e l’ARAN si è ben guardata dal contrastare tale tendenza.
    Assegnare al dirigente il potere di comminare la sanzione dell’avvertimento scritto , in un contesto ipergarantista come quello scolastico , significa invitarlo a desistere da ogni intervento (perderebbe solo tempo) .
    Il problema vero è che nella pubblica amministrazione il sindacato, nonostante le apparenze, è passato dal ruolo di controllore al quello di governo (ne sono una riprova le logiche di reclutamento interne ai ministeri di persone provenienti dal mondo sindacale “amico”) .
    Si è fatto finta di privatizzare il lavoro della pubblica amministrazione solo per gli aspetti che ne hanno aumentato l’autoreferenzialità a beneficio dei lavoratori , senza benefici per l’utenza.
    Il problema vero del nostro paese è quello di ripensare seriamente al ruolo del sindacato nei rapporti con il governo, rompendo le collusioni tra i due poteri .
    I dirigenti pubblici sono, loro malgrado, le vittime di un sistema che li priva di ogni potere effettivo divenendo “la messa a terra” dell’intero sistema.
    L’articolo lo conferma.

    • La redazione

      È vero anche questo: nella misura in cui a un dirigente non si consente di esercitare per davvero il potere direttivo e il potere disciplinare su coloro che da lui dovrebbero dipendere, neppure si può poi addossargli la responsabilità del mal funzionamento del reparto affidatogli. E nel dubbio se il pessimo funzionamento sia dovuto principalmente a suo difetto o a difetto dei poteri effettivamente conferitigli, non si potrà certo considerarlo come un nullafacente. Ma pagarlo di meno rispetto al dirigente il cui reparto funziona bene, almeno questo sì. E un OIV può servire anche a questo scopo.

  2. Franco Zannoner

    La soluzione e’ troppo complicata/costosa e non va alla radice del problema: sono i dirigenti che vanno licenziati (oppure va ridotto lo stipendio) se non raggiungono gli obbiettivi (tra quali c’e’ anche quello di fare lavorare i sottoposti).
    Perche’, invece non cercare metodi per introdurre la concorrenza a tutti i livelli della pubblica amministrazione?

    • La redazione

      D’accordo sull’introdurre la concorrenza anche nel settore pubblico dovunque sia possibile compatibilmente con le peculiarità della funzione pubblica (v. la risposta a Paolo Porcaro). Più in generale, occorre innervare l’intera amministrazione pubblica di un adeguato sistema di incentivi, a tutti i livelli, dovunque possibile. Ma anche la possibilità che il nullafacente sia licenziato costituisce un incentivo importante, che deve essere introdotto per motivi di equità prima ancora che di efficienza. La proposta qui presentata non pretende certo di indicare la terapia per i mali dell’amministrazione pubblica, ma soltanto di mostrare che il licenziamento dei nullafacenti sarebbe possibile sul piano tecnico-giuridico, sfatando la convinzione diffusissima che nella situazione italiana attuale questa sia un’opzione assolutamente impraticabile. La scelta di non praticarla è di natura essenzialmente politica.

  3. Paolo Porcaro

    Tutto molto ragionevole, ma a mio modesto parere poggia su fondamenta periclitanti.

    La nomina degli OIV da chi dovrebbe essere fatta o avallata? Oltre al componente di nomina sindacale, non c’è altra indicazione specifica in merito…

    Temo, in ogni caso, che il referente ultimo degli OIV sarebbe la corrente politico-sindacale prevalente in quel luogo e momento, e questo, unitamente alla difficoltà – talvolta alla impossibilità – di individuare obiettivi di produzione altrettanto precisi che nelle aziende private, esporrebbe tali organismi al pericolo di diventare odiosi “centri di epurazione politica”.

    Vedo inoltre molto difficile – se non nei casi più eclatanti – separare la “incapacità professionale” dalla oggettiva inefficienza organizzativa. E laddove si dovesse accertare la seconda, andrebbero licenziati i dirigenti? Ed a quel punto, chi proporrebbe il licenziamento dei dipendenti?

    Vedo, più che un pericolo di delazione “orizzontale”, uno scaricabarile verticale dal dirigente incapace di gestire il personale (o semplicemente assente) alle ultime ruote del carro – intendendo quelle meno o per niente dotate di copertura politica…

    • La redazione

      1) Rinvio alla risposta n. 1 all’ing. Paolo Bianco. 2) Nelle aziende private il buon valutatore è normalmente in grado di distinguere, con un buon grado di affidabilità, il caso dell’improduttività dovuta a incompetenza professionale o scarso impegno personale da quello dell’improduttività dovuta a difetto di organizzazione imputabile alla dirigenza; è disponibile abbondante letteratura in proposito. Certo, in questo secondo caso l’azienda privata che non licenzia il dirigente fallisce, ciò che non accade nel settore pubblico. Questo è il motivo per cui occorrono un OIV capace di individuare il dirigente totalmente incapace e un vincolo per l’amministrazione a licenziarlo. Si tratta ovviamente di un second best: sarebbe meglio un meccanismo concorrenziale, di mercato, che qui sovente non può operare.

  4. ing. paolo bianco

    ho letto con grande interesse la proposta. Poichè non sono un esperto (non sono nemmeno un dipendente, per la verità), mi sfuggono alcuni punti:

    1) quali sono i modi con cui i componenti l’organo di valutazione, ove esso non esiste, vengono nominati, con quali requisiti e da chi? Non dovrebbe inoltre esserci un controllo sugli organismi di controllo?

    2) perchè vengono redatti elenchi solo dei dipendenti con rendimento insufficiente? Questo significa che il lavoratore licenziato può indicare al suo posto solo uno degli altri “insufficienti”, e che quindi i valutatori possono porre gli “amici” al riparo da qualsiasi rischio, perchè le valutazioni dei “promossi” non vengono rese note

    3) quali sono i criteri con cui viene valutata quantitativamente la produttività? è possibile fare un esempio concreto, per esempio riguardante un dipendente che lavori in un ufficio tecnico comunale (non è il mio caso)? Questi criteri sono stabiliti autonomamente dall’organismo di valutazione? E se sì, come, a maggioranza o all’unanimità?

    4) come si concilia questa valutazione con gli aspetti concorrenti della normativa sulla privacy? (per esempio, come stabilire se l’attività di invio di decine di email/telefonate al giorno sia produttiva, se non è possibile esaminare il contenuto delle stesse?)

    5) lei parla di produttività negativa, includendo i reati commessi negli ultimi 5 anni; come conciliare questa scadenza con la lentezza del sistema giudiziario? Se si deve attendere la pronuncia della cassazione, è assai improbabile che vi sia qualcuno che rientri nella definizione. Se non la si attende, non diventa la legge incostituzionale? Infine, non c’è il rischio che qualche dipendente, per esempio preposto ad attività di controllo, il cui rigore (che è un pregio) genera numerose cause di ricorso, venga invece penalizzato come criminale?

    La ringrazio per l’attenzione (e per la proposta).

    • La redazione

      1) I criteri di scelta dei membri dell’OIV dovrebbero essere, mutatisi mutandis, sostanzialmente gli stessi che presiedono alle nomine nelle authorities, coll’obbiettivo di ridurre al minimo il rischio di scorrettezze nel comportamento dei valutatori. 2) Secondo la proposta gli elenchi sono due, uno dei totalmente nullafacenti per difetto di impegno personale e/o di competenza professionale e uno degli altri dipendenti il cui rendimento è ritenuto scarso (o anche nullo, ma non per quel difetto). 3) Esempio concreto riferito all’ufficio tecnico: va nel primo elenco l’impiegato che viene al lavoro un giorno su due pur essendo sano come un pesce e che, quando viene, sovente timbra e scompare per occuparsi di suoi fiorenti affari privati; in una scuola: va nel primo elenco il professore di inglese che risulta conoscere male questa lingua, che da anni in classe parla prevalentemente di sport e svolge meno del 15% del programma e si ammala regolarmente il lunedì o il giorno in cui finiscono le ferie (oggi, se le famiglie protestano, questo professore viene tutt’al più trasferito in un altro istituto, dove egli continua tranquillamente a non insegnare). 4) Il diritto di riservatezza o privacy protegge la vita privata del lavoratore, non la sua attività di ufficio né in particolare l’uso da parte sua degli strumenti telematici affidatigli per lo svolgimento dei suoi compiti (ivi compresa la posta elettronica, che deve poter essere consultata, per ragioni di ufficio, in qualsiasi momento). 5) Il datore di lavoro privato ha il diritto di licenziare subito il dipendente che ruba in azienda, senza necessità di attendere la condanna definitiva in sede penale (salvo, ovviamente, l’onere a carico del datore stesso di dimostrare davanti al giudice del lavoro la fondatezza dell’accusa); in questo non c’è nulla di incostituzionale (perché mai dovrebbe potersi licenziare il lavoratore per un’assenza ingiustificata di una settimana, e non per una mancanza più grave costituente addirittura reato, commessa ai danni dell’azienda?); non si vede perché – se non per indebito lassismo questa regola non venga applicata anche nel settore pubblico.

  5. Ulisse

    Ritengo che la proposta, oltre ad essere auspicabile nella sua portata moralizzatrice, sia assolutamente praticabile da un punto di vista tecnico e formale. Tuttavia, per affrontare correttamente il problema dell’inefficienza della pubblica amministrazione, è necessario distinguere tra amministrazioni statali ed amministrazioni collegate alle autonomie locali (in queste ricomprendendo regioni, enti locali, ma anche aziende sanitarie e agenzie regionali). Infatti, la “causa” dell’esistenza del nullafacente e, soprattutto, le modalità del suo sradicamento non sono del tutto sovrapponibili nelle due distinte ipotesi. Per quanto riguarda l’inefficienza nelle amministrazioni di tipo locale si deve partire dalla constatazione (ad oggi incomprensibilmente glissata) del pieno fallimento della separazione tra politica e gestione progettata dal D.Lgs. 29/1993. Negli enti dove la distanza tra i due ambiti è molto più breve rispetto alle amministrazioni statali, il management (city manager, direttori generali di regioni, aziende sanitarie, etc.), al di là di ogni ipocrisia, anziché in un’auspicabile dialettica con gli organi di indirizzo politico, si trova con questi in un rapporto di assoluta sudditanza (con evidenti implicazioni anche sul piano delle relazioni industriali, data la frequente contiguità tra sindacato e politica). In questo contesto, dove le scelte gestionali (anche quelle di micro-organizzazione!) sono fortemente e platealmente condizionate dal potere politico, non è affatto detto che la scelta del nullafacente da licenziare non risulti oggetto di misteriose concertazioni. Mentre si attuano le sacrosante iniziative proposte dal prof. Ichino, allora, si dovrebbe intervenire anche per arginare i disastri di una falsa managerializzazione della pubblica amministrazione. Ma sarebbe così scandaloso ipotizzare che per diventare direttori generali di un comune o di un’azienda sanitaria si debba superare un concorso nazionale come quello per accedere alla magistratura?

