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Vivere più a lungo, lavorare più a lungo?

Si riaccende, con l’avvicinarsi della finanziaria, il dibattito sull’innalzamento dell’età pensionabile. Vari studi mettono in evidenza come una risposta alle conseguenze dell’allungamento della durata di vita sulla spesa previdenziale debba passare soprattutto attraverso un aumento dell’occupazione dopo i 50 anni. Un recente rapporto OCSE, ripreso da molti studiosi, propone la formula: “live longer, work longer”. Ma “work longer” significa, soprattutto per l’Italia, anche un accesso meno tardivo al primo impiego.

Invecchiamento della popolazione e spesa previdenziale

Storicamente gli anziani sono sempre stati una quota esigua della popolazione totale. In passato la quota di persone di 65 anni e più non superava il 5%, vale a dire un anziano ogni 20 persone. Il fatto che nelle società contemporanee ci siano molti più anziani è conseguenza del fatto che si fanno meno figli rispetto al passato e che le persone vivono molto più a lungo.
Nell’ipotetica situazione di equilibrio
, nella quale si fanno tanti figli quanti ne bastano per l’esatto ricambio generazionale (ovvero due figli per coppia) e nella quale le persone vivono in media 80 anni, la quota di anziani tenderebbe a stabilizzarsi vicino al 20%, ossia un anziano ogni cinque persone.
Ciò significa che la presenza di una quota elevata di anziani va considerata una caratteristica del tutto nuova rispetto alla storia dell’umanità, ma anche destinata a diventare strutturale e permanente nel futuro.
Dobbiamo preoccuparcene? Sì, nel senso di “pre-occuparcene”, ovvero di adottare per tempo le misure più adeguate per affrontare al meglio questo cambiamento epocale. Ciò vale ancor più che per noi europei, per noi italiani. La quota del 20%, già di per sé inedita e rilevante, è infatti destinata ad essere superata in Europa nei prossimi decenni. I livelli di fecondità continuano infatti a rimanere sotto la soglia di sostituzione generazionale (quasi tutti sono sotto i due figli per donna) e la durata media di vita è in continuo allungamento (in molti paesi attualmente ha già superato gli 80 anni).
Per alcuni paesi la situazione è ulteriormente aggravata. E’  il caso dell’Italia. A penalizzarci non è però solo il quadro demografico, ma anche quello economico, oltre che alcune caratteristiche peculiari del nostro sistema di welfare.
Partiamo dal quadro demografico. Il nostro paese presenta livelli di fecondità più bassi rispetto alla media europea e dei paesi OCSE e livelli di longevità più alti. Di conseguenza il processo di invecchiamento della popolazione è decisamente più accentuato che altrove (in situazione analoga alla nostra ci sono solo Spagna e Giappone).
Riguardo poi al quadro economico, le fragilità specifiche sono varie. In particolare i bassi tassi di occupazione femminile, giovanile e dopo i 50 anni rischiano di portare vicino ad uno il rapporto tra pensionati e lavoratori, rendendo insostenibile la spesa previdenziale, e rischiando pertanto di mettere in crisi il sistema complessivo di welfare pubblico.
Ciò che rende più problematica la situazione italiana, rispetto alla media europea è quindi il fatto che nel rapporto tra pensionati e lavoratori il numeratore sarà molto maggiore nel nostro paese, a causa del più accentuato invecchiamento della popolazione. Inoltre il denominatore tende ad essere molto minore, a causa della più bassa partecipazione lavorativa non solo degli ultra cinquantenni (come evidenziato nel recente rapporto OCSE “Live longer, work longer”), ma anche e soprattutto di donne e giovani.

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Lavorare più a lungo significa anche un accesso meno tardivo al primo impiego

