Tutta colpa della pay-tv se il calcio italiano si trova in un circolo vizioso in cui i divari sportivi ed economici si alimentano a vicenda. Più le grandi squadre si rafforzano, più aumenta lo squilibrio, peggiore risulta l’equilibrio competitivo. A migliorare la situazione, poi, non ha certo contribuito la “sospensione” delle leggi ordinarie, come è accaduto al codice civile con il decreto salvacalcio. Intanto, lo Stato aspetta dalle società 650 milioni di imposte arretrate. Soluzioni? La supelega europea, terne arbitrali scelte a livello europeo, il salary cap per i calciatori. O l’applicazione di un sistema fortemente progressivo alle quote d’iscrizione a Lega e campionato, per rispttare le regole antitrust.

Nostalgia e moralismo non servono, di Guido Ascari (18-05-2006)

Nei commenti sul terremoto che sta scuotendo il mondo del calcio si leggono molte posizioni fra il nostalgico e il moralistico che auspicano un ritorno al passato, al calcio povero del pallone con le stringhe, dominato dalla passione e non rovinato dai soldi.

A nostro avviso, questa interpretazione dei fatti tende a fare confusione fra diversi punti, che invece cercheremo di distinguere per chiarezza di ragionamento.

Cosa è successo

Si ha nostalgia per un campionato più equilibrato, in cui la distanza fra grandi e piccole squadre non sia così elevata. Che l’equilibrio competitivo dei campionati europei in generale, e del nostro in particolare, sia diminuito è un fatto acquisito, qualunque indicatore si usi . Il motivo è palese: l’avvento di un cambiamento tecnologico nelle tecniche di produzione, ossia la pay-tv. Una tecnologia che permette il consumo contemporaneo e non-rivale del prodotto ha immensamente allargato il mercato di riferimento soprattutto delle grandi squadre, generando le condizioni per la nascita dell’economia delle superstar . Questo è il punto di partenza del ragionamento: è un punto di rottura forte col passato, e a nostro avviso, di non ritorno. È inutile pensare che le piccole possano competere con le superstar.
Federer-Volandri può essere vista da alcuni appassionati italiani, Federer-Nadal è invece trasmessa in tutti i continenti; così Milan-Ascoli interessa soprattutto i tifosi dell’Ascoli, ma Milan-Barcellona incuriosisce i cinque continenti. I quali adesso possono godersela pagando i diritti tv alle singole squadre. È inutile cercare di opporsi a questo cambiamento con logiche di ritorno al passato: i cambiamenti di paradigma tecnologico vanno assimilati, compresi e governati.

Cosa è successo

Il secondo fatto è che la fortissima asimmetria che si è venuta a determinare ha rotto gli equilibri passati fra grandi e piccole squadre, spezzando l’unità d’intesa all’interno della Lega. Gli accordi vanno in frantumi proprio quando i partecipanti diventano molto diversi fra loro: è normale che allora cambino gli incentivi di taluni a rimanere legati all’intesa.
Ciò ha determinato, di fatto, una posizione dominante da parte delle grandi squadre (sette in partenza, poi cinque, poi tre). Sottolineiamo che la posizione dominante di per sé è perfettamente lecita: se basata su competition on the merits, la normativa antitrust non la sanziona. Si sanzionano invece eventuali comportamenti anticompetitivi che posizioni dominanti tendono naturalmente a generare nelle imprese: la collusione (art. 81 Trattato sull’Unione Europea, già Trattato di Roma) e l’abuso di posizione dominante (art. 82). In un mercato non soggetto a questa normativa o non soggetto a controllo, è più che naturale aspettarsi che le imprese attuino tali comportamenti. In questo senso, si possono forse interpretare gli sviluppi del sistema calcio negli ultimi anni. Per esempio, in passato, molti commentatori hanno espressamente parlato di patti di non belligeranza fra grandi squadre per le aste su alcuni giocatori. In termini economici, si potrebbe interpretarlo come comportamento collusivo sul mercato dei calciatori a danno del venditore, che tra l’altro, il più delle volte, era un loro competitor. Nelle trattative sui diritti tv è chiara la posizione dominante delle grandi squadre. Ancora su molti giornali era apparsa la notizia che la Juventus avesse apposto una clausola nel contratto con Sky, secondo la quale nessun’altra squadra poteva essere pagata di più. Al di là della veridicità o meno di questa notizia, la riportiamo qui solo come esempio di un caso classico d’abuso di posizione dominante.
Si comprende così la presenza di un conflitto d’interessi, che, seppur diffuso nel nostro paese, ha assunto negli anni recenti dimensioni addirittura mostruose nel calcio italiano. Dalla posizione di Franco Carraro, a quella di Adriano Galliani, alla Gea: la collusione apparentemente catturava il regolamentatore (la Figc), la Lega e il mercato dei giocatori e anche i diritti tv, garantendo una protezione alle pratiche collusive e non invece agli anelli deboli del sistema (piccole squadre, arbitri, eccetera). Tutte cose più volte scritte da molti giornali.
Quello che è successo si può quindi forse sintetizzare così: il vecchio modello organizzativo del sistema calcio italiano non è più adatto al recente cambiamento radicale di questo mercato, dovuto a sviluppi tecnologici irreversibili. Il problema è di governance: servono nuove istituzioni e nuove regole.
Se e in che modo l’interpretazione proposta sopra dei fatti sia corretta e applicabile al calcio è materia da giuristi. In questo senso, non ci poteva essere miglior scelta come commissario Figc di Guido Rossi: insigne giurista, padre della legge antitrust italiana del 1990 che porta il suo nome, scrittore di libri che da anni denunciano i conflitti d’interessi del capitalismo italiano.
Il terzo fatto è invece l’illecito sportivo che i giudici perseguono come ipotesi di reato da parte di alcuni dirigenti, arbitri. Qui l’analisi economica ha poco da dire, e forse la posizione moralista potrebbe avere le sue ragioni: è più facile che si verifichino comportamenti illeciti quando i vantaggi economici sono più importanti. Ergo i soldi hanno inquinato il pallone e si esorta quindi a un ritorno ai valori fondanti dello sport, con la bizzarra implicazione di policy che si dovrebbe depauperizzare il sistema (pensate ad allargare questa logica a tutti i settori in cui si verificano illeciti). Ovviamente, basterebbe osservare che il mondo è pieno di bellissimi e appassionanti sport in cui circolano un mucchio di soldi senza che per questo si verifichino illeciti a livello di sistema: basket Usa, automobilismo, tennis, e così via…