    • La redazione

      Concordo. Consegue da queste osservazioni che, se e quando il discorso venisse proposto anche al livello regionale e ai livelli inferiori delle amministrazioni locali la questione della garanzia di indipendenza e correttezza dell’OIV può porsi in modi parzialmente diversi. La proposta, così come è presentata qui, è comunque esplicitamente riferita all’amministrazione statale.

  6. francesco piccione

    a me sembra che il limite concettuale della proposta del prof. ichino sia rappresentata dalla circostanza che i lavoratori “fannulloni” coprono un ruolo organico, per cui una volta licenziati ne dovranno essere assunti altri; senza alcun risparmio di spesa. se lo scopo della proposta è quello di ridurre le spese non funziona. se, nivece, lo scopo è quello di rendere più efficiente l’amministrazione basterebbe applicare le leggi che già esistono, come rileva lo stesso autore. poco vale l’obiezione che le leggi – sul punto – sono disapplicate perché non vi è alcuna certezza che il meccanismo previsto dal prof. ichino funzioni. si rischierebbe, quindi, di avere un’altra legge che non viene applicate e questo è un danno.

    • La redazione

      a) Per definizione, il nullafacente è il dipendente che può essere licenziato senza che l’efficienza della struttura ne soffra, anche se non lo si sostituisce. b) Per definizione, il licenziamento per riduzione del personale è quello che non è seguito da sostituzioni nell’organico della struttura mediante nuove assunzioni. c) Altra cosa, rispetto alla sostituzione mediante nuova assunzione, è la sostituzione mediante trasferimento di un lavoratore da altro ufficio o reparto dove si verifichi sovrabbondanza di personale.

  7. Luciano Rossilli

    Tutte queste proposte hanno su di me lo stesso effetto delle sirene di Ulisse, sono a prima vista accativanti, ma nascondono, a mio modesto avviso, un’insidia non indifferente. Temo che potrebbe risultare inutile continuare a
    spendere energie nell’evoluzione giuridica di questa proposta, se prima non si risolve un enorme problema: l’ipotesi iniziale. Tutto questo farraginoso meccanismo ha come punto di partenza i criteri di valutazione, tramite i quali si deciderà chi rimane dentro e chi fuori. A mio modo di vedere, l’impasse sta nel fatto che non sono ancora stati formulati dei criteri
    realmente OGGETTIVI per la valutazione dei lavoratori.
    Proporrei, quindi, di concentrarsi per il momento su questo problema. CONDIZIONE NECESSARIA per poter inziare a parlare seriamente del problema è la formulazione di cretiri oggettivi e robusti per la valutazione.
    Lancio un piccolo sassolino con un esempio.
    Come si può valutare serenamente la produttività di un lavoratore del settore dei servizi? Spesso il valore aggiunto di questi settori non è di immediata misurazione, e allora, come può essere oggettiva e robusta la stima della produttività in questi settori?

    • La redazione

      Sì: un problema cruciale, in linea generale, sta proprio lì ed è giusta la sollecitazione a impegnarsi prioritariamente su questo terreno (che offre, tra l’altro, occasione per un impegno multidisciplinare di competenze giuridiche, economiche, sociologiche e di teoria dell’organizzazione). Però
      sul terreno delle tecniche di valutazione non siamo all’anno zero: nel settore privato si applicano diffusamente metodi molto raffinati di valutazione analitica dell’efficienza, dell’efficacia, e largamente anche della produttività del lavoro individuale e di gruppo. Quando poi si tratta della categoria dei nullafacenti per totale difetto di impegno o incompetenza, il problema è sovente di facile soluzione, mediante
      l’applicazione di quello che oltre Manica è indicato come l’elephant test:
      “quando vedi un elefante, non hai bisogno di criteri raffinati di
      distinzione per affermare che si tratta di un elefante”.

  8. carmelo lo piccolo

    Non credo che la proposta di istituire un ulteriore organismo di valutazione delle prestazioni nel pubblico impiego risolva la questione della “nullafacenza” nel pubblico impiego, anche perchè le ragioni della scarsa produttività della Pubblica Amministrazione sono di natura storico- culturali, sedimentate nel tempo e di non facile soluzione gestionale.
    E’ da più di un decennio che il legislatore nazionale e quello locale hanno previsto meccanismi di “aziendalizzazione” degli uffici pubblici, istituendo tra l’altro apposite strutture di controllo di gestione e valutazione del personale, eppure il livello di efficienza/efficacia e di produttività della P.A. non ha registrato significativi miglioramenti.
    Il nodo principale da affrontare, a mio avviso, è un altro: occorre restituire dignità e prestigio ai lavoratori pubblici, rendere possibili sbocchi di carriera legati al merito effettivo e alla professionalità, prendere atto del completo fallimento della cosiddetta “separazione” tra politica e gestione, cosa del resto quasi impossibile da realizzare come dimostra la letteratura scientifica (da Max Weber in poi) sul tema.
    Bisogna reintrodurre il concorso pubblico come metodo ri ricerca e selezione dei migliori, garantendo ai lavoratori già assunti in qualifiche inferiori la possibilità (attenzione, non il diritto!) di accedere ai livelli dirigenziali, in modo da creare motivazione a migliorarsi, a prescindere da anizanità e titoli di studio, che da soli non sono sinonimo di accertata professionalità.
    Semmai bisognerebbe istituire un Organo che controlli l’effettiva imparzialità e trasparenza dei concorsi pubblici, impedendo qualsiasi possibilità di raccomandazioni: se uno vince un concorso perchè lo merita, è molto difficile che diventi un fannullone!

    • La redazione

      Ho a mia volta qualche serio dubbio sulla bontà dello strumento del concorso per la scelta del dipendente, privato o pubblico che sia. Certo, per il pubblico lo impone la Costituzione; ma quante cose sono cambiate dal 1948!
      Forse anche la retorica del concorso pubblico ha contribuito ad alimentare l’ideologia dell’inamovibilità del pubblico dipendente. In un sistema in cui funzionassero bene gli incentivi per chi (dirigenti per primi) fa bene e le
      sanzioni per chi fa male, sarebbe forse meglio lasciare al management libertà di scelta delle persone da assumere.

  9. Marco D'Egidio

    Il motivo per cui il licenziamento dei nullafacenti è avvertito come impraticabile è essenzialmente politico, come ricorda il professor Ichino nella sua risposta a Franco Zannoner. Credo che “politico” sia inteso nel senso più riduttivo e meno nobile del termine, evitare di essere impopolari e di scomodare categorie ed elettori. Tuttavia ritengo sia possibile anche il significato più positivo, cioè la considerazione del problema non solo dal punto di vista tecnico (per il quale il licenziamento dei nullafacenti sarebbe assolutamente giusto), ma anche tenendo conto di equilibri eterogenei, bilanciamento di fattori ed interessi. Ciò significa pensare quanto concretamente gioverebbe alle finanze pubbliche tale soluzione, sia in prospettiva di un’indennità neppure modesta in vista di un successivo impiego, sia nel caso di prepensionamenti, e nell’ipotesi di costituzione di OIV. Quante effettive possibilità ha un licenziato, magari in tarda età, di reinserirsi in un mercato del lavoro frammentato e precario (fosse flessibile il problema non si porrebbe). Quali criteri oggettivi per giudicare della produttività di un dipendente, al di là dei casi palesi di chi sta a casa un giorno su due. Quali effetti sull’occupazione, soprattutto giovanile. Come sia possibile dare un immediato imprinting meritocratico alla p.a., evitando differenze di trattamento fra nullafacenti “protetti” dalle larghe spalle del nepotismo e nullafacenti non raccomandati. L’indipendenza dell’OIV non è sufficiente, se non si modificano i rapporti di forza nella p.a. e non si innesta una cultura dell’efficienza che passa attraverso la trasparenza. Infine, se sia la soluzione meno costosa in termini di bilanciamento dei diritti, se non sia prima meglio modificare ed ampliare la responsabilità dei dirigenti e introdurre il reddito variabile in base alla produttività, la cui imprecisione sarebbe comunque meglio tollerata che nel caso del licenziamento.

    • La redazione

      Concordo: ci possono essere ottime ragioni politiche (di una politica intesa in senso alto) per non imboccare la via del licenziamento. Resto però convinto che una sia pur marginale riduzione del personale pubblico attuata mediante il licenziamento dei nullafacenti nei casi più evidenti di
      incompetenza e/o inadempimento doloso avrebbe un effetto molto utile per risollevare il morale dei più volonterosi. Quanto al costo dell’attivazione degli OIV, esso va valutato anche in riferimento al servizio utile che essi potrebbero dare per l’attivazione corretta degli incentivi economici.

  10. angelo

    Sovrapporre strutture burocratiche ad una situazione già sovra-normata mi sembra controproducete, soprattutto se queste commissioni fossero composte di sindacalisti, che se ne servirebbero immediatamente ai propri fini. Contro i nullafacenti si applichino gli strumenti esistenti: visite fiscali, accertamenti seri su presunte invalidità, ecc.
    In generale ritengo che il problema delle P.A. sia piuttosto quello di una sua profonda ristrutturazione che comporti finalmente l’eliminazione di enti e procedure inutili (vogliamo parlare del PRA?) e una ridistribuzione del personale là dove effettivamente serve (giustizia, beni culturali…). Inviterei infatti a considerare anche che spesso in alcuni settori il personale non è troppo, ma al contrario assolutamente insufficiente o dequalificato.
    Un altro problema da segnalare è il fiorire di enti e aziende parastatali, para regionali, paracomunali, para…, dotate di C.d.A. presi dal sottobosco della politica e di personale reclutato senza concorso.