Non si intende qui sostenere che rimuovere gli ostacoli che favoriscono la permanenza nel mercato del lavoro degli over 50 non sia un importante obiettivo da aggiungere all’agenda delle riforme (come giustamente sottolineato nel rapporto OCSE). Ci si chiede però se a ciò non vada assegnato un grado minore di priorità rispetto a quello di rimuovere gli ostacoli che rallentano l’entrata stabile dei giovani italiani nel mercato del lavoro e penalizzano la presenza femminile.
Il tasso di partecipazione femminile, pur in leggero aumento, rimane il più basso d’Europa (oltre 10 punti percentuali sotto la media UE). In Italia ben il 40% delle donne italiane nella fascia cruciale di età 35-44 anni non lavora (si sale al 60% nel Mezzogiorno). Sulla bassa occupazione femminile pesa soprattutto la difficoltà di conciliare il lavoro con gli impegni per la famiglia (e di “care” in generale). Le carenze del nostro welfare pubblico rendono cruciale il ruolo delle reti di aiuto informale, il cui asse portante sono del resto proprio le donne, soprattutto di mezza età. Secondo una recente indagine Istat, ben due casalinghe su tre dichiarano che sarebbero felici di poter trovare una occupazione remunerata, se tale conciliazione fosse possibile.
Riguardo poi all’occupazione giovanile, non solo è tra le più basse, ma i tempi di accesso al primo lavoro sono addirittura aumentati negli ultimi anni, anche per i laureati.  Il peggioramento vale anche in termini relativi rispetto alle età adulte: il differenziale tra occupazione italiana della fascia 20-29 rispetto a quella 30-54 è pari a circa 20 punti percentuali, ed è tra i più elevati in Europa (Istat, Rapporto Annuale, 2005).
Bassi tassi di attività e bassi salari di ingresso, a fronte di un welfare che fornisce una scarsa protezione sociale per i giovani, non possono che incentivare un’accentuata dipendenza dai genitori. Tutto ciò è coerente con il fatto che i giovani italiani sono quelli che hanno il record di durata di permanenza nella famiglia di origine. Va inoltre aggiunto che la valorizzare i percorsi lavorativi dei giovani e delle donne non solo aiuta a ridurre il rapporto pensionati / lavoratori, ma favorisce anche una meno tardiva formazione delle unioni ed una più elevata natalità (come vari recenti studi hanno dimostrato) il che a sua volta contribuisce a mitigare lo stesso processo di invecchiamento della popolazione.
Se quindi è in generale condivisibile l’equazione “vivere più a lungo, lavorare più a lungo” suggerita dal rapporto OCSE  – ovvero l’esigenza di mettere in atto misure di incentivo alla permanenza nel mercato del lavoro dopo i 50 anni – va però anche tenuto presente che per il nostro paese lavorare più a lungo non riguarda solo la posticipazione dell’uscita dal mercato del lavoro, ma forse, ancor più urgentemente, una riduzione del ritardo nell’entrata (e più in generale migliori opportunità e condizioni lavorative all’inizio della carriera lavorativa).

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Il lato positivo: abbiamo grandi margini di miglioramento

Ma guardiamo anche l’altra faccia della medaglia: se l’Italia, per la maggiore accentuazione del processo di invecchiamento ha maggior esigenza rispetto agli altri paesi a mobilitare le riserve di lavoro disponibile è però anche più ricca di risorse che potenzialmente può mettere in campo (ovvero giovani e donne), semplicemente per il motivo che le ha finora, colpevolmente, sottoutilizzate. Vanno però create urgentemente e strutturalmente le condizioni per poterle valorizzare adeguatamente, mirando al contempo a quantità e qualità dell’occupazione. Se proprio dobbiamo trovare un motto che possa servire da guida per politiche utili a far riprendere slancio e riguadagnare competitività al nostro paese, suggeriamo: “lavorare meglio, lavorare tutti!”.

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Sommario 21 agosto 2006

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La pecora nera è giovane dentro