Cosa succederà

Il problema non è l’etica, che non nasce spontanea, ma disegnare una nuova governance e incentivare comportamenti consoni con regole e controlli.
Inoltre, si dovrebbe pensare un nuovo ambiente adatto alla nuova situazione produttiva dello spettacolo sportivo calcio.
Non ha senso riportare a livello Milan e Ascoli. La conseguenza sarebbe che l’Italia perderebbe l’attenzione dei cinque continenti. Bisogna d’altro canto far sì che si giochi fra pari, altrimenti lo spettacolo sportivo ne soffre: non è divertente vedere partite giocate a una sola porta.
Il cambiamento tecnologico ci porta a una sola possibile risposta: la superlega europea, ossia una serie A europea, possibilmente aperta, alla quale si accede tramite promozione attraverso playoff fra i primi posti dei campionati (a quel punto di serie A2) nazionali e le ultime della superlega.
Il sistema europeo diventerebbe quindi un sistema chiuso nel suo complesso in cui allora sarebbe sì possibile implementare tutte le varie possibili norme per garantire un equilibrio competitivo, come salary cap, mutualità, rookie draft, eccetera.
Spiace per i nostalgici, ma ci arriveremo.

Ieri, Moggi e domani, di Fabrizio Montanari e Giacomo Silvestri (18-05-2006)

Il sistema calcio italiano pare essere entrato in una bufera di cui è difficile immaginare non solo la fine, ma anche forza ed estensione. Come in ogni caso di rottura dello status quo che si rispetti, si rincorrono voci, supposizioni, timori, annunci, insinuazioni, prese di posizione e semplici pettegolezzi di quartiere. Tutti pronti a gridare allo scandalo, indignati e colpiti al cuore: giornalisti, politici, calciatori o semplici appassionati domenicali. Ma, subito dopo, altrettanto pronti alle rassegnate litanie di rito del “io lo dicevo…” e “io lo sapevo…”.
Fuori dall’atteso e normale teatro della pubblica e privata sorpresa, rimane lo spazio del pensiero, e della ricerca delle soluzioni a quella che certo si caratterizza come una crisi di vaste proporzioni. E il calcio, ci piaccia o no, rappresenta una rilevante fetta del nostro colorato sistema paese.
Con 5 miliardi di euro di giro d’affari annuo, è una delle principali attività economiche del paese; i 40 milioni di cittadini interessati e appassionati ne fanno il fenomeno sociale di massa di maggior rilievo; da un punto di vista mediatico, infine, è tra i maggiori catalizzatori di audience (le trasmissioni televisive più viste sono spesso le partite di calcio), e dunque di consumi.

Dopo la rivoluzione

Ogni rivoluzione, indipendentemente dalle sue cause scatenanti, è spesso seguita da un periodo di evoluzione. Questo pare essere almeno il sentimento di Guido Rossi, commissario straordinario incaricato di sbrogliare la matassa, che sostiene che “le grandi riforme dell’economia sono arrivate sempre nei momenti di grande crisi e che la crisi induce a creare regole diverse”. Ma ai nuovi codici occorre accostare etica ed equità. Intervento normativo e moralizzazione sono dunque i due lati della stessa medaglia, per rilanciare il sistema calcistico.
Quanto la mancanza di regole da un lato, e il malaffare, la corruzione, il complesso sistema di influenze e favori dall’altro, hanno influenzato gli ultimi campionati, viziandone irrimediabilmente gli equilibri agonistici e sportivi? Quanto, in altri termini, ha influito il cosiddetto “sistema Moggi”? Poco o nulla, come sostiene chi dice che “la palla è tonda” e che vizi e vizietti dello sport fanno parte del gioco (sic!) e poco influenzano i risultati finali? (1) Oppure l’influenza dei poteri occulti del calcio ha rovinato spettacolo sportivo e falsato rilevanti dinamiche finanziarie come i più invece temono?
Il campionato di calcio del nostro paese è certamente viziato (almeno in termini comparativi) da un deficit competitivo che determina dinamiche di classifica “uniche” se paragonate a quanto avviene negli altri maggiori campionati europei. Presentiamo qui i risultati che sostengono l’ipotesi del deficit competitivo e suggeriamo alcune proposte normative per portare nuovo equilibrio in campo (e spettacolo per gli spettatori).

Analisi della competitività

Per prima cosa, si è comparato il campionato di calcio italiano con quelli tedesco, spagnolo e inglese per verificare se il divario fra grandi e piccoli club (e quindi la scarsa competizione) fosse da noi più marcato. Le stagioni prese in considerazione sono le ultime sei (dal 2000-2001 al 2005-2006).
A un primo superficiale livello di studio, se si considera unicamente il numero di squadre che hanno vinto il campionato, non emergono differenze significative tra i diversi tornei: tutti e quattro i campionati hanno visto alternarsi tre squadre al vertice nelle ultime sei stagioni (tavola 1)

Tavola 1. Squadre al vertice dei campionati

Spagna

Italia

Inghilterra

Germania

2005-2006

Barcellona

Juventus

Chealsea

Bayer Monaco

2004-2005

Barcellona

Juventus

Chealsea

Bayer Monaco

2003-2004

Valencia

Milan

Arsenal

Werder Brema

2002-2003

Real Madrid

Juventus

Manchester Utd

Bayer Monaco

2001-2002

Valencia

Juventus

Arsenal

Borussia Dortmund

2000-2001

Real Madrid

Roma

Manchester Utd

Bayer Monaco

Anche se consideriamo la differenza punti tra la prima e l’ultima squadra classificata, non emerge con chiarezza un deficit competitivo italiano: il nostro campionato presenta valori mediamente più elevati rispetto a quelli di Spagna e Germania, ma inferiori all’Inghilterra (tavola 2).

Tavola 2. Differenze tra squadre prime e ultime classificate nei diversi campionati

Spagna

Italia

Inghilterra

Germania

2005-2006

58

70

76

48

2004-2005

56

51

63

59

2003-2004

51

69

57

42

2002-2003

46

51

64

45

2001-2002

38

53

59

48

2000-2001

41

55

54

36

MEDIA

46,4

55,8

59,4

46

Per avere un’idea più corretta e completa del livello di competizione interna del campionato, abbiamo utilizzato l’indice di Gini per analizzare la distribuzione dei punti tra le squadre. Osservando i dati (tavola 3), è possibile notare come l’Italia abbia un valore medio superiore a quello degli altri paesi e come, quindi, i punti siano distribuiti in modo molto più concentrato. In altri termini, il dato evidenzia che poche squadre fanno molti punti e, dunque, sottolinea che esiste un divario difficile da colmare tra i pochi team forti e i molti deboli.