    • La redazione

      Il problema è che il licenziamento disciplinare oggi è difficilissimo da attivare, per i motivi esposti nelle risposte II.1. e II.3, nella seconda parte della scheda: il quadro normativo è molto confuso, persino per quel che riguarda l’individuazione dell’organo competente a esercitare il potere disciplinare; il lassismo diffuso e radicato degli ultimi decenni costituisce argomento facilmente spendibile in giudizio (“perché licenziano proprio me, quanto tanti altri sono fannulloni quanto me? così si viola il principio di parità di trattamento!”); e se il licenziamento viene annullato con condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno, il dirigente che ha irrogato il provvedimento è esposto al rischio dell’azione di rivalsa da parte dell’amministrazione stessa.

  11. Alfonso Pierantonio

    Mi chiedo come tale proposta sia applicabile all’universita’ ed in particolare alla docenza universitaria. Si liberebbero delle risorse economiche da utilizzare per i nostri post-doc che quasi sistematicamente sono costretti ad andare all’estero con enorme spreco di denaro pubblico (ogni dottorando costa mediamente sui 500 mila Euro).

  12. carmelo lo piccolo

    Vorrei repilcare, se possibile, al Prof.Ichino in merito alla mia proposta di ripristinare il concorso pubblico come principale (anche se non esclusiva) via di assunzione dei dipendenti.
    La procedura concorsuale, lungi dal costituire una memoria del passato anacronistica e obsoleta, è quella che risponde meglio alla logica di mercato: nel concorso pubblico sono infatti assicurate sia la trasparenza e l’equità informativa (non si verificano infatti “asimmetrie informative tra i concorrenti, in quanto ognuno di loro accede alle informazioni tramite il bando di concorso) sia l’assenza di “barriere all’ingresso”, in quanto è possibile la più estesa partecipazione possibile, naturalmente previa verifica dei “requisiti minimi” richiesti in relazione alle professionalità da impiegare.
    Vorrei inoltre far riflettere sul fatto che una politica del personale lasciata alla sola ed esclusiva discrezionalità del management non garantisce per niente nè efficacia ed efficienza, nè produttività: si moltiplicherebbe soltanto la ricerca di raccomandazioni, essendo a sua volta il management (sia pubblico, sia provato) esposto a precisi e pesanti condizonamenti che con la cultura dell’impresa e del mercato non hanno niente a che vedere. Basti a titolo esemplificativo citare il caso delle aziende pubbliche locali (assunzioni di figli e nipoti, di amici di politici e sindacalisti per chiamata diretta e senza nessuna selezione) e delle Università (dottorati di ricerca, incarichi e consulenze scientifiche assegnate in base alla vicinanza al “barone” più influente!).
    Un’ultima osservazione: l’introduzione di forme di “litisconsorzio necessario” trasformerebbe gli uffici pubblici in una terribile riproposizione del “Grande Fratello” di orwelliana memoria, favorendo non i più capaci e meritevoli, ma solo la delazione, il pettegolezzo e il mobbing, con risultati devastanti per l’assetto gestionale della Pubblica Amministrazione.

  13. silvio

    Trovo la proposta del Prof Ichino si addentri in maniera errata in un problema che riguarda l’efficienza delle pubbliche amministrazioni. Prima di tutto, prof Ichino, non credo che si possa realmente quantificare/valutare, dando così una sorta di conformità all’efficienza, le prestazioni di persone, che a mio modesto giudizio, hanno una produttività marginalmente superiore ai nullafacenti in quanto, volenti o nolenti, i nullafacenti rientrano in quell’indice di comparazione che ognuno di noi usa, implicitamente, per giudicare-valutare se stesso dal punto di vista delle prestazioni lavorative. Io purtroppo, professore, credo che , lei involontariamente, stia dando risposta ad uno solo dei problemi che si insidia nelle amministrazionui pubbliche ovvero il licenziamento di personale totalmente improduttivo. Purtroppo però, in questo modo, legalizza un indice di produttività,al di sopra del quale, non si può essere licenziati. Sempre a mio modesto parere, suddetto indice, per motivi politici, culturali, e, perchè no, mancanza di una vera voglia lavorativa negli enti pubblici, si rischia che, lo stesso, si attesti a livelli totalmente inefficienti, come del resto lo sono adesso.

    • La redazione

      Non c’è solo l’elenco a): c’è anche l’elenco b), dei dipendenti il cui impegno e/o rendimento sono ritenuti insufficienti e che per questo vengono esclusi dalla retribuzione incentivante.

  14. armando croce

    I nullafacenti nascono soprattutto da atti di clientelismo/nepotismo compiuti da parte dei dirigenti, dei sindacati e in generale comunque dal personale della pubblica amministrazione (politici compresi).
    Che interessi avrebbero gli stessi, quindi i membri dell’OIV, a licenziare chi loro stessi hanno assunto?

    • La redazione

      L’attributo dell'”indipendenza”, ovvero della “terzietà” fra la direzione dell’ente e il personale, costituisce caratteristica essenziale dell’OIV. Se riteniamo che essa non sia conseguibile, allora sono d’accordo con lei: si possono battere solo altre strade.

  15. Giovanni Carravetta

    Caro prof. Ichino,
    operando da anni all’interno della P.A. devo ringraziarla per aver sollevato il problema dell’efficienza e dell’effiacia che, malgrado le leggi e i decreti emanati, resta a livelli allarmanti in tante sue parti.
    Per venire alla sua “provocazione”, la domanda che le pongo è se ragionando della competitività delle imprese private nell’era della globalizzazione qualche studioso indicasse come primo problema quello dello scarso impegno produttivo dei lavoratori subordinati, cosa dovremmo pensare?
    Che decenni di ineffcienza e di sottogoverno abbiano compromesso la principale risorsa produttiva della P.A. rappresentata dal suo personale non ho il minimo dubbio.
    Che la soluzione sia quella di potere “finalmente” licenziare il pubblico dipendente è l’ultima cosa alla quale mi verrebbe in mente di pensare, anche perchè il forno che produce continuamente questo frutto perverso funziona sempre a pieno regime.
    E’ come se per debellare un cancro ci accanissimo sulle forme più insidiose delle sue metastasi.
    Ragioniamo dunque correttamente delle risorse umane nella P.A..
    Sono ancora validi i meccanismi di accesso tramite concorsi pubblici e le successive progressioni?
    La struttura organizzativa della P.A. è finalizzata al prodotto in modo efficiente ed efficace?
    Gli investimenti, a parte quelli tecnologici, per potenziare la principale risorsa che è quella umana sono in termini qualitativi e quantitativi all’altezza dei compiti? Mi riferisco alla formazione continua naturalmente.
    La struttura contrattuale e quindi la retribuzione dei dipendenti pubblici hanno il giusto rapporto con la produttività o sopravvive lo stipendio mensile di sempre?
    Grazie.

    • La redazione

      Lei pone interrogativi cruciali. E ancora una volta va detto che il licenziamento del nullafacente non è la soluzione del problema dell’inefficienza della p.a. Esso però costituisce uno strumento di gestione cui non si può rinunciare del tutto, come si è fatto fin qui.
      Per stare alla sua metafora, non si debella il cancro rimuovendo le metastasi; ma le metastasi vanno pur sempre rimosse.

  16. F.L

    Dopo 40 anni di lavoro nella P.A, questa proposta è la prima che mostra uno spiraglio, una possibilità di svolta morale prima ancora che organizzativa. Vorrei aggiungere tre casi di cui sono stato diretto testimone:
    -assistente medico di grande ospedale milanese; i pazienti lo sfuggono perché la voce della sua incompetenza nel suo campo si è diffusa; negli ultimi anni fa registrare mediamente da un quarto a un terzo di assenze sul totale dei giorni lavorativi; quando è al lavoro è spesso
    alterato dall’alcol, talvolta anche di mattina;
    -professoressa universitaria di materia giuridica; da 12 anni non ha una sola pubblicazione di rilievo; ogni anno all’inizio del corso chiede agli studenti se hanno domande, e poiché nessuno alza la mano, li congeda dicendo loro che è inutile tenere il corso e che se hanno problemi per la preparazione dell’esame le scrivano una mail; nell’orario di ricevimento il più delle volte è assente;
    -gruppo di dipendenti inutilizzato al ministero dei trasporti per eccesso di organico, che viene trasferito al ministero delle finanze, all’ufficio che gestisce l’imposta di bollo, dove manca personale; poiché qui i lavoratori trasferiti sono inutilizzabili per difetto di preparazione specifica e di qualsiasi loro disponibilità ad acquisirla, il direttore
    dell’ufficio d’accordo con il direttore generale, dispone informalmente che essi la mattina timbrino il cartellino, se ne vadano e tornino al pomeriggio a timbrare a fine orario; il sindacato accondiscende volentieri, a condizione che sia garantita la classifica di “ottimo” per tutti gli interessati. Un episodio emblematico di come l’incapacità di organizzazione efficiente della p.a. possa coniugarsi con l’incompetenza professionale e l’allegra disponibilità dei singoli al dolce far niente.
    Una domanda tecnica: nell’ultimo caso, secondo la sua proposta, gli impiegati possono considerarsi nullafacenti da elenco a), o devono considerarsi vittime incolpevoli di un difetto di organizzazione?

    • La redazione

      Se nell’elenco a) devono essere inseriti tutti i nullafacenti che sono tali per totale incompetenza professionale, questo potrebbe forse bastare per inserirvi gli impiegati in questione; ma probabilmente in questo caso (se le cose stavano come descritto, e salvi i distinguo eventualmente necessari per casi singoli) sussisterebbe anche un elemento di vera e propria colpa, sotto il profilo del difetto di impegno: non si spiegherebbe altrimenti come sia possibile che questi lavoratori si fossero mostrati – in blocco, senza eccezione alcuna! – incapaci di imparare a fare qualsiasi cosa di utile per l’attività del nuovo ufficio. Sovente l’inutilità totale della prestazione lavorativa nasca anche da comportamenti
      di non collaborazione, mirati proprio all’esito che qui si è verificato: cioè a indurre l’ufficio a rassegnarsi all’inerzia. Se ci fosse anche solo la possibilità, una eventualità non troppo remota, che un nucleo di valutazione intervenisse con un minimo di rigore, un caso di questo genere probabilmente non potrebbe verificarsi.