12 commenti

  1. stefano facchini

    L’analisi della curva demografica non giustifica l’allarmismo sulla tenuta del sistema previdenziale pubblico in quanto la bassa natalità delle coppie italiane e l’aumento dell’età media della popolazione anziana vengono ampiamente compensate dall’immigrazione a prevalente carattere giovanile dall’alto indice di fertilità. Basterebbe rendere più agevole l’inserimento socio-economico della manodopera immigrata per esempio agevolando l’ottenimento della cittadinanza.
    Quello appare quindi come un argomento strumentale per imporre il secondo pilastro previdenziale.
    Per quanto riguarda l’allungamento della vita lavorativa dei lavoratori poche aziende private sono disposte a non privarsi dei lavoratori over 50 più costosi e meno disposti alla flessibilità dei precari under 35, è quindi impensabile tentare di rimuovere ostacoli alla loro permanenza nel mondo del lavoro in ambiti competitivi. Eventuali soluzioni: 1) agli over 50 espulsi definivamente dal mondo del lavoro vengano destinate quote di posti di lavoro nello stato come categoria protetta con contribuzione ridotta fino al raggiungimento dell’età pensionabile;
    2) si implementi l’autoimprenditoria over 50 organizzando corsi presso le locali camere di commercio e finanziando le nuove imprese attraverso prestiti agevolati garantiti da joint-ventures tra enti pubblici, banche, fondi privati e ventures capitalists; in seguito corsi e fondo si autofinanzierebbero con la restituzione graduale del capitale prestato e subito reinvestito.
    Per quanto attiene poi al sottoutilizzo in Italia delle risorse a più alto potenziale produttivo quali donne e giovani, specie nel settore dei servizi in forte esansione, la responsabilità è da attribuire a deficit sia nella mentalità della nostrana imprenditoria sia in lacune legislative, per cui occorre intervenire ad entrambi i livelli per colmare il gap culturale delle classi dirigenti italiane rispetto agli altri paesi ad economia avanzata e davvero competitiva.

  2. maria di falco

    Gentile prof. Rosina, mi riferisco al suo articolo del 28.8 in cui afferma che la bassa occupazione femminile si spiega soprattutto con la difficoltà delle donne di conciliare il lavoro con gli impegni familiari e con gli impegni di “care” in generale. Infatti, lei continua, le carenze del welfare italiano sono tali che diventa cruciale il ruolo delle reti informali di aiuto informale, il cui asse portante sono le donne. a questo proposito vorrei chiederle se non si possa pensare di scrivere nel bilancio dello Stato (di tutti gli Stati, come regola universalmente accettata) il lavoro di care svolto dalle donne ed uscire dalla logica del PIL, basata sul fatto che è considerato ricchezza solo ciò che è collegato ad un valore “esterno”, come lo stipendio, il valore delle merci, ecc. Il lavoro di cura delle donne non ha purtroppo valore di scambio, ma solo valore d’uso. Ma proprio come ha detto lei alle carenze del welfare sopperisce il lavoro delle donne e proprio per questo dovrebbe poter essere rilevato nel bilancio dello Stato. Tutto questo non c’entra direttamente con la qualità di disoccupato vissuta soggettivamente dal singolo individuo (vista la rilevanza al sentire soggettivo che viene data nei questionari Istat sull’occupazione), tuttavia credo sia importante l’emersione a livello nazionale di un lavoro finora non considerato. Lei cosa ne pensa ?

    • La redazione

      Condivido pienamente. Ci sono dei tentativi di costruzione in vari paesi (ad esempio la Finlandia) di un “satellite account of household production”. L’impresa non e’ pero’ delle piu’ facili. Alcuni passi in avanti si stanno facendo. Ad esempio i dati armonizzati a livello europeo sul “time use” recentemente
      rilevati (anche in Italia) possono rivelarsi preziosi per stime dell'”unpaid household labour”.
      Saluti,
      AR

  3. elisa strobbia

    Io non sono così ottimista sulla tenuta del nostro sistema previdenziale nonostante l’auspicabile contributo dei lavoratori immigrati, che a mio parere vanno integrati nella nostra società il prima possibile e dare loro la cittadinanza.
    E’ stato mai effettuato un calcolo su quando potrebbe fallire l’INPS se la situazione economica non dovesse migliorare e la tendenza demografica all’invecchiamento della popolazione restare quello odierno?
    Grazie e cordiali saluti

  4. Tommaso G.

    Sul tema del livello di occupazione, il problema italiano rimane sempre la posizione strutturalmente critica del sud, che, in ottica regionale europea, si posizione come luogo peggiore per una “decente” occupazione (soprattutto per le donne).
    Ciò non toglie che anche al nord sulla questione giovani e lavoratori >50 ci sia molto lavoro da fare.

  5. alessia

    Concordo pienamente con quanto scritto dall’autore in modo così chiaro e preciso.
    Il problema principale per il nostro Paese è la mentalità esistente.
    Fino a quando le donne saranno viste con sospetto nelle aziende perchè potenziali future mamme le cose non potranno cambiare veramente. Bisognerebbe poi anche fare capire a tanti imprenditori nostrani che le donne non necessariamente sono adatte a svolgere quasi esclusivamente lavori di segretariato, ma ci sono anche tante laureate in materie scientifiche ed economiche in grado di eseguire bene altri tipi di lavoro.