Tavola 3. Comparazione dell’indice di Gini per i campionati dal 2000-2001 al 2005-2006

Spagna

Italia

Inghilterra

Germania

2005-2006

0,15

0,20

0,18

0,16

2004-2005

0,14

0,13

0,17

0,15

2003-2004

0,13

0,20

0,15

0,16

2002-2003

0,14

0,17

0,15

0,11

2001-2002

0,11

0,16

0,17

0,17

2000-2001

0,12

0,16

0,14

0,12

MEDIA

0,130

0,171

0,159

0,148

L’indice di Gini, inoltre, presenta una crescita costante. La sola eccezione è il campionato 2004-2005 che però ha alcune peculiarità: è stato il primo a venti squadre e il livellamento c’è stato, ma verso il basso. Molti si ricorderanno che alla penultima giornata c’erano ben otto squadre in lotta per non retrocedere e la retrocessione fu alla fine decisa in base alla classifica avulsa e allo spareggio.
I dati confermano l’ipotesi dell’esistenza e della continua crescita del divario fra grandi e piccoli club del nostro campionato. (2) E la disuguaglianza è ulteriormente accentuata dal diverso trattamento nella cessione dei diritti televisivi. Il sistema si risolve in un circolo vizioso in cui i divari sportivi ed economici si alimentano a vicenda. In altre parole, più le grandi squadre si rafforzano, più aumenta lo squilibrio, peggiore risulta l’equilibrio competitivo. Questo può causare una perdita di interesse da parte degli spettatori e una riduzione del volume di risorse che affluiscono nell’industria calcio.

Cosa fare

Guido Rossi promette interventi efficaci e subitanei, tali da garantire non solo un clima più disteso per l’avvio del campionato del mondo, ma anche i nomi delle squadre che parteciperanno alle coppe e il corretto avvio del prossimo campionato di serie A.
Ai tanti consigli che riceverà nei prossimi giorni, vogliamo aggiungere una nostra riflessione sull’introduzione di regole, già più volte discusse nelle pagine di questa testata, volte a favorire un maggiore equilibrio tra le squadre. Le possibili soluzioni riguardano ancora una volta l’introduzione, sul modello degli sport professionistici americani, di un salary cap che uniformi in qualche modo le spese delle società negli stipendi dei calciatori.
La recente innovazione introdotta dalla serie B rappresenta un importante passo in questa direzione, anche se non sufficiente. Per due ragioni. Innanzitutto è stato fissato un limite di spesa in salari (pari al 70 per cento dei ricavi complessivi) che non è uguale per tutte le squadre. Dunque, anche in questo caso, come faceva notare la Gazzetta dello Sport, il Torino e l’AlbinoLeffe avrebbero due budget a disposizione ben diversi. In secondo luogo, un intervento di questo genere non può essere fatto solo a livello italiano, ma richiede omogeneità a livello europeo. Se venisse, infatti, introdotta solo in Italia una ferrea salary cap sul modello dell’Nba del basket americano, i club italiani potrebbero perdere competitività nei confronti delle altre squadre europee. In ogni caso, la coerenza a livello di sistema sopranazionale non deve rappresentare un alibi al cambiamento. Nel caso non venisse approntata alcuna modifica sostanziale, alcuni già immaginano una situazione nazionale di collasso del sistema, con il possibile esito di una rottura della Lega attuale e la formazione di leghe alternative: un super-campionato a livello europeo sul modello della Champions League e vari campionati nazionali privi delle squadre più forti.

(1) Si veda in proposito l’editoriale “La palla è tonda. Punto” apparso su Il Foglio di martedì 16 maggio 2006.
(2) Idea supportata con altre analisi anche nell’articolo di Boeri e Severgnini.

Quando l’Europa può darci un fischietto*, di Tito Boeri e Battista Severgnini (18-05-2006)

Gli illeciti sportivi attribuiti in questi giorni alla ex-dirigenza della Juventus hanno davvero alterato l’esito di molte gare, determinato una diversa assegnazione dei titoli e la retrocessione di squadre che altrimenti sarebbero rimaste in serie A? Perchè si è cercato di condizionare proprio l’esito di alcune partite? E perché la dirigenza di un club che sulla carta aveva molte probabilità di vincere comunque un campionato sente il bisogno di intraprendere la strada dell’illecito sportivo con tutti i rischi (e i costi) che questa comporta? È davvero solo per via del clima di impunità prevalso sin qui o anche perché negli attuali assetti del campionato italiano basta alterare alcuni risultati chiave per avere il primato in tutto, compresi diritti televisivi? Sono quesiti frequenti in questi giorni. Con i dati disponibili si può tentare qualche prima risposta.

L’esito probabile delle 7 partite incriminate

Nella tabella qui sotto abbiamo provato a stimare quale potrebbe essere stato l’esito delle partite della Juventus, oggi al centro delle indagini della magistratura. Per compiere questa valutazione, abbiamo dovuto simulare cosa sarebbe potuto avvenire senza condizionamenti arbitrali. Questo scenario alternativo (o counterfactual) può essere stimato considerando i risultati degli incontri fra ogni coppia di squadre nei due campionati precedenti e una misura dello stato di forma delle due contendenti espressa in termini di win ratio, ossia il rapporto tra punti conquistati e il numero di partite giocate. È un modello previsivo abbastanza semplice, ma che ci permette di spiegare fino a quasi il 70 per cento dei risultati effettivi degli incontri del nostro campionato. (1)
Soffermiamoci su alcuni degli incontri incriminati e vediamo come leggere la tabella 1. A fianco del risultato finale, abbiamo incluso la nostra stima di probabilità di vittoria, pareggio e sconfitta della squadra bianconera e il commento delle partite tratto dal Corriere della Sera. (2) Alcune probabilità sono addirittura del 100 per cento: questo non significa che siamo sicuri a priori dell’esito del match, ma solo che il nostro modello riesce a prevedere (in media) molto bene l’esito di quel tipo di incontro in quelle circostanze.
La tabella mostra che le partite in cui, secondo la ricostruzione dei magistrati e il commento del Corriere, l’arbitraggio sarebbe stato maggiormente distorto a favore della squadra bianconera, sono soprattutto quelle in cui, secondo il nostro semplice modello di simulazione, la Juventus era condannata a non vincere. In altre parole, se condizionamenti dell’operato arbitrale vi sono stati, le partite su cui concentrare le attenzioni sono state scelte con cura per evitare una probabile sconfitta (o un pareggio) della Juventus. I casi più eclatanti sono le partite in cui le avversarie erano la Lazio e l’Udinese, dove la previsione del modello è di una sconfitta della squadra torinese rispettivamente del 70 e del 100 per cento. Quindi, si direbbe che, sì, i condizionamenti arbitrali possano davvero avere inciso sull’esito del torneo in modo determinante.