  17. Ciro daniele

    Una commissione ed un sigaro non si negano a nessuno, diceva Churchill, e quindi non avrei nulla contro le OIV. Tuttavia potrei scommettere che le OIV finirebbero sepolte sotto un contenzioso giudiziario basato su denunce di mobbing e diffamazione da parte dei lavoratori dichiarati nullafacenti. E sono anche pronto a scomettere anche che le avvocature della PA (non essendo immuni da casi di nullafacenza) perderanno il 90% delle cause. Non sarebbe molto più semplice avviare un “mercato interno” dei dipendenti, consentendo ai dirigenti “cedere” ad un “ufficio di solidarietà” quelli ritenuti non adatti in cambio di fondi per incentivare i migliori? I fondi sarebbero finanziati dalla riduzione di premi, straordinari e indennità spettanti ai lavoratori spediti nell'”ufficio di solidarietà” (US). Ogni dirigente potrebbe usare i propri fondi anche per ripescare lavoratori finiti nell’US. In questo modo si risolverebbe rapidamente ed automaticamente anche il problema di eventuali errori di giudizio. Se un dirigente fosse troppo “critico” nei confronti del proprio personale, finirebbe semplicemente per non avene abbastanza per raggiungere i propri obiettivi e quindi potrebbe finire rapidamente nell’US a sua volta.

    • La redazione

      Il meccanismo processuale del litisconsorzio necessario ha proprio lo scopo di evitare l’alluvione di procedimenti (v. risposte II.5 e II.6 nella scheda).

  18. Rosa Montenero

    Nel testo si fa riferimento a chi esprime una produttività negativa. E’ chiaro che non è necessariamente il caso dei nullafacenti, poichè si può trattare anche di lavoratori che ci mettono competenza e impegno. E i nullafacenti sono per definizione i “dipendenti che possono essere licenziati senza che l’efficienza della struttura ne soffra”. Sul licenziamento di chi ruba o molesta sono comunque assolutamente d’accordo.

  19. Carlo Bertuccio Michelini

    Gent. Prof. Ichino,
    un noto psicoterapeuta contemporaneo dichiara: “ è compito dell’insegnante saper valutare l’evoluzione – non solo cognitiva, ma anche adattativa, emotiva e relazionale – di un adolescente”. Superfluo aggiungere che, per tale psicoterapeuta, il bravo insegnante non si limita a dare dei 5 o dei 6 o dei 7 né a completare puntigliosamente il programma didattico prescrittogli dal Ministero. Al contrario, egli sa ascoltare e comunicare con gli adolescenti anche, e soprattutto, al di là delle materie insegnate. Esempio personale: pur diplomato con il massimo dei voti in un prestigioso liceo classico di una grande città del Nord Italia, devo riconoscere ( e, con me, la maggior parte dei miei ex-compagni di classe) di aver avuto insegnanti bravi soltanto a rispettare le incombenze quotidiane della didattica, ma assolutamente inadeguati sul piano dell’empatia, ossia sul piano della comunicazione e dell’ascolto. Le loro personalità erano quindi, direbbe ancora il noto psicoterapeuta, inadeguate al mestiere scelto. L’unico docente il cui ricordo non è ancora sbiadito è quello di un supplente del quarto anno che, dandoci ascolto e facendoci ragionare quotidianamente, riuscì a parlare ai nostri cuori di giovani adolescenti. Il problema è che questo insegnante non rispettava affatto i programmi ministeriali, anzi spesso li ignorava. Inoltre, aveva atteggiamenti particolari: ad esempio, non compilava i registri, fumava in classe, ecc. Insomma, era un eccentrico. Domanda:quante probabilità avrebbe avuto di non essere licenziato? Francamente, temo, nessuna. Ritorno al problema generale: non sarebbe meglio che chi opera nelle agenzie di servizi potesse essere in qualche modo valutato, non tanto da apposite commissioni giudicatrici esterne, quanto e soprattutto dagli utenti degli stessi servizi (per esempio, il professore dagli studenti, il medico dai pazienti, e così via..)?

    • La redazione

      Nel § I.1.5 della proposta è previsto proprio questo: che l’OIV si avvalga, dove possibile, della valutazione degli utenti.

  20. ciro daniele

    Ringrazio il prof. Ichino per le sue tempestive precisazioni e colgo anche l’occasione per scusarmi per l’irriverenza del riferimento a Churchill. Tuttavia vorrei sottolineare che il pericolo di contenzioso al quale mi riferivo nel mio commento precedente ha una natura ben diversa da quella risolvibile tramite un liticonsorzio. Infatti, gli OIV, per funzionare, devono necessariamente basarsi sulle dichiarazioni di dirigenti e colleghi dei nullafacenti che, per loro natura, si configurano essenzialmente come opinioni soggettive molto difficili da provare in giudizio. E’ proprio questo l’anello debole della catena su cui ricadebbe una pioggia di denunce e querele. Se tuttavia nessuno fosse disposto a “testimoniare” di fronte ad un OIV, per il timore di dover rispondere di diffamazione o calunnia (a proprie spese), l’intera procedura fallirebbe miseramente. D’altra parte, mi sembrerebbe francamente eccessivo garantire ai testimoni la stessa “protezione” di cui godono, ad esempio, i vigili urbani in caso di contestazione di infrazioni al codice stradale non documentate da foto o altri elementi oggettivi. Inoltre, non sono convinto che un liticonsorzio impedirebbe ai nullafacenti di ricorrere a tutti i possibili gradi di giudizio, come mostra la recente esperienza calcistica, che ha visto coinvolti TAR, tribunali e Consiglio di Stato in vicende che avrebbe dovuto dirimere la sola giustizia sportiva. Rimango dell’idea che il problema della scarsa produttività abbia una natura più economica che giuridica e quindi possa essere risolto solo con strumenti “di mercato”, anche se apprezzo moltissimo lo sforzo ed il coraggio del prof. Ichino nell’affrontare una questione così spinosa.

    • La redazione

      Non ci si deve lasciare impressionare dal rischio della querela: le
      Procure della Repubblica di tutta Italia sono piene di querele molto
      opportunamente trascurate dai magistrati.

  21. Bernardo Giorgio Mattarella

    La proposta di Pietro Ichino è, come sempre, coraggiosa e realistica nei presupposti anche se non – temo – in termini di fattibilità politica e amministrativa. Si tratta di un rimedio eccezionale a una situazione eccezionale, dovuta all’inefficienza di una significativa minoranza di dipendenti pubblici e all’inattuazione delle norme che ne prevedono il licenziamento. Proprio per questa natura eccezionale, forse il meccanismo previsto potrebbe essere a tempo (una sunset law): dopo alcuni anni, esso potrebbe aver consentito di espellere un numero rilevante di nullafacenti ed essere abbandonato, mentre il sistema di valutazione potrebbe sopravvivere.
    Il mio principale dubbio riguarda la logica ispiratrice dell’operazione ipotizzata: è un licenziamento sostanzialmente disciplinare, volto a punire chi non lavora (come suggeriscono il criterio di selezione, basato principalmente sull’inefficienza colpevole, e le garanzie procedimentali)? O una riduzione del personale, volta a ridurre i costi (come suggeriscono il criterio dell’utilità effettiva, il numero minimo di licenziamenti e il litisconsorzio)? A me sembra che la logica debba essere la prima: non perché la riduzione del personale sia da escludere nel settore pubblico (nel quale comunque è più problematica), ma perché mi pare che l’esigenza non sia di ridurre il numero dei dipendenti, ma di rimediare alla pigrizia di alcuni, magari per fare posto ad altri, più volenterosi.
    Ciò non vuol dire che si debba rinunciare al numero minimo e al litisconsorzio. Si tratta invece di portare il realismo alle estreme conseguenze: prendere atto del fatto notorio che una percentuale rilevante di dipendenti è totalmente inefficiente e stabilire che almeno alcuni di essi devono essere licenziati. In altri termini, dato che i “colpevoli” sono tanti, ci si può permettere di stabilire una percentuale, perché non si rischia di colpire chi non è colpevole. Correggerei il tiro, dunque, in ordine ai criteri di selezione dei licenziandi.

    • La redazione

      Oggi il licenziamento disciplinare nel settore pubblico è ostacolato, anche nei casi di più macroscopico difetto colpevole di rendimento, da alcuni circoli viziosi paradossali:
      1) poiché i casi di questo genere sono molto diffusi e sono stati tollerati per decenni, questa circostanza riduce la colpa imputabile al lavoratore, la quale – secondo i criteri poco rigorosi applicati da qualche giudice del lavoro – non può quindi essere sanzionata con il licenziamento; il che costringe l’a.p. a mantenere il comportamento lassista tenuto fin qui;
      2) il principio di parità di trattamento impedisce di licenziare uno e non gli altri cento che si comportano allo stesso modo; ma da un primo occorre pur sempre incominciare; quel primo è quindi sempre protetto dal principio di parità di trattamento; quindi non si incomincia mai;
      3) più è difficile il licenziamento disciplinare, più grave è lo stigma negativo che ne deriva per il lavoratore; quindi maggiore è la gravità effettiva della sanzione; quindi maggiore è la gravità della mancanza per la quale quella sanzione può essere irrogata; quando si arriva a una situazione – come quella attuale del nostro pubblico impiego – nella quale il licenziamento disciplinare è rarissimo, questo induce il giudice a considerarlo quasi come una pena di morte; quindi come una sanzione irrogabile quasi soltanto per l’omicidio premeditato (anzi, neppure per quello, perché siamo contrari alla condanna a morte anche nel caso del peggiore delinquente).
      E’ proprio per rompere questi circoli viziosi che – a mio avviso – nel nostro settore pubblico è necessario combinare la tecnica del licenziamento collettivo con il criterio di scelta della “nullafacenza” imputabile al lavoratore (cioè un motivo che solitamente è addotto soltanto a sostegno di un licenziamento individuale). Sulla non contraddittorietà del motivo rispetto al provvedimento di natura collettiva rinvio alle risposte II.8 e II.9 nella scheda.

  22. Pino Zerbetto

    Trovo encomiabile e “rivoluzionaria” la proposta del Prof. Ichino.
    Non tanto e non solo perché volta a ridurre un fenomeno moralmente ed economicamente pernicioso per la collettività, quanto perché si basa su un criterio di giustizia distributiva (ripartire le risorse realmente esistenti) e non retributiva (ad ognuono secondo meriti e giustizia).
    Bel principio da enunciare quest’ultimo ma che inevitabilmente porta (con insopportabili corollari demagogici) a caste iperprotette a scapito dei più deboli.
    Personalmente sono convinto che, in generale, l’applicazione di logiche di giustizia distributiva sono la vera caratteristica delle nazioni più “adulte”.