    La strada è dunque tutta in salita, ma forse il vero cambiamento dobbiamo attuarlo prima di tutto noi donne lottando per i nostri diritti e per vederci riconosciuti i nostri meriti.

    Cordiali saluti
    Alessia

  6. rosina

    Gentile prof. Rosina, quello che dispiace leggendo articoli e studi sulla forza lavoro e sull’invecchiamento della popolazione con le conseguenze sulla spesa pubblica previdenziale è che non si mette abbastanza in evidenza come le persone over 60/65 anni molte volte lavorano nel terzo settore (volontariato) a titolo gratuito, ma producono reddito ad esempio nel settore dei servizi. Quello che viene fuori (certo in modo involontatio) sembra una contrapposizione netta tra vecchi improduttivi e giovani produttivi. Non si potrebbe rilevare in contabilità nazionale e/o nelle statistiche sulla forza lavoro questa circostanza. E’ vero che esiste il problema dell’attribuzione del valore a queste attività, ma credo che vada fatto uno sforzo per dare valore a tutta una serie di realtà, che è giusto che emergano a livello ufficiale.

  7. gianluigiotto

    Tutti i dati da Lei riportati corrispondono purtroppo alla pura realtà dei fatti.
    Però si deve comunque tener presente che il sistema economico vigente, pur portandoci a questa situazione, ci permette ancora di ragionare a benessere generale crescente.
    Ora la prospettiva è che il mondo, in particolare occidentale, sarà composto di una consistente percentuale di anziani.
    Questa tendenza è in atto da anni ma non pare che ciò abbia impedito il continuo svilupparsi della nostra economia; anzi gli anziani quando si è potuto sono stati espulsi dal lavoro in giovane età, (vedi i cinquantenni, vedi i prepensionamenti finanziati dallo Stato anche in aziende con ottimi bilanci) proprio perché il sistema produttivo lavora meglio con le giovani generazioni e soprattutto tende sempre di più ad aumentare la sua produttività ed a utilizzare sempre meno lavoratori.
    Credo di aver aggiunto alle sue considerazione altre che peggiorano ulteriormente il quadro prospettico di un mondo nel quale i lavoratori attivi saranno pochi rispetto ai non occupati o ai sottooccupati anziani e non.
    I tentativi che vengono fatti per “vivere più a lungo, lavorare più a lungo”, temo che siano accorgimenti che servono soltanto ad alleviare il problema.
    Quindi più che ripensare al patto generazionale fra giovani e anziani per rendere equilibrato il sistema previdenziale, credo che vada rivisto il patto fra chi lavora e chi non lavora, ovvero fra chi guadagna molto e fra chi non guadagna, evitando gli squilibri di distribuzione del reddito a favore di più ricchi (vedi l’alto e con andamento crescente indice Gini, soprattutto in Italia) che si sono creati nel mondo occidentale, da quando si sta portando avanti il tentativo di erodere quelle conquiste sociali che i lavoratori hanno ottenuto con tanti sacrifici e lotte durante lo scorso secolo.

  8. nicola palazzo

    Quando si mette in moto la macchina della persuasione che mira a fare entrare in confusione, o addirittura ad ottenere il consenso degli stessi portatori di interessi sacrificati,è difficile mantenere il buon senso.
    In vivere più a lungo, lavorare più a lungo? Il prof. Rosina sostiene la necessità di prolungare la vita lavorativa degli ultracinquantenni e contemporaneamente di ridurre il ritardo dei giovani nell’entrata nel mondo del lavoro .Se il principio di non contraddizione conserva ancora una qualche validità, spieghi l’illustre professore ,come del resto tanti altri che acriticamente sostengono questa tesi,come il permanere in servizio dell’ultracinquantenne(ma, vista la soglia di età per accedere alla pensione di anzianità. Sarebbe più corretto parlare di quasi sessantenni)pincopallino accelera l’entrata nel mondo del lavoro,sul posto da lui occupato,di un giovane.
    Se l’esercizio dialettico non riesce propongo di tentare con un rito di moltiplicazione dei pani e dei pesci.Mi scuso per lo spunto ironico, ma chi scrive è un pensionato cinquantanovenne, sicuro di aver fatto bene a non permanere nel posto di lavoro,certamente ora occupato da qualche
    giovane collega,con modesto trattamento pensionistico e due figli a carico ,trentenni brillantemente laureati e pressochè disoccupati essenzialmente per mancanza di padrini politici e non,ma anche in parte per il prolungamento della vita lavorativa di anziani avidi (vedi incentivi),tanto “esperti” quanto ormai privi di energia e creatività.ma questa ,per quanto comune, sarebbe storia sociale vera che non interessa a nessuno. Cordiali saluti Nicola palazzo