Condizionamenti mirati perché i divari sono aumentati

Passiamo al secondo quesito. Un club può affrontare costi e rischi elevati nel condizionare gli arbitraggi se è in grado di modificare l’esito di un campionato concentrando le proprie “attenzioni” su di un numero relativamente limitato di partite. Cio’ significa che molte partite devono avere un esito relativamente scontato, anche senza favori arbitrali. Il crescente divario fra club maggiori e squadre più piccole è evidente nel nostro campionato. Per avere un’idea quantitativa di questo fenomeno, abbiamo stimato un indice di concentrazione che tiene conto dei punti in classifica ottenuti a fine campionato rispetto al totale dei punti ottenibili per le quattro squadre che hanno vinto il campionato negli ultimi dieci anni (Juventus, Milan, Lazio e Roma) con il dato del campionato 2004-2005 (tabella 2). Questo indice viene di solito utilizzato per valutare il divario fra club (più alto è il valore dell’indice, maggiore le differenze tra squadre). Come si può notare, specialmente la Juventus ha contribuito ad ampliare il divario fra grandi e piccoli club. Inoltre, come accennato in altri interventi su questo sito, la disuguaglianza del campionato è accentuata dal diverso trattamento nella cessione dei diritti televisivi. È in atto un circolo vizioso in cui i crescenti divari sportivi aumentano i divari economici e questi ultimi accentuano i divari sportivi. Il tutto riduce l’interesse in molte partite del campionato.

Ci salvi l’Europa!

Punizioni esemplari, come deterrente di illeciti futuri, professionismo degli arbitri con un organo di vigilanza super-partes, trasparenza nella gestione dei diritti televisivi sono alcune delle proposte ricorrenti in questi giorni per far ridare credibilità al calcio. Sono tutte misure largamente condivisibili, ma possono non bastare se non si riesce a bloccare questo circolo vizioso che facilita gli illeciti sportivi. Il crescente grado di concentrazione del potere sportivo, economico e televisivo nel nostro campionato crea infatti un terreno fertile per coloro che volessero nuovamente condizionare a proprio vantaggio l’esito di queste competizioni.
Come bloccare allora il circolo vizioso? Si puo’ provare a ridistribuire fra clubs gli introiti dei diritti televisivi per ridurre il divario economico fra grandi e piccoli club. Ma questo divario non sara’ mai colmato in un calcio che e’ sempre piu’ globalizzato. Meglio allora cercare di ridurre la concentrazione di potere sportivo, imponendo ai grandi clubs di competere con squadre altrettanto forti, ad esempio nell’ambito di una superlega europea, composta dalle squadre più forti dei vari campionati. La vittoria nei campionati nazionali, più equilibrati perché senza i club più forti, offrirebbe accesso ad un playoff in cui, assieme alle squadre nella superlega quell’anno, si decida la rappresentanza nazionale nella superlega. Un altro vantaggio della superlega e’ la selezione a livello europeo degli arbitri (a partire da un pool di arbitri professionisti di diverse nazionalità), come avviene nel caso della Champions League. Perdendo il controllo sulla designazione degli arbitri , si riduce anche il potere di condizionamento dei grandi club sugli arbitraggi. Il coordinamento a livello europeo è anche l’unico che può permettere di applicare tetti agli ingaggi dei giocatori. Non e’ realistico introdurre un salary cap solo in Italia. Il Barcellona, il Chelsea o altri grandi clubs ci porterebbe via tutti i nostri migliori giocatori.
Insomma anche in questo campo l’Europa potrebbe darci una mano, un piede o, meglio, un fischietto.

* A pochi giorni dalla stesura di quest’articolo, la Magistratura ha individuato altri casi di illecito sportivo per un totale di 72 partite. Siamo in attesa di conoscere maggiori dettagli riguardanti la natura degli illeciti e chi avrebbero favorito. Tra queste partite, comunque, solo 6 interesserebbero la Juventus e non dovrebbrero inficiare i risultati del nostro modello previsivo.

(1) Abbiamo stimato un modello ordered probit. Per una spiegazione tecnica abbastanza simile al nostro approccio si veda, ad esempio, lo studio del campionato dei Paesi Bassi, in Ruud H. Koning, Balance in competition in Dutch soccer, The Statistician, 49(3) pp. 419–431.

(2) Articolo di Fabio Monti, 13 maggio 2006

Tabella 1

Data

Partita

Risultato

Errori Arbitrali

Evento più probabile (probabilità in %)

Risultato alterato

Commento

06/11/2004

Reggina

Juventus

(2-1)

A sfavore della Juventus

Sconfitta (100%)

No

Prima sconfitta della Juve nel campionato 2004-2005. Moggi è furente perché Paparesta: 1. non concede un rigore solare per mani di Balestri (già ammonito, andava espulso); 2. annulla un gol a Ibrahimovic, che riesce a segnare fra due avversari che cercano di ostacolarlo; 3. annulla il gol del possibile 2-2 a Kapo per un fallo di mani che non c’è, mentre il giocatore è in fuorigioco.

14/11/2004

Lecce

Juventus

(0-1)

A favore della Juventus

Vittoria

(99%)

No

Si gioca in un pantano; Zeman, allenatore del Lecce, dice: «Non si doveva giocare e basta ». Il guardalinee Ceniccola commette due errori definiti «incredibili» da Casarin nella sua rubrica sul «Corriere »: lascia correre un fuorigioco di Ibrahimovic; ferma Bojinov per un fuorigioco che non c’è.

05/12/2004

Juventus

Lazio

(2-1)

A favore della Juventus

Sconfitta (70%)

La moviola indica l’esistenza di due rigori: uno per la Juve (Talamonti trattiene Ibrahimovic), uno per la Lazio, per l’uscita di Buffon su Inzaghi che ostacolato cade.

12/12/2004

Bologna

Juventus

(0-1)

A favore della Juventus

Pareggio (55%)

Sono assenti Petruzzi,Nastase e Gamberini. La Juve vince con una contestatissima punizione fischiata da Pieri e trasformata da Nedved (41’ s.t.); il Bologna si infuria anche per un rigore non dato a Cipriani sullo 0-0. Bergamo e Pairetto commettono l’errore di rimandare Pieri a Bologna attraverso sorteggio (sbagliata la griglia), dopo le proteste rossoblù per Bologna-Roma 3-1.