  23. Marco D'Egidio

    Dare una valutazione di utilità di una specifica mansione, a mio parere, è il contrario di quello che si dovrebbe fare nei confronti dei nullafacenti, dei quali sono invece proprio l’impegno e la capacità a dover esser misurati, pur con tutte le difficoltà che ne derivano. In questo modo si degrada la proposta di licenziamento dei nullafacenti (perchè nullafacenti) a taglio dei dipendenti sulla base dell’utilità del singolo lavoro che svolgono, indipendentemente dall’impegno e dalla professionalità.

    • La redazione

      L’utilità e l’impegno

      Secondo la proposta, le cose dovrebbero andare proprio come dice lei, poiché – § I.1.6 – nell’elenco a) dovrebbero essere inseriti solo dipendenti il cui indice di competenza professionale e impegno personale sia nullo o quasi (in questi casi, del resto, anche l’indice di utilità della prestazione è quasi sempre nullo).

  24. A. Lorica

    Gent. Prof. Ichino.
    Leggo con piacere che finalmente si discquisisce su un tema a me particolamente caro. Sono anni che, nei confronti politici ed economici ai quali prendo parte, sostengo la tesi che l’apparato burocratico dello stato è un colabrodo fatto da persone che “percepiscono” stipendi (in alcuni casi anche alti) senza fornire una contropartita allo stato (ad esempio svolgere la propria mansione).
    L’unico dubbio che mi è sempre venuto è il seguente: ma come facciamo a misurare qualcosa che nemmeno i numeri immaginari riuscirebbero a rappresentare…
    Sarebbe sufficiente prendere le presenze sul posto di lavoro di queste persone per avere il primo degli indicatori al di sotto di ogni soglia ragionevole. Diamo per scontate che queste persone si presentino al lavor almento il 50% delle volte, il problema e riuscire a determinare per quanto tempo svolgono le “mansioni” del loro impiego pubblico e per quanto tempo svolgono attività in proprio (veda il personale del ministero dell’agricoltura che vendeva su banchetti lungo i corridoi del ministero stesso). Supponiamo che queste persone dedichino il 50% della loro presenza a svolgere le mansioni per cui percepiscono stipendio statale. Questo implica che il 25% del loro tempo lo passano a fornire un servizio con un livello di qualità al di sotto della soglia della decenza.
    Morale della favola, l’utilizzo dell’ammortizatore socile “assunzioni statali” ha creato un “mostro” che ci toccherà mantenere fino all’entrata in pensione di tutti i “rimorchi” assunti negli ultimi 20 anni (il che significa per altri 20 anni).
    La mia domanda è: secondo Lei, è possibile trovare una soluzione alternativa per non bruciare altri 20 anni di tasse?
    Grazie.
    AL

    • La redazione

      Che le cose stiano come sono descritte in questo commento in molti (certo, non tutti) i comparti del settore pubblico è provato dal fatto che nessuno, neppure nelle file dei sindacati della funzione pubblica, si azzarda a negarlo. E il dibattito in corso sta rendendo evidente l’insofferenza forte e diffusa nei confronti di questo stato di cose: da tre settimane stiamo
      discutendo del come fare per voltar pagina, essendo tutti d’accordo sulla gravità e l’urgenza del problema. Una proposta organica di intervento efficace, credibile in quanto capace di aggredire la questione da tutti i lati (ovviamente non solo da quello lato sensu disciplinare, qui in discussione), raccoglierebbe probabilmente un consenso largamente
      maggioritario nel Paese.

  25. Maria Scarpetta Clavarino

    Caro Prof. Ichino,
    viene spesso contrapposto il settore pubblico a quello privato, indicando quest’ultimo come un terreno piu’ fertile alle innovazioni. Tuttavia anche nel settore privato esistono il nepotismo e la difficoltà a licenziare gli inetti. Gli strumenti di valutazione possono senz’altro porre rimendio a questi problemi, ma non è questo il loro primo scopo. Il loro primo scopo è quello di chiarire quali sono i risultati che ciascuno deve ottenere nel proprio ruolo, e di incentivare ciascuno nella propria sfera di attività, integrata con l’attività globale dell’azienda. Oggi le aziende che si avvalgono di strumenti di valutazione sono molte, ma questo strumento diventa efficace soltanto se fondato su obiettivi attribuiti a ciascuno e a tutti, dai vertici alla base, con un buon ritmo di scadenze.
    Un valido sistema di valutazione è finalizzato: 1.1) a premiare chi raggiunge gli obiettivi, 2.1) a cercare i rimedi per sostenere chi li ha mancati , 2.2) a penalizzare chi – nonostante tutto – continua a mancarli.
    Questo sistema, se bene applicato, contribuisce a mantenere viva la motivazione di chi lavora. Nessun sistema, lo sappiamo, esclude i danni della mala fede. Pero’ l’ottimismo puo’ essere contagioso e incentivare chi altrimenti tende a cadere nel giro vizioso della mancanza di autostima e del disfattismo.
    Spero che i Suoi interventi coraggiosi e stimolanti vengano accolti, con l’obiettivo di rendere l’ambiente della Pubblica Amministrazione piu’ dinamico e piu’ attraente per chi è motivato al lavoro. Perderebbe cosi’ la leggendaria caratteristica di alloggiare come una “botte di ferro” i nullafacenti.
    Maria Clavarino

    • La redazione

      Le sue sono osservazioni utili e del tutto condivisibili. Il problema drammatico del nostro settore pubblico è che molti dei suoi comparti hanno vegetato finora senza alcuna “tensione” produttiva, alcuno stimolo etico e
      culturale, alcun incentivo materiale. Come si misura il raggiungimento degli obbiettivi stabiliti, se nessun obbiettivo è mai stato stabilito e la tolleranza verso i nullafacenti è stata dovunque generalizzata?
      Licenziare in almeno una parte dei casi in cui la colpa individuale è grave e facilmente individuabile è necessario, nel momento in cui si decide di voltar pagina, per un motivo essenzialmente etico-culturale (e gli strumenti oggi esistenti di fatto non lo consentono: v. la mia risposta al prof.
      Mattarella); ma il voltar pagina implica che contestualmente si attivi efficacemente un sistema nuovo di incentivi economici e motivazioni positive.

  26. Paolo

    Lavoro anch’io in una pubblica amministrazione (una scuola provinciale per la precisione). Da anni si parla di affidare diversi servizi (portineria, pulizie etc..) direttamente a privati (tipo le cooperative, come è già stato afft in molti casi), ma le resistenze sindacali lo impediscono.
    Il problema credo sia, comunque, abbastanza complesso.
    In Italia (comprese – è risaputo – le università e gli ospedali) esiste un problema ‘storico’ riguardante la qualificazione e le responsabilità dei singoli dipendenti. Inoltre si ricordano sempre le disparità di trattamento (normative, di welfare e simili) tra dipendenti pubblici e del settore privato (il che crea, tra il resto, delle distorsioni sul merfcato del lavoro). Inoltre si sostiene che il ricorso ai privati per diversi serviziinserisce elementi di concorrenza, che portano innovazione e sviluppo.
    In alcuni casi si verificano dei ricorsi quasi sorprendenti di ricorso a servizi privati: spesso diversi enti pubblici appaltano servizi di sorveglianza a ditte private (senza utilizzare nemmeno dei vigli urbani); anni fa un comune dell’Italia centrale si era rivolta ad una società svizzera specializzata per recuperare l’evasione dell’ICI (invece che alla guardia di finanza) etcc..
    Trovare il giusto mix tra pubblico e privato, tra stato e mercato è comunque un bel problema.. Spesso i privati (specie le organizzazioni c.d. ‘for profit’) riducono la qualità dei servizi per ridurre i costi e aumentare i profitti (tale pratica si sta, comunque, diffondendo nelle pubbliche amministrazioni, ad esempio quelle sanitarie). Ci sono dei fallimenti noti e abbastanza clamorosi di privatizzazioni che non hanno portato (ricordo principalmente il caso della Sanità britannica).
    Probabilmente questi problemi vanno affrontati in modo più complessivo, ripensando sia la qualificazione, selezione e responsabilizzazione dei dipendenti che dando una serie di premi ed incentivi per l’innovazione, efficienza etc.

  27. michele

    In Italia esiste il problema di un abnorme debito pubblico, determinato, almeno in una certa parte, dall’esborso che lo Stato sostiene anche per erogare stipendi, salari e quant’altro ai pubblici dipendenti, impiegati prevalentemente in servizi che dovrebbero manifestarsi direttamente o indirettamente come utili al cittadino. Questo stato di cose agevola l’operazione di addebitare al nullafacentismo esteso di costoro parte dei guai non solo finanziari che l’Italia presenta. Anche su LaVoce alcuni assumono questa ipotesi come un postulato (addiritttura qualcuno ci dice – bontà sua – che il 50% degli addetti non si reca al lavoro ogni giorno!); altri, fortunatamente, inquadrano la questione della produttività individuale e di sistema in quadri più complessi e, beninteso, non resi tali solo dal fatto di poter o non poter facilmente applicare “sanzioni punitive”, come se queste fossero salvifiche!
    Aldilà degli aspetti disciplinari invocati che, in assenza di dati, non si sa neppure quanti addetti potrebbero riguardare, si arriva finalmente a parlare di sistemi organizzativi, motivazionali, di incentivi e disincentivi individuali e di gruppo ecc. La sanzione, se necessaria, torna a far parte di un contesto generale rispetto al quale bisognerebbe, anche, valutarne l’efficacia e l’economicità. Paradossalmente se la quota dei nullafacenti fosse così alta, le performance del nostro sistema sanitario, migliore di altri,sarebbero conseguentemente attribuibili a una minoranza con altissima motivazione e spirito di sacrificio e, quindi, vivremmo in un mondo nel quale, per estensione, solo pochi eroi stakanovisti fanno funzionare la PA. Per favore! se ci sono dati credibili, pubblichiamoli oppure procuriamoli e analizziamo concretamente realtà che, evidentemente , non hanno assolutamente come principale problema funzionale il nullafacentismo di alcuni, ma quello di trovare mediazioni innovative efficaci tra organizzazioni formali e informali.
    Michele Casiraghi CGIL Scuola

    • La redazione

      Concordo sul punto che il sistema sanitario italiano, soprattutto al Centro-Nord, presenta ampie zone di eccellenza e un grado di qualità medio niente affatto disprezzabile; ma i nullafacenti oggi di fatto illicenziabili ci sono anche lì (una traccia specifica ne compare anche in questo dibattito: v. l’intervento di F.L. del 13 settembre); e almeno il dato della
      attuale illicenziabilità di fatto lo abbiamo: nessun licenziamento per scarso rendimento negli ultimi dieci anni. Concordo sul punto che l’attivazione dei licenziamenti nei casi più gravi – facilmente individuabili – ha senso soltanto nel quadro di una iniziativa generale di rifondazione del sistema degli incentivi a tutti i livelli della p.a.
      Concordo anche sulla necessità di evitare assurde generalizzazioni, in riferimento alla (pur complessivamente molto grave) situazione attuale; ma sottolineo che la proposta qui in discussione mira proprio a liberare i dipendenti pubblici dallo stigma di inefficienza che indistintamente (e
      quindi ingiustamente) oggi li colpisce. Aggiungo che la responsabilità maggiore della generalizzazione indebita è imputabile proprio ai sindacati del settore pubblico che hanno sempre perseguito una politica di appiattimento dei trattamenti, invece di impegnarsi nella difficile impresa
      della costruzione di un sistema capace di distinguere tra meritevoli e no.