    • La redazione

      Caro Nicola Palazzo, suggerisco di leggere piu’ attentamente il mio pezzo, scoprira’ che le nostre posizioni non sono poi cosi’ lontane.
      Tant’e’ che nel testo dell’articolo mi chiedo se rispetto al favorire la permanenza nel mercato del lavoro degli over 50 “non vada assegnato un grado minore di priorità
      rispetto a quello di rimuovere gli ostacoli che rallentano l’entrata stabile dei giovani italiani”. E piu’ avanti nel testo ribadisco che la cosa piu’ urgente e’ “la riduzione del ritardo nell’entrata (e più in generale migliori opportunità e
      condizioni lavorative all’inizio della carriera lavorativa)”.
      Riguardo poi alla denuncia della difficile condizione dei giovani le suggerisco di leggere il mio precedente articolo per Lavoce: “Com’e’ difficile essere giovani in Italia”.
      Cordiali saluti,
      AR

  9. Alberto

    1) Sarebbe onesto considerare che occupazioni diverse portano a situazioni fisiche, intorno ai 60 anni, molto diverse;non è paragonabile il lavoro di un operaio impiegato nel settore manifatturiero per molti anni con quello degli impiegati, siano essi del settore industriale, men che meno, se essi operano nella pubblica amministrazione.
    L’automazione ha aiutato a migliorare solo in parte il carico di lavoro fisico a cui sono sottoposti tali lavoratori. Non mi pare che la individuazione dei lavori usuranti abbia superato questa reale situazione. A mio modesto avviso non sarebbe affatto scandaloso che i requisiti per la maturazione della pensione di anzianità per gli operai fosse diversa e più favorevole rispetto a quella per gli impiegati, dirigenti etc,etc.
    2) Ritengo di non sbagliare a ritenere che la riforma Dini, con l’introduzione del calcolo della pensione con il sistema contributivo per tutti i lavoratori con contributi versati inferiori ai 18 anni alla data del 1995, porterà, fra circa 10 anni, il lavoratore a permanere volontariamente al lavoro, più che potrà e fin quando gli verrà concesso, sia per l’eseguità della persione maturata , sia per la mancanza dei requisiti, anche se questi fossero di soli 35 anni, dovuti ai vuoti di continuità contributiva legate all’impiego con contratti atipici di lavoro, o per una miscellanea di contributi versati in parte come lavoro dipendente, in parte come lavoro atipico. Relativamente a tale aspetto, credo che, pur esistendo differenze sulle percentuali di contributi versati, una qualche forma di ricongiungimento dovrebbe essere pensata per evitare inspiegabili discriminazioni.

    Ringraziando per l’attenzione,

    Alberto

  10. Franco ELIA

    Da tempo mi sto domandando perchè non riesco a trovare una, dico una, voce critica sullo sbandierato allungamento della vita in Italia e questo quando immancabilmente tale allungamento viene posto in relazione al problema delle pensioni. Mi chiedo, da ignorante della materia universitaria di statistica e demografia, ma da conoscitore, obbligato, della materia assicurativa e bancaria, perchè non si parla mai delle fonti cui attingono quei rilievi statistici? Non dovrebbero essere sicuramente fonti semplicemente anagrafiche perchè un minimo di buon senso porta a capire la differenza di vita tra contadino autocnono e minatore, benestante di rendita e proletario metalmeccanico, armatore e mozzo di coperta, e così avanti e così indietro. Nelle stanze segrete di assicurazioni e banche si elaborano statistiche mirate per professioni, attitudini di vita, occupazioni e mestieri e su queste si calibrano i c.d. coefficienti di capitalizzazione anticipata per i risarcimenti e gli indennizzi (assicurazioni) e per la concessione di mutui e altre sofisticherie (banche). Volete finalmente renderc/vi conto della illiceità delle basi statistiche acriticamente assunte? Attendo.

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