13/02/2005

Juventus

Udinese

(2-1)

A favore della Juventus

Sconfitta (100%)

Sul 2-0 per la Juve, viene annullato un gol a Fava dell’Udinese, per un inesistente fuorigioco, segnalato da Gemignani.

05/03/2005

Juventus

Roma

(2-1)

A favore della Juventus

Vittoria

(80%)

No

Sul primo gol Cannavaro è in fuorigioco; il rigore per la Juve (Dellas su Zalayeta) viene fischiato per un fallo fuori area e con Ibrahimovic in fuorigioco attivo. Due errori di Pisacreta. Cufré colpisce Del Piero con un pugno. Vengono ignorati due rigori (De Rossi su Cannavaro e Cufré su Ibrahimovic).

09/04/2005

Fiorentina

Juventus

(3-3)

A favore della Juventus

Sconfitta (81%)

Partita diretta bene,ma la Fiorentina non può schierare Viali e Obodo, in quanto squalificati per le precedenti ammonizioni.

Media 1995-2004

Campionato 2004-2005

Juventus

0,67

0,84

Milan

0,59

0,77

Lazio

0,60

0,43

Roma

0,58

0,44

Il fallimento del calcio senza regole*, di Salvatore Brigantini (18-05-2006)

Il fallimento del calcio senza regole

Questo non è lo scandalo del calcio, ma di un paese intero, che ha lasciato che tutto ciò accadesse: non in un anno, in decenni. Quanti conoscevano lo stato delle cose e non hanno fatto niente? Quanti se ne sono avvantaggiati, impetrando come Pisanu i favori del piccolo zar Luciano? Ora dedichiamo allo scandalo enorme rilievo, ma passata la piena penseremo ad altro, per non sfasciare il giocattolo. Sarebbe un errore, perchè l’inerzia distruggerebbe il giocattolo, ma soprattutto un’immagine nazionale già molto compromessa. Se il calcio grufolava tranquillo nel trogolo della Gea, c’è poco da lamentarsi del protagonismo della magistratura. Meno male che questa, dopo aver subito lunghi anni di assalti, è ancora in grado di fare il suo lavoro, intervenendo quando uno o più soggetti, anche colletti bianchi, commettono reati o danneggiano altri.

Se il calcio è business

Il calcio è soprattutto un business: guardiamo allora lo scandalo e le sue conseguenze in chiave di correttezza contabile e di effetti sui conti dello Stato. Il mondo della politica, lungi dal lavorare per risanare il calcio, gli ha lisciato il pelo, aggravando l’andazzo. All’ennesimo scandalo calcistico Berlusconi se ne uscì a dire: “moralizzazione è una parola grossa”. Il suo governo ha agito di conseguenza. Ha sospeso con norma speciale- il decreto “salvacalcio”- il Codice Civile per le società calcistiche: grazie al decreto, le perdite sul parco-giocatori, magari a fine carriera, sono spalmate su 10 anni. Ciò esenta gli azionisti di controllo delle squadre dal tirar fuori soldi per sanare i conti. Una norma eccezionale, di pura cosmesi, valida solo per le società calcisitche, varata senza considerare che tre di queste erano quotate. Commentava profetico all’epoca Franco Carraro: “E’ un importante tassello nell’indispensabile risanamento del calcio professionistico”!
Dopo questo favore- reso alle tasche di una ventina di persone con nome e cognome, non alle società- il governo ha definito la composizione dei campionati 2003-’04, con l’occhio all’audience e ignorando i risultati sportivi. Ha permesso alla Lazio di pagare in 23 comode rate annuali i debiti col fisco per somme trattenute ai giocatori e non versate, sostenendo che almeno così incassava qualcosa, mentre se la società fosse fallita non avrebbe preso nulla. È falso, in luogo della società dovevano pagare i giocatori, percettori del reddito e responsabili in solido; essi potevano insinuarsi al passivo fallimentare e trasformare in azioni il loro credito. Almeno avremmo visto questi strapagati signori rischiare qualcosa sul loro lavoro, e non in scommesse vietate dalla legge e dal buon senso. Soprattutto, se la Lazio fallisse, gli altri pagherebbero di corsa per evitare quella fine, dato che invece paga in un quarto di secolo, la imitano. Così l’ammontare delle imposte arretrate (per Iva e ritenute) dovute dalle squadre ha superato i 650 milioni di euro.
Il calcio è “legibus solutus“, i protagonisti dello scandalo (i sommersi e i salvati) lo sanno e ne approfittano: come scrivono Marco Liguori e Salvatore Napolitano (“Il pallone nel burrone”- Editori Riuniti – 2004), le società non pagano Irap sulle plusvalenze da vendita giocatori, contrariamente a quanto stabilito dall’Agenzia delle Entrate, in base ad un semplice parere della Lega. Fra Stato e corporazione, prevale la seconda, siamo il paese della libertà, quella di non pagare: ci si guadagna sempre.
Poi c’è il tema grosso della quotazione dei club. Dopo lunghe riflessioni la Consob, di cui chi scrive faceva parte come commissario, concesse (aprile ’98) il nulla osta alla pubblicazione del prospetto della Lazio, che Borsa Italiana aveva ammesso alla quotazione. Le pur forti “avvertenze” che la Consob impose allora non si sono dimostrate sufficienti. Si potrebbe arguire che i dirigenti di una società possono sempre commettere illeciti, ma non si deve per questo vietare la quotazione di qualsiasi società. Il punto è che il mondo del calcio ha mostrato una tendenza a comportamenti illeciti che non può più essere ignorata. Ne discende che per il futuro va ripensata, forse vietata, la quotazione in borsa. Nulla vale come l’esperienza pratica, e questa ha dimostrato che la quotazione di società di questo tipo non funziona. Interessante invece la proposta di Angelo Rovati (“Corriere” 16 maggio): le squadre cedano marchio e titolo sportivo ai comuni, in cambio dello stadio. La squadra paga royalties al comune, in cambio dell’uso di tali cespiti. Se la squadra fallisce va male solo per gli azionisti, e il titolo sportivo rimane, col marchio, al comune, che individuerà i nuovi proprietari della squadra. Rovati propone anche, come diversi interventi su La voce.info., una superlega europea per i big e campionati nazionali per le squadre “normali”. Certamente si deve diminuire la distanza siderale fra le risorse economiche che affluiscono ai club partecipanti al medesimo campionato, come ricordato sempre su La voce.info..
Il calcio ha punito gli onesti e premiato i furbetti. Bisogna fare il contrario, come dice Guido Rossi, ottimo commissario straordinario della Figc; le sue competenze in tema di antitrust verranno utili per pervenire ad un assetto dello sport che sia più competitivo e meno pervaso dai conflitti d’interesse. Ricordiamo che non ci sono solo le violazioni di norme, ma anche i comportamenti osceni. Non è tempo di prudenza, ma di fermezza. Se le vecchie leggi non sono state osservate, nuove norme da sole non risolvono il problema. Non tanto nuove leggi servono, allora, quanto il ripristino di quelle esistenti, troppo a lungo sospese. Lo stato, tanto per cominciare, si faccia pagare 650 milioni di imposte arretrate, lasciando che fallisca chi deve fallire. Entrerà aria nuova, e lo scandalo sarà servito a qualcosa.

*Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul Corriere della Sera.

La partita della disuguaglianza, di Ludovico Poggi e Battista Severgnini (04-02-2006)

La compravendita dei diritti televisivi per la trasmissione delle partite di calcio della serie A si dimostra sempre più sbilanciata a favore delle grandi squadre di calcio, penalizzando così la posizione finanziaria delle società medio-piccole. Il fenomeno sembra accentuarsi quando la contrattazione dei diritti può essere effettuata dalla singola squadra. Una distribuzione fortemente diseguale tra società sportive, oltre a creare fratture “istituzionali”, contribuisce a diminuire il livello della qualità di gioco e spettacolo delle partite.
Applicando semplici tecniche, utilizzate soprattutto in economia dello sviluppo per lo studio della distribuzione del reddito, è possibile quantificare il livello di disuguaglianza e verificare come, nel caso italiano, la disparità di trattamento sia molto elevata.
Il 18 gennaio il ministro delle Comunicazioni Mario Landolfi, in un comunicato congiunto con il sottosegretario ai Beni culturali e il presidente della Figc, ha espresso un invito per “[…] soluzioni che, anche attraverso nuovi criteri di mutualità, garantiscano il regolare svolgimento dei campionati, per rispondere positivamente alle aspettative degli appassionati e per consentire agli operatori dei media, che hanno acquistato i diritti, di poter rispettare la programmazione”. Tuttavia, la teoria economica applicata a dati del calcio italiano, mostra che tecniche di mutualità non garantiscono una compensazione delle disuguaglianze.

I diritti televisivi

La cessione della totalità dei diritti di trasmissione televisiva per le stagioni 2007-2008 e 2008-2009, attraverso qualsiasi piattaforma distributiva da parte della Juventus a Mediaset, ha innescato un vivace dibattito anche a livello politico. Da una parte si è sottolineata l’importanza del valore dell’affare per la squadra torinese, dall’altra le società di serie A più piccole temono di venire penalizzate dalle trattative individuali, perdendo sempre più potere contrattuale e vedendo, anno dopo anno, ridursi gli introiti da investire negli ingaggi.
Come ha osservato Marco Gambaro i diritti televisivi rappresentano la principale fonte di entrata per le squadre di serie A e sono stati oggetto di sopravvalutazione sia da parte degli operatori televisivi, sia dalle stesse società di calcio, che hanno trasferito le rendite agli stipendi dei propri giocatori. Una distribuzione ineguale delle entrate, derivante dai diritti televisivi, comporterebbe problemi rilevanti alla qualità del gioco. Le squadre più ricche attingerebbero a risorse sempre più elevate; il tutto con notevoli conseguenze a discapito delle società più piccole: se le “grandi” diventano sempre più forti il livello competitivo del campionato potrebbe risentirne, con risultati vieppiù scontati e privi di interesse.

Una questione di uguaglianza

Utilizzando i dati riguardanti l’ammontare lordo delle entrate televisive criptate, che rappresentano più del 90 per cento delle entrate totali dei diritti Tv della serie A, è possibile costruire un indice di disuguaglianza. (1)
L’indice (detto di Gini) consente di misurare il livello di disuguaglianza per cinque sessioni di campionato, tenendo in considerazione anche la mutualità, vale a dire una forma di contributo teso a bilanciare le diversità di trattamento.

Campionato

Indice di Gini (senza mutualità)

Indice di Gini (con mutualità)

2000-2001

0.39

Nd

2001-2002

0.42

0.34

2002-2003

0.46

0.44

2003-2004

0.38

Nd

2005-2006

0.52

0.42

L’indice di Gini, che varia da 0 a 1, aumenta con il progredire di concentrazione della ricchezza.
Come si può osservare dalla tabella, già nel campionato 2005-2006, c’è stato un intervento del saldo di mutualità, che però ha permesso solo una lieve diminuzione di disparità tra le squadre.
Pertanto, il suggerimento del ministro sembra poco appropriato per trovare una soluzione a questo problema.
È inoltre interessante notare la distribuzione totale della ricchezza delle società. Purtroppo, i dati di bilancio delle società di calcio sono difficilmente accessibili, e il livello di disuguaglianza nella ricchezza delle società si può osservare solo utilizzando come variabile di misurazione il valore di cartellino dei giocatori in due campionati, il 2002-2003 ed il 2003-2004.

Campionato

Indice di Gini (cartellino)

2002-2003

0.40

2003-2004

0.49

Anche in questo caso, il livello di disuguaglianza è elevato. Per dare un’idea, un paese con un indice di Gini superiore allo 0.4 è considerato fortemente diseguale (uno di questi, il Brasile, ha valori che, da fonti diverse, variano da 0.4 a 0.8).