  28. Marita la Rosa

    Condivido la posizione del prof. Ichino in quanto consente di centrare l’attenzione sul potere datoriale e quindi a far emergere le mille storture presenti nella gestione del personale delle ppaa.

    Una diquesta si può chiamare sindacalizzazione del settore pubblico che è avvenuta attraverso la contrattualizzazione del rapporto di lavoro, data la debolezza della dirigenza e l’insensibilità della classe politica.

    E’ utile pertanto mettere in gioco parametri di efficienza e di efficacia. Raffrontare uffici, strutture e sedi e legare la parte accessoria della retribuzione e il risultato della dirigenza alla produttività.

    Dall’altro lato però occore prevedere delle norme che evitino la commistione tra sindacati e amministrazione e rafforzino la dirigenza.
    E’ noto infatti che il presidente e i componenti dell’Aran vengono espressi dalle oo.ss. Così i direttori del personale delle amministrazioni. Propongo delle norme di incompatibilità per chi ricopre l’incarico di dirgente del personale (nei 5 anni precedenti e nei 5 anni successivi) e per i dirigenti dell’Aran.
    Troppe le norme a favore dei sindacati nei contratti collettivi, anche illegittime, che generano contenzioso e incertezza oltre che ad una cattiva gestione. Basti vedere i contratti della Ricerca, Ministeri o ultimo dell’Enac.
    Chiediamo delle norme in finanziaria o nel ddl Nicolais a favore delle ppaa.

    Marita La Rosa

  29. Dominik

    La illicenziabilità da una vita nel settore pubblico è nota a tutti.Nei Comuni non viene mai licenziato nessuno,nemmeno la vigilessa che durante l’orario lavorativo viene vista dai colleghi con altro collega a fare tutto tranne che il suo mestiere.Gli impiegati nullafacenti che sbagliano ripetutamente documenti,gli amministrativi che si permettono addirittura di offendere quando un cittadino pretende che gli atti siano redatti giustamente,non vengono minimamente ripresi da alcun organo competente ed il cittadino è l’unico a rimetterci.
    Nella scuola,professori nullafacenti e incompetenti non sono licenziabili; nel mio Liceo negli anni 80 per due professori (Matematica & Filosofia) facevamo sciopero bianco giornalmente,con presenza a scuola,protestando in continuazione.
    Per 5 anni la protesta è andata avanti sostenendo che non si poteva avere una Prof. di filosofia che mortificava la stessa materia e una di matematica che non sapeva le tabelline o le semplici equazioni di primo grado. Ovviamente queste due nullafacenti perlopiù sempre malate e in mutua sono arrivate alla loro bella pensione statale.
    La storia con mio figlio non è cambiata ne alla ne alle elementari e tantomeno alle medie che oggi stà frequentando.
    L’altro giorno mi sono recato all’ufficio delle entrate della mia città: la maggior parte dei cittadini presenti erano furiosi per l’incompetenza e l’assenteismo di tutto uno staff; il commento di un signore è stato il seguente: “mia figlia guadagna meno di questi nullafacenti e lavora a tempo determinato da una vita”.
    Nel Comune della mia città è stato bandito un Concorso per Vigile urbano al quale hanno partecipato in migliaia,proprio per la mancanza di occupazione oramai globale i giovani e meno giovani concorrono a qualunque cosa; ho partecipato anche io e ho notato che vi era presente una categoria di cittadini dai 20 ai 55 anni!
    Ovviamente tale concorso è stato vinto dal figlio di una impiegata del Comune…

  30. Marcus Toretto

    Proprio questa sera striscia la notizia ha fatto vedere come in un Ospedale di napoli ci siano decine di medici pagati 2500,00 euro al mese per non fare nulla e giocare tutta la mattina al computer facendo solitari e chattando comodamente a spese dello Stato.
    Questi nullafacenti sono al pari dei mafiosi, solamente vengono stipendiati con le tasse di noi cittadini.
    A Napoli non si trova lavoro, ma questi criminali continuano a fare i loro porci comodi senza che accada nulla, con sprechi pubblici immensi e poi lo Stato bnon crea occupazione per chi ne ha bisogno…
    Vorrei chiedere a tutti voi quanto potremmo sopportare il ladricionio di miliardi di euro da parte dimedici,pubbliche amministrazioni, insegnanti…ecc quando non passano nemmeno medicinali indispensabili alla saluto e visiste mediche fondamentali?
    Quanto ancora una categoria di lavoratori potrà godere di una illicenziabilità legale?
    Ecco perchè per lavorare in Italia le regle sono: raccomandazioni,nepostismi e mafia statale.
    Una vergogna di fronte all’Europa intera!

  31. Caustico Italiano

    “Arrivano i primi dettagli e le prime indiscrezioni sulla Finanziaria. La manovra è confermata a 30 miliardi, di cui 15 per lo sviluppo e conterrà una limatura del 6% della spesa della P.A., in particolare sulle quote relative ai consumi intermedi.Giro di vite poi sulle assunzioni nel pubblico impiego: per il 2007, il fondo viene ridotto a 25 milioni e una quota di esso pari al 20% verrà destinato alla stabilizzazione del personale con contratto a tempo determinato da almeno tre anni. Andrà, molto probabilmente, in “pensione” l’Inps e al suo posto arriverà l’Inpu, l’Istituto previdenziale unificato dei lavoratori pubblici e privati. Intanto, dopo un incontro con il premier Prodi, i sindacatidella scuola hanno minacciato lo sciopero generale.”
    Questo articolo è stato tratto da un post di del portale Libero: in poche parole i dipendenti pubblici che hanno distrutto l’italia con le loro incompetenze giornaliere in tutti gli ambiti, sia scolastico che p.a…etc saranno in questo modo ancora più stabilizzati.
    Ovviamente per l’unificazioni delle pensioni in un unico organismo dove non esista pubblico e privato non va bene altrimenti gli statali riuberebbero di meno…Quindi gli insegnanti come sempre scioperano, lo fanno da una vita e continuano ancora invece di pensare a lavorare seriamente.
    Questa è l’Italia dove andava bene qualche anno fa quando uno statale con 20 anni di nullafacente andava regolarmente in pensione.
    I dipendenti nelle ditte private invece che producono reddito (non come gli statali che sono solo spesa per lo Stato) sono trattati come sottospecie di lavoratori, mentre l’economia va avanti solo grazie al privato.
    Il pubblico in Italia è solo spesa folle ed ancora si da la possibilità ai nullafacenti di scioperare e chiedere diritti inutili!

  32. cicredoancora

    Ben vengano le proposte del professor Ichino,tanto contestate dai sindacati..perchè troppo spesso i veri nullafacenti (mi riferisco al settore scuola e in particolare alla mia scuola) sono proprio alcuni rappresentanti sindacali che , una volta eletti, non indugiano a fare valere il proprio diritto di assentarsi ripetutamente(ovviamente anche giustificato da qualche medico fin troppo compiacente) cui corrisponde il duplice dovere di chi è sempre presente, che oltre ad adempiere ai propri obblighi di servizio è anche tenuto a sostituirlo fino a 5 giorni di assenza (situazione difficile da gestire soprattutto nelle scuole primarie dove non sono previste nè uscite anticipate o entrate tardive dei bambini in caso di assenza dei docenti).Queste RSU ,gran difensori dei diritti propri a discapito di quelli altrui ,creano continui disservizi, intralciano il buon andamento della p.a., mortificano la motivazione professionale nei più giovani e soprattutto prendono in giro chi lavora con coscienza e con un senso di responsabilità inteso più come VALORE che come obbligo contrattuale . I dirigenti scolastici spesso non prendono posizione perchè temono contenziosi coi sindacati che si sono ridotti, consentitemelo, ad una sorta di cupola che protegge solo i suoi affiliati per garantirsi voti futuri….e allora W il prof Ichino e … ricordiamoci che il cosiddetto corpo docente non è una sorta di “massoneria” dove si coprono le inadempienze di chi scredita l’intera categoria, impariamo a reagire dall’interno del sistema scolastico isolando i nullafacenti ( che non meritano nemmeno di essere definiti “colleghi”) , ritiriamo le tessere sindacali , se necessario, e soprattutto ritornino gli ispettori scolastici, quelli che interrogavano gli alunni e leggevano i loro elaborati;nella scuola non servono monitoraggi e statistiche ma ispettori che controllino la formazione , le competenze e l’efficienza degli insegnanti!