La superlega europea

I numeri indicano una forte disparità di trattamento economico tra squadre, confermando le preoccupazioni dei presidenti di quelle più piccole.
Nella Nba, la lega che riunisce le squadre di basket americane, sono stati introdotti alcuni accorgimenti come il salary cap , che limita le spese in stipendi dei giocatori oltre a una determinata soglia, oppure il rookie draft, che permette alle squadre meno forti di avere la precedenza nella selezione dei giocatori che entrano nella lega (dall’università e dal resto del mondo). Tuttavia, come ha già osservato Garibaldi , queste strategie potrebbero funzionare solo con l’introduzione di una “Maastricht del pallone”, ossia con una regolamentazione a livello europeo. Sempre l’Nba ha adottato poi una soluzione tale da evitare ripercussioni sulla qualità del campionato: nel basket americano è stata introdotta una luxury tax per le squadre con stipendi dei giocatori sopra una certa soglia. Questa soluzione, però, darebbe notevoli problemi alle squadre italiane che competono a livello di Champions League, poiché stipendi inferiori spingerebbero i giocatori più bravi a spostarsi in altre nazioni dove non esistono né salary cap né rookie draft.
La teoria economica
spiega che solo il salary cap è una misura efficiente per riequilibrare le disuguaglianze tra squadre, mentre una maggiore mutualità per i diritti televisivi sarebbe inutile. (2) Le squadre più forti hanno molto spesso sede nelle città più popolate, dove i bacini di utenza (e quindi anche i possibili tifosi) sono più numerosi. Pertanto, anche se i diritti televisivi del campionato dovessero essere “spalmati” in modo completamente identico tra tutti, le distorsioni sarebbero ancora notevoli poiché le squadre che competono nella Champions League avrebbero sempre maggiori introiti (da maggiore pubblicità e da incassi degli stadi).
Una soluzione sarebbe quella di creare a livello europeo una lega di tipo americano, sul modello Nba, a cui solo le squadre più forti (e più sane dal punto di vista finanziario) possano partecipare. Le altre, le più piccole, sarebbero relegate in campionati a livello nazionale.
Solo in questo modo sarebbe possibile attuare il salary cap (evitando la concorrenza degli altri team europei) e si potrebbero far rispettare i vincoli di bilancio di molte società, che oggi si trovano in difficoltà a competere con squadre del calibro del Milan, della Juventus o del Real Madrid. Non è una soluzione di facile applicazione: l’esclusione di club più piccoli dalla Superlega probabilmente non sarebbe ben accolta dai tifosi. Tuttavia, a livello meramente economico, sarebbe l’unica via da seguire per evitare la bancarotta di molte società e ristabilire principi di mercato nel calcio.

(1) I dati utilizzati per le analisi provengono da varie edizioni de il Sole 24 Ore, la Repubblica e della Gazzetta dello Sport
(2) Fort, Rodney, e James Quirk, Cross-subsidization

La deriva americana del calcio italiano, di Mauro Marè (02-02-2006)

Il calcio italiano si sta americanizzando. Una tale evoluzione può essere desunta osservando il grado di competitive balance del campionato italiano e non sorprende chi conosce le vicende degli sport professionistici americani – baseball, football, basket. A differenza di altri paesi europei, nel campionato italiano esiste un equilibrio competitivo alquanto modesto. Da noi, e in Spagna, vincono sempre le stesse due, tre squadre, mentre nel Regno Unito, in Germania e in Francia la situazione è più equilibrata.

Equilibrio in campo

Questo equilibrio si può misurare in diversi modi, ma i vari test indicano un risultato alquanto sicuro: il grado di monopolio è elevato, comunque più alto che altrove e in crescita negli ultimi venti anni.
Il vantaggio del monopolio, comprensibile in qualsiasi mercato e industria, non si applica al calcio. È comprensibile che un’impresa cerchi di acquisire potere di mercato e di dominare, a scapito dei concorrenti, per sfruttare gli ovvii vantaggi. Nel calcio invece il monopolio non paga, tende ad aver effetti sistemici destabilizzanti; più precisamente, oltre un certo limite crea seri problemi.
La specificità del calcio è l’interdipendenza tra le diverse squadre, per cui le più forti hanno interesse che il gap con quelle deboli sia contenuto. Il “prodotto calcio” non è la singola partita, ma il campionato nel suo insieme, per cui se il grado di monopolio è troppo elevato – è sicuro che vinca sempre la stessa squadra – si riduce l’interesse per l’evento complessivo (il campionato), per quelli singoli (le partite); e quindi anche la domanda di eventi televisivi, da stadio, la pubblicità, le sponsorizzazioni, e così via. È esattamente ciò che sta avvenendo in Italia. Sì, è vero, le ragioni della contrazione della domanda sono molteplici: violenza, stadi scomodi, prezzi elevati degli eventi. Ma se il Chievo e il Treviso sanno già in partenza che non potranno mai vincere niente, qual è l’interesse per la partita o i benefici dell’incertezza del risultato?

Il confronto con gli Usa

Più le grandi squadre si rafforzano, più aumenta lo squilibrio; maggiore il grado di concentrazione delle risorse a favore delle squadre dominanti, peggiore risulta l’equilibrio competitivo. L’aumento del grado di monopolio, con l’interesse degli spettatori, tende a ridurre anche il volume di risorse che possono affluire al calcio. Esiste un limite fisiologico, oltre il quale si uccide il calcio. È facile prevedere che la situazione italiana possa arrivare presto a un punto di rottura. Stiamo infatti già sperimentando una drammatica riduzione delle risorse per il calcio. Il passo successivo potrebbe essere la rottura della Lega attuale e la formazione di leghe alternative, come è infatti avvenuto negli Stati Uniti.
Esistono profonde differenze tra le leghe americane e quelle europee. Negli Stati Unitile, le leghe sono chiuse, è difficile essere ammessi, non esiste retrocessione né promozione, si usano vari vincoli amministrativi – salary cap, rookie draft. Inoltre, le squadre possono spostarsi sul territorio, tanto che ricattano la città in cui giocano con la minaccia di trasferirsi altrove.
In Italia è una minaccia improponibile: l’idea della Roma o del Napoli che giocano ad Ascoli o Milano fa sorridere. D’altra parte, le squadre più deboli potrebbero avere cospicui vantaggi dall’organizzazione di un campionato alternativo, tra provinciali, dove non vi sarà il grande evento, ma sicuramente la chance di giocare, competere e vincere de temps en temps.
Il passaggio a una vendita collettiva dei diritti da parte della Lega potrebbe aiutare questo progetto? Sì e no. Il problema degli sport americani è il potere di monopolio delle diverse leghe, il fatto che questi cartelli esercitano in modo spietato un potere di mercato con pratiche anticompetitive. Anche con la vendita individuale dei diritti è possibile immaginare un meccanismo chiaro e condiviso di redistribuzione delle risorse che mitighi il potere dei club più forti e aumenti il grado di competitive balance. E la definizione di un tale meccanismo è forse più facile all’interno di una gestione comune da parte della Lega: si può sfruttare l’azione congiunta, vi sarebbero minori problemi di coordinamento, ma forse più collusione; e si potrebbe forse ricavare una rendita maggiore dagli operatori televisivi. In ogni caso, ciò che serve è un meccanismo chiaro, trasparente, predefinito e condiviso di distribuzione degli introiti del calcio tra le diverse squadre che appare poco dipendente dalle modalità di vendita dei diritti calcistici.
O si studiano e si introducono meccanismi di riequilibrio della forza relativa delle squadre – nessuna deve dominare o stravincere – oppure, oltre alla riduzione delle risorse, vi sarà un’elevata instabilità degli assetti di governo del calcio. Strumenti utili, anche se in parte imperfetti, potrebbero essere un tetto alle risorse spendibili, un monte salari definito per i giocatori di ogni squadra (ad esempio, in relazione al fatturato), meccanismi di scelta inversa dei giocatori – chi arriva ultimo sceglie per primo –, insieme a formule di redistribuzione più o meno egualitarie. La riduzione del grado di monopolio è l’unica soluzione per preservare l’interesse nel gioco più bello del mondo.

L’Antitrust in campo, di Nicola Giocoli (02-02-2006)

Immaginiamo che esista un equilibrio perfetto tra tutte le centotrentadue squadre di calcio professionistiche italiane, nel senso che, ad esempio, il Pisa o il Prato valgano sul campo esattamente quanto la Juventus. L’analisi economica applicata allo sport ci dice che sotto questa ipotesi nei venti anni dal 1976 al 1995 esattamente 24,5 squadre diverse avrebbero dovuto piazzarsi nei primi due posti della serie A. In realtà, solo dodici squadre sono davvero arrivate tra lele prime due, pari a circa il 49 per cento rispetto al numero teorico. Questo non stupisce, dato che l’ipotesi di perfetto equilibrio è chiaramente falsa.

Niente di nuovo nella serie A

Tuttavia, negli ultimi dieci anni (1996-2005) il gap tra teoria e realtà si è allargato.
In teoria, più di diciassette squadre diverse avrebbero dovuto piazzarsi nei primi due posti in classifica, mentre in realtà solo sei squadre, pari al 35 per cento, hanno ottenuto tale risultato. Risultati analoghi si trovano per i piazzamenti nelle prime tre o quattro posizioni. Di fatto, negli ultimi dodici campionati di serie A nessuna squadra nuova è arrivata nelle prime tre, intendendo per “nuovo” un club che non fosse già arrivato nelle prime tre almeno una volta a partire dal 1946-47.
Questi semplici dati confermano la sensazione diffusa che la nostra serie A soffra negli ultimi anni di un grave problema rispetto a ciò che gli economisti dello sport chiamano competitive balance e che potremmo tradurre come “equilibrio sul campo“.
Il 1996 è anche l’anno in cui la legge 586 ha sancito la natura di impresa delle società sportive professionistiche e l’ultima stagione in cui la Lega nazionale professionisti ha distribuito in maniera paritaria i ricavi derivanti dallo sfruttamento economico dei diritti televisivi relativi ai tornei di serie A e B ed alla Coppa Italia. Non pare azzardato dunque ipotizzare che proprio al mutato regime di ripartizione di tali proventi, e in particolare al passaggio dalla negoziazione collettiva dei diritti televisivi a opera della Lega alla loro titolarità individuale, sancito dalla legge 78 del 1999, debba attribuirsi il peggioramento dell’”equilibrio”.

Calcio e concorrenza

Oltre che della legge 78, che in realtà ha solo confermato l’orientamento univoco dei nostri tribunali, la titolarità soggettiva dei diritti televisivi è frutto dell’azione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che sempre nel 1999 ha svolto un’istruttoria ai sensi della legge antitrust per violazione del divieto di intesa tra imprese. Ciò che in sintesi l’Agcm imputava alla Lega era proprio la contrattazione collettiva dei diritti televisivi del campionato – tema che a partire sempre dal 1996, con la scadenza del primo contratto con l’allora Telepiù, era divenuto di pressante attualità nel calcio italiano, tanto da portare nel maggio 1998 alla prima grave spaccatura in Lega con la bocciatura della proposta di nuova contrattazione collettiva per il periodo 1999-2005. La certezza di una condanna da parte dell’Agcm e la contemporanea approvazione della legge 78 induceva la Lega a modificare il proprio regolamento, conservando la sola titolarità a rappresentare collettivamente i club di A e B nella vendita degli highlights del campionato e delle partite di Coppa Italia e lasciando invece alle singole società la piena disponibilità dei diritti pay-tv e pay-per-view sulle partite casalinghe, fatta salva una quota dei proventi da riservare al club ospite.
Oggi si caldeggia da più fronti il ritorno alla contrattazione collettiva proprio al fine di ripristinare condizioni di maggiore “equilibrio sul campo”. Tale soluzione sarebbe in linea con quanto suggerito dagli economisti dello sport. È infatti un risultato consolidato in dottrina che meccanismi di redistribuzione dei proventi tra i club sono condizione sufficiente e spesso anche necessaria per aumentare l’”equilibrio”. Ciò vale in particolare per i campionati europei di calcio dove, a differenza degli sport professionistici americani e nonostante la quotazione in Borsa di parecchi club, la motivazione principale dei proprietari delle squadre rimane il raggiungimento del successo sportivo piuttosto che del profitto.
La teoria economica offre diversi modelli di redistribuzione, tra cui appunto una gestione centralizzata dei proventi (il cosiddetto pool sharing) del tipo praticato dall’UEFA per la Champions League. Proprio quest’ultimo esempio suggerisce come superare le eventuali obiezioni sul piano dell’antitrust: nel luglio 2003 la Commissione europea ha autorizzato l’UEFA a proseguire nella cessione collettiva in virtù del vantaggio per il consumatore finale di acquistare il prodotto complessivo “Champions League” piuttosto che le partite delle singole squadre. Non dovrebbe essere difficile estendere tale argomento alla serie A e B, stante la recente disponibilità manifestata dalla nostra Authority e il fatto che essa lo ha già applicato nel 1999 per gli highlights.
Come nella Premier League, il riparto dei proventi collettivi potrebbe poi essere in parte legato al piazzamento in classifica ed alla popolarità delle squadre.
Naturalmente, la contrattazione collettiva non è l’unico modo per redistribuire le risorse e assicurare l’”equilibrio sul campo”. Attualmente la Lega prevede un complesso meccanismo di riparto, la cosiddetta mutualità. I fautori del mantenimento dei diritti soggettivi propongono di agire piuttosto su tale meccanismo e proprio i recenti casi antitrust suggeriscono che andrebbero presi in parola: sia l’Agcm che la Commissione europea affermano infatti che è comunque possibile conciliare diritti soggettivi ed “equilibrio sul campo”, a patto di applicare un sistema fortemente progressivo (in funzione dei ricavi societari) alle quote d’iscrizione alla Lega e al campionato. Di fronte a una solida maggioranza in Lega disposta ad adottare un simile e del tutto legittimo meccanismo, magari con aliquote da “esproprio proletario”, anche gli ultras dei diritti soggettivi forse tornerebbero ad apprezzare le virtù della negoziazione collettiva.

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