  33. Bruno

    Come dipendente pubblico giudico queste proposte folli e inaccettabili. Folli perchè denotano l’incapacità dei dirigenti di “stanare gli eventuali nullafacenti” e inaccettabili perchè all’incapacità di stanare queste sacche (che vanno stanate) fa riscontro l’ingente MASSA DI RISORSE ECONOMICHE che si chiamano aiuti di Stato (l’elenco è impressionante per quantità e qualità) dati ai “privati” (imprese)che la Corte di Giustizia ha dichiarato illegali e da restituire e (mai restituite) che inducono a ritenere il motto “privatizzare e licenziare è bello” e “pubblico al macero”, una solenne DEVIAZIONE DI ATTENZIONE, diciamo una distrazione opportuna per evitare di guardare in casa d’altri. Guardiamo pure dentro il pubblico ma poi pubblichiamo un bell’elenco di quelli che i soldi pubblici non li hanno ancora restituiti..e son dolori…. Reputo sacro e inviolabile il saggio e prudente utilizzo delle risorse pubbliche. A queste fonti ci si disseta quando ci sono reali necessità non per lasciare il rubinetto aperto a tutti. Guardiamo agli sprechi e senza remore e se mai utilizziamo i dipendenti pubblici dove servono (ci sono musei ove i vigilanti accumulano ore e ore di riposi non goduti perchè non hanno sostituzioni ecc.) e altri che fanno i controlli fiscali (con mezzi propri e aggiornamento a loro carico) ecc. e poi ci sono quelli che “aprono i rubinetti” e consumamo tanta acqua, ma tanta…un fiume e non sono certo quelli a reddito fisso.

  34. Caustico Italiano

    In risposta a: “Cicredoancora”.

    “Queste RSU ,gran difensori dei diritti propri a discapito di quelli altrui ,creano continui disservizi, intralciano il buon andamento della p.a., mortificano la motivazione professionale nei più giovani e soprattutto prendono in giro chi lavora con coscienza e con un senso di responsabilità inteso più come VALORE che come obbligo contrattuale ”

    Quoto in parte qullo che scrive,ma vorrei porle un quesito se possibile: come fa a funzionare un organico quando l’un l’altro si coprono a vicenda in stile camorra, dove anche se non faccio nulla non vengo minimamente toccato da niente e da nessuno e lo stipendio lo ricevo ugualmente fino alla pensione?

    E’ solo colpa delle RSU oppure è colpa di una struttura oramai obsoleta che sicuramente è servita a molti per garantirsi una vita di dolce far niente ed una pensione d’oro.

  35. Anonimo Pugliese

    Alcune esperienze vissute in prima persona all’interno di un ente pubblico di ricerca.
    Giovane laureato, ho iniziato in amministrazione con un capo che – giuro – non sapeva ricavare imponibile e l’IVA dal totale di una fattura né utilizzare un pc o un terminale e che era in quella posizione solo per meriti di militanza politico-sindacale. Da cotanta scienza non ho imparato molto, né sono mai stato oggetto non dico di un piano preciso, ma nemmeno di una vaga idea di formazione e di sviluppo professionale.
    Successivamente, ho fatto parte di una struttura interna dedicata al trasferimento tecnologico, il cui capo ha affidato man mano le attività a fornitori esterni, relegando loro malgrado noi interni a nullafacenti.
    Sono tornato all’attività amministrativa, avviando da zero una sede periferica di 50-60 persone, occupandomi del bilancio e delle procedure d’acquisto di ogni tipo (forniture, servizi, lavori di ogni importo), svolgendo insieme incombenze quotidiane e un’intensa attività di autoformazione: mentre questo impegno stava dando i suoi frutti, arriva un collega trasferito da noi per sue esigenze personali che – complici alcuni alti papaveri – mi scippa le procedure ad evidenza pubblica, ossia quelle più complicate e qualificanti, la cui conoscenza e il cui avvio mi erano costati i maggiori sacrifici.
    In conclusione, evidenziato che il tratto comune alle tre situazioni descritte è la presenza ingombrante e predominante delle clientele politico-affaristiche, dico che andrebbe benissimo perseguire i nullafacenti ma solo in un quadro di assoluta trasparenza e certezza di ruoli e responsabilità su tutto il resto, perché sarebbe aggiungere danno a beffa se chi, già penalizzato da quelle clientele, venisse definitivamente colpito da regole dettate direttamente o indirettamente da quella stessa classe politica che le clientele ha creato, alimentato e sfruttato, pretendendo adesso di ergersi a severo giudice delle sue stesse vittime.

  36. CausticoItaliano

    X Anonimo Pugliese…
    Condivido!
    La chiarezza comunque avviene tramite l’impegno; il nullafacente lo si vede e lo si capta, anche chi arriva dall’esterno per un semplice servizio: è tutto chiarissimo, basterebbe usare quegli stessi metodi investigativi che vengono usati per aspetti inutili. Ho lavorato in provincia (naturalmente hanno scelto di non riconvalidarmi la supplenza per garantire un pacco sindacale). Tutto è chiaro e lampante, basta volere, ma al sistema evidentemente va bene così cioè garantire nullafacenti e punire chi lavora.

  37. Giovanni Scolari

    Trovo più che ragionevole la proposta del prof.Ichino. Aggiungo anche che non mi scandalizza neppure l’idea che un lavoratore statale venga licenziato, con gli opportuni ammortizzatori sociali, quando risulti in sovrannumero rispetto alle esigenze dell’ente presso cui lavora. Lo dico io che sono un insegnante. Tuttavia, il vero problema è l’ingessatura del mercato del lavoro in Italia per alcune categorie, come la mia. A Brescia, infatti, come in altre città produttive italiane, i laureati in materie umanistiche vengono considerati assolutamente inadeguati per svolgere lavori nel privato. Prima di essere assunto in ruolo, ho provato a sondare il mercato del lavoro, ma il solo titolo di studio mi faceva automaticamente scartare da tutte le aziende. Che i laureati in lettere godano di una bassa considerazione mi venne confermato da esperti del settore con cui ho parlato. Alla licenziabilità di molte persone, devo, perciò, necessariamente seguire una reale riforma del mercato del lavoro.

  38. Marco Dominici

    Chi scrive è un italiano di quasi 35 anni non acora inserito nel lavoro in maniera permanente perchè non ha mai chiesto niente a nessuno credendo che la Volontà fosse più forte delle raccomandazioni: mi sbagliavo perchè vivo nella terra più corrotta d’Europa. Il sottoscritto ha partecipato a decine di concorsi pubblici, da vigile urbano ad assistente/istruttore amministrativo in Comuni, Provincie e Regioni…, anche nel settore scuola, accorgendosi che il 90% di questi concorsi sono truccati (Il restante 10% è per il personale interno).
    Persino la ditta che si occupa dei rifiuti nella mia città è un baluardo di raccomandazioni:si lavora le poche ore, non si fa quasi nulla e siamo siciìuri perchè gestita dal Comune. Ma è privata? No perchè è come le Ferrovie o le Poste cioè falsa privatizzazione con a capo lo Stato e quindi la corsa in questi settori occupazionali è d’obbligo. Ho deciso dunque di non perdere più tempo con un “Pubblico Servizio” corrotto e manipolato, con sindacati che decidono chi inserire nei posti di lavoro migliori ovviamente (e poi parlano di antirazzismo militante).
    Cosa possiamo dare ai nostri figli se l’Italia continua a basarsi su falsi concorsi, raccomandazioni, nepotismi e quant’altro?…
    Quanti licenziamenti per scarso rendimento si registrano nella pubblica amministrazione, nei reparti statali? Nessuno!
    Questo dice tutto e non c’è commento alcuno di fronte a “lavoratori” che sanno benissimo, qualunque cosa accada che lo stipendio lo avranno sempre.

  39. Inkazzatanera

    Gent.Prof. Ichino,
    ho letto il suo libro e la sua proposta è coraggiosa. Lei ha tutta la mia stima per il solo fatto di aver osato rompere “il muro del silenzio” che protegge l’argomento.Sono una delle centinaia di migliaia di precari che lavora in un’azienda pubblica fortemente sindacalizzata, vi lavoro da quasi tre anni con vari tipi di contratto. Stando in quel posto di lassisti, depressi, frustrati, invidiosi e nullafacenti ho capito tante cose: fare concorsi pubblici senza una raccomandazione è inutile…l’iscrizione ad un forte sindacato è obbligatoria per poter andare avanti. Non faccio altro che chiedermi perchè io, con una carriera scolastica brillante, una laurea presa con il max dei voti ed un master alle spalle, debba, ogni giorno, essere guardata come una povera illusa senza speranze da ignoranti con la terza media che prendono il triplo del mio stipendio, che hanno almeno un altro lavoro, e che chiamarli fankazzisti è un eufemismo. Me lo dica lei!Perchè?questa gente è un insulto a tutti quelli che un lavoro non ce l’hanno!e hanno pure il coraggio di lamentarsi!il governo dovrebbe vergognarsi di continuare a proteggere e a tutelare questi parassiti!

  40. Fabio Pancrazi

    Buongiorno, mi chiamo Fabio Pancrazi, sono geometra e faccio il vigile urbano nel comune di Sansepolcro in provincia di Arezzo (soldato semplice). A marzo compirò 53 anni ed ho più di 30 anni di contribuzione. Con le attuali regole (salvo peggioramenti in vista) andrò in pensione a 62 anni e con 40 anni di contributi. Molti miei coetanei sono già in pensione grazie ad anni di mobilità, prepensionamenti nelle ditte private, esuberi nelle banche, ecc. Praticamente si mettono a carico della collettività quei lavoratori con vecchi buoni stipendi e si sostituiscono con giovani precari da pagare poco. Sono questi, secondo me, i veri “dipendenti pubblici” nullafacenti. Per non parlare delle imprese edili che lavorano esclusivamente per la Soprintendenza, le grandi aziende agrarie a carico dell’Unione Europea, i dipendenti ben pagati dei carrozzoni creati con la gestione degli acquedotti venduta alle multinazionali e tutti i dirigenti e dipendenti che dobbiamo pagare con i servizi tariffati, con le bollette di casa. Sono tutti alle dipendenze pubbliche, sono più costosi e, a volte, più fannulloni del sottoscritto.
    Troppo facile cercare un consenso populista tipo: la rovina dell’Italia sono i vigili urbani, i cantonieri e gli impiegati dell’anagrafe. A loro dobbiamo valutarli. Ma da chi? Dai politici? Nel mio comune, recentemente passato dal centrosinistra al centrodestra, prima i dipendenti “meritevoli” erano di sinistra ed ora lo stanno diventando quelli di destra. Restano sempre meritevoli con ogni schieramento gli iscritti ad associazioni trasversali. E molti non sanno declinare il gerundio di un verbo!
    Prof. Ichino, mi dica sinceramente, senza temere l’allontanamento dai giornali e dalla televisione per demerito: non pensa che l’eventuale Authority NON debba chiamarsi “Authority sull’impiego pubblico” MA “Authority sulla Pubblica Amministrazione”?

    • La redazione

      Sul nome dell’Authority si può ovviamente discutere; ma, altrettanto ovviamente, non è questa la questione cruciale. Quanto Lei scrive conferma, invece, che, dove non è possibile assoggettare un servizio pubblico al controllo del mercato, in una situazione in cui il management è troppo permeabilie alle pressioni della politica, occorre un organismo indipendente
      che valuti efficienza e produttività, che incentivi e in qualche misura costringa il management a fare il proprio dovere. E occorre anche dare voce in capitolo agli utenti, alla cittadinanza: poiché non si dà loro l’opzione exit, occorre dare loro almeno l’opzione voice. p.i.

  41. Luca Naldi

    Ora che una nuova legge sulla P.A. è in vista oltre al giustissimo principio che nella valutazione dei dirigenti bisogna spezzare il vincolo esclusivamente fiduciario tre il livello dirigenziale e il livello politico, (demandando ad una autorità indipendente la valutazione) sento parlare anche di inserire, quale elemento di valutazione, il grado di soddisfazione dell’utentecittadino. Bene, credo che in alcuni settori questo elemento non rilevi perché non può, in quei contesti, manifestarsi. Prendiamo il settore “servizi di giustizia”. In questo settore probabilmente il solito atteggiamento con cui si manifestano le dinamiche usuali della P.A. è, secondo me, più pervicace. Vuoi perché il magistrato italiano, è soggetto soltanto alla legge – non dovendo rendere conto al giudizio elettorale, vuoi perché l’organo che dovrebbe gestire l’efficienza nel settore giustizia (e non lo fa) – il Consiglio Superiore della magistratura per la giustizia ordinaria e organi analoghi per le magistrature speciali – è un organo composto da membri eletti dagli stessi magistrati (e magistrati loro stessi) e da altri di nomina politica. Cioè un organo pensato al solo fine di garantire l’indipendenza degli stessi magistrati (cosa non disprezzabile beninteso) ma è assolutamente non idoneo a rispondere alla colletività in termini di efficacia ed efficienza e per giunta è un organo anche di rango costituzionale (con la conseguente rigidità per la sua riforma). Vuoi perché in quel settore il “grado di soddisfazione dell’utente” è mediato dall’avvocato difensore. Ma proprio in questo settore si annidano notevoli inefficienze. Pertanto, il rapporto tra “direttiva” del magistrato e “gestione” del dirigente è forse ancor più vincolato, negativamente, che in altri settori da un rapporto esclusivamente fiduciario. Sandulli in un saggio, 40 anni fa, voleva demandare la gestione della P.A. ad una sorta di organo collegiale. Ci stiamo arrivando oggi ma temo con le solite italiche e incongruenze.

  42. giovanni

    La proposta messa in discussione è forse provocatoria e per questo utile a smuovere la acque ma non certo utile nel senso vero del termine perche si scontra con il veroe solito problema della pa.
    Non essendoci un capo nel senso di proprietario dell’azienda il tuo superiore non ha mai un vero interesse a che le cose funzionini ma a far si che le cose siano meglio per lui.
    faccio il mio esempio credo di essere un lavoratore statale di quelli che fa il lavoro anche degli altri il problema è che mi sto stancando anche perchè se invece di lavorare tutto il giorno lo avessi passato a leccare il mio superiore adesso avrei di sicuro una posizione migliore di quella che ho e nel caso venissero formulati dei giudizi io avrei dei giudizi medi il mio collega che invece di lavorare passava il tempo a fare favori al capo sicuramente avrebbe dei giudizi migliori.
    I cittadini vedono solo il dipendente allo sportello non certo tutti i dipendenti pubblici e magari quello allo sportello è proprio uno dei più produttivi.

  43. Stefano D.

    Il fenomeno da Lei evidenziato, mi fa sorgere una considerazione molto amara e cioè che in Italia, specialmente in questo periodo, vengano usati due pesi e due misure. Mi spiego. Da una parte abbiamo questa categoria di dipendenti che, colpevolmente o no, vengono mantenuti sul posto di lavoro anche senza avere una produttività, in alcuni casi non andandoci proprio; per contro si nota nei confronti di lavoratori autonomi una froce ricerca della massima produttività creando una concorrenza spietata, fino al limite del paradosso che si verifica, a mio avviso, nei confronti dei benzinai colpevoli di avere un margine di circa 8 cent/litro quando lo Stato incamera il 66% circa del costo del carburante proprio per mantenere questi pachidermici carrozzoni. Questo atteggiamento del governo sta generando, secondo me, una lotta tra poveri, dove chi sta da una parte se la prende con chi sta dall’altra. Che tristezza!

  44. Luca Naldi

    Torno sul mio quesito che avete gentilmente pubblicato. Ci torno perchè voglio evidenziare una notizia che, a naso, reca un forte indizio ai mie dubbi sulle possibilità che in certi settori, come quello relativo all’amministrazione di giustizia le resistenze a innovazioni gestionali siano maggiori che negli altri. E che queste resistenze provengano da chi incardina il ruolo di “decisore politico” nei suoi rapporti con i dirigenti e con il personale amministrativo. Lei professore avrà certamente notato che ieri all’inaugurazione dell’anno giudiziario il presidente della Corte dei conti ha liquidato la sua proposta come sostanzialmente inutile. E la sua proposta cita in diversi punti la Cdc come protagonista. Eppure… Eppure alla Cdc non piace la sua riforma. Glie la dico tutta: in quella magistratura ci sono FANNULLONI conclamati. Fannulloni che tutelano il proprio quieto vivere anche con dirigenti elevati a quel rango da un rapporto esclusivamente fiduciario. Ha visto il servizio sul tribunale di Roma? Beh la Cdc sta ancora giudicando – e pure male (vedi il diritto dei perseguitati dalle leggi razziali) sulle pensioni di guerra. Basta questo, no?

  45. Marica

    APPROFITTO DI QUESTO SPAZIO PER ESPRIMERE TUTTA LA MIA SOLIDERIETA’ AL PROF.ICHINO, CON LA SPERANZA CHE QUANTO ACCADUTO NON LO SCORAGGI DAL CONTINUARE AD ESPRIMERE LIBERAMENTE E SENZA PAURA LE SUE IDEE E I SUOI PENSIERI.

  46. Gigliola

    Voglio anch’io portare la mia solidarietà al prof. Pietro Ichino per quanto emerso nelle recenti indagini. Spero non si lasci intimidire e continui il suo lavoro con la passione di sempre.
    Forza professore, abbiamo bisogno di lei.

  47. Emanuele Zavatarelli

    Dott. Ichino,

    ho letto recentemente il suo libro “I Nullafacenti” e sono rimasto piacevolmente colpito da tutti i suoi aspetti, soprattutto la IV parte; mi chiedo e le chiedo se sia veramente possibile fare qualcosa per invertire la rotta, vd. III parte dove il luogo comune si fa tristemente realtà.
    Trovo la sua proposta azzardata per il nostro paese e allo stesso avanzatissima, la sua applicazione potrebbe rappresentare il punto di rottura che garantirebbe alla nostra P.A. di evolversi e modernizzarsi trascinando la crescita di tutto il sistema paese, credo infatti che una ristrutturazione radicale e rivoluzionaria della P.A. non possa prescindere dalla produttività dei dipendenti pubblici.
    Vorrei sapere se la sua proposta è andata avanti a tal punto da poter essere presentata come proposta di legge, se è esistita qualche possibilità che si passasse dalla teorizzazione alla applicazione reale.
    Infine, dato che siamo in clima pre-elettorale, pensa che la sua proposta possa entrare nel programma di qualche compagine politica, che abbia il coraggio di metterla ai primissimi posti del proprio prossimo programma?
    Attendo a mia volta un suo commento.

    Emanuele Zavatarelli

    • La redazione

      Nel dicembre 2006 sono stati presentati due progetti di legge ricalcati su di un modello ispirato alle idee del libro, elaborato da un gruppo di studiosi ed esperti coordinato da Bernardo Giorgio Mattarella e da me: uno alla Camera, primo firmatario Lanfranco Turci, sottoscritto da deputati di maggioranza e di opposizione; uno al Senato, primo firmatario Antonio Polito, fatto proprio dalla Presidenza del gruppo dell’Ulivo e quindi firmato anche da Finocchiaro, Latorre, il presidente della Commissione lavoro del Senato Tiziano Treu, e numerosi altri senatori di maggioranza. Una parte di quel progetto è poi confluita in un disegno di legge governativo, che però non ha completato il suo iter parlamentare. Su questo stesso terreno sta invece maturando un’iniziativa di grande rilievo, fatta propria dal governo di una delle più importanti Regioni italiane: un progetto molto incisivo, fondato sul principio della trasparenza totale, garantito da un valutatore indipendente "importato" dal Nord-Europa, fondato sulla coniugazione (quotidiana on line e periodica attraverso la public review) tra internal audit e civic audit, con sperimentazione di un sistema di obiettivi SMART (Specific, Measurable, Achievable, Repeatable, Timely) assegnati alla dirigenza regionale, e di un premio di risultato agli addetti ai servizi di front line collegato alla valutazione diretta degli utenti. Tenga d’occhio lavoce.info nei prossimi giorni. (p.i.)

  48. Mazzotta Corrado

    Egregio Dott. Ichino, per 45 anni ho fatto l’imprenditore, riassumendo nella mia modesta persona tutti i ruoli possibili nell’ambito di una impresa produttiva, dall’apprendista (nel senso che avevo bisogno di apprendere le tecniche di alcune mansioni specifiche), al contabile, al "manager", all’addetto alle vendite, ecc., ecc. Ho sempre saputo classificare "al volo" i dipendenti validi dai nullafacenti od aspiranti tali. Sà perché avevo questo "straordinario" dono? Perché dovevo salvaguardare la salute dell’impresa (e di conseguenza la mia). Sà perché la P.A. non riesce ad eliminare i nullafacenti? Perché la Dirigenza è già ampiamente salvaguardata nei propri (di pe sé già notevoli) interessi! Tutto il resto sono solo chiacchere!